Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi ci dedichiamo a titoli del 2006, con Rec, Ghost in the Shell - Stand Alone Complex - Solid State Society e Tekkon kinkreet.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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8.0/10
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E' proprio vero: non c'è soddisfazione più grande, per noi appassionati di serie animate giapponesi, dello scoprire che un titolo scelto a caso tra i tanti, senza aver letto neanche un parere a riguardo, ma guardato solo perché breve e poco impegnativo, si riveli essere quello che proprio non ti aspettavi: una piccola chicca!
Intendiamoci bene, non sto dicendo che "Rec", breve serie della Shaft di nove episodi della durata di soli dodici minuti ciascuno, sia un mini capolavoro, la scoperta delle scoperte da quando guardo gli anime subbati; sto solamente facendo notare come a volte per puro caso ci si imbatta in opere che fanno il loro dovere, intrattenendoci e divertendoci magari molto di più di altre più reclamizzate, che oltre a deluderci riescono pure nella poco mirabile impresa di annoiarci a morte.

La storia della giovane Aka è molto semplice - d'altronde la brevità della serie non consente incredibili voli narrativi -, ma ben definita sui due binari della storia d'amore con il più grande Matsumaru, creator pubblicitario, e della realizzazione dei propri sogni, quelli di diventare una doppiatrice professionista. Aka infatti ha imparato ad amare il cinema sui grandi classici, nutrendo una vera e propria ossessione per Hudrey Hepburn, e sarà proprio grazie a uno dei film più famosi di quest'attrice, "Vacanze romane", che conoscerà il ventiseienne creator in piena crisi per un rifiuto amoroso. Attraverso una serie di coincidenze - un po' forzate a dire il vero - la giovane aspirante doppiatrice finirà non solo per andare a vivere con il ragazzo, ma anche a lavorare con lui, dato che il suo primo incarico importante sarà quello di prestare la voce a Nekoki, la mascotte (piuttosto bruttina a mio parere) creata proprio da Matsumaru per la pubblicità di uno snake. Tra alti e bassi, la storia d'amore si svolgerà secondo i cliché del genere, mentre a colpire veramente l'attenzione dello spettatore sarà la descrizione di un mondo ai più davvero sconosciuto: quello dei seiyu, i doppiatori giapponesi.

Attraverso le vicissitudini di Aka si constaterà quanto questo sia duro e quanta concorrenza bisogna affrontare per ottenere una parte anche piccola, e di quanta fortuna bisogna avere dato che il proprio successo a volte è intrecciato alle fortune del prodotto a cui si è legata la propria voce, anche se quel prodotto non è proprio il massimo che si cercava. La protagonista imparerà sulla sua pelle che "un lavoro è un lavoro, e quindi non va rifiutato", riuscendo così, in parte grazie al successo di un videogioco ecchi su cui aveva lavorato, in parte con tutto il suo impegno, ad arrivare alle porte dell'olimpo delle serie animate, diventando famosa al pari di quegli attori su cui tanto fantasticava.
Dal punto di vista tecnico siamo nella media, trattandosi di un titolo a non elevato budget, con comunque buone animazioni e un chara che fa più di un occhiolino al moe. Molto carine sono le due canzoni originali, la frizzante "Cheer!" e la romantica sigla di chiusura "Devotion", quasi a rimarcare le due nature dell'anime, quella amorosa e quella più da "commedia".
Non posso che consigliare quindi questo titolo a tutti coloro in cerca di una visione fresca e poco impegnativa, sottolineando ancora una volta il fatto che vi porterà a conoscere anche un mondo di cui tanto noi appassionati sentiamo e leggiamo, ma di cui in realtà conosciamo ben poco.



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'Solid State Society' è l'atto conclusivo della saga cyberpunk scritta da Kenji Kamiyama e, presentato sotto forma di un lungo special televisivo di quasi due ore, si presta idealmente a venire ricordato come il terzo vero film di 'Ghost in the Shell' dopo quelli di Oshii (quest'anno lo sarà proprio ufficialmente, trasmesso in 3D nei cinema giapponesi). Duole però constare come, a fronte di due serie televisive eccelse, l'atto finale della trilogia si risolverà in un prodotto semplicemente troppo ambizioso per essere sviluppato in un unico film.

Il soggetto di 'Solid State Society' è, come sempre, impareggiabile: ancora super-hacker e oscure trame governative, ma anche stavolta Kamiyama stupisce nel suo sfruttare la componente cyberpunk per parlarci, con coerenza e naturalezza inattaccabili, di piani per salvare la società dal degrado sfruttando dei particolari Ghost. La nuova idea non è stavolta valorizzata da una sceneggiatura all'altezza, in quanto 'Solid State Society' è sintetizzabile solo in noia e mal di testa: quasi due ore di dialoghi infiniti e cervellotici, con pochissima azione (se non nelle parti finale, as usual) e una mostruosa mole di complessi ragionamenti e deduzioni, tour de force di sopportazione capace di attecchire lo spettatore fin dalle prime sequenze e di fargli assistere, quasi completamente smarrito, al dipanarsi di una storia pressoché incomprensibile.

Vero che, arrivati alla risoluzione del mistero, il soggetto prende forma, ma se si prova a ripensarci successivamente ci si stupisce del gran numero di risvolti che, a fine visione, rimangono comunque mal spiegati o non capiti. Questo perché 'Solid State Society', per quanto soporifero, è narrato in modo addirittura affrettato, con bruschi stacchi da una sequenza all'altra e pochissimo, praticamente zero tempo per portare lo spettatore a comprendere lo sviluppo di trama e la mole di rivelazioni che districano il bandolo della matassa. Inevitabile a questo punto pensare che sarebbe servita una serie televisiva per raccontare degnamente la storia, permettendo di assimilarla coi giusti tempi e di rilassare la testa con qualche intermezzo leggero: purtroppo questo special, a prescindere dalla bontà del soggetto, è serioso dall'inizio alla fine e per questo in più riprese indigeribile, soporifero e confuso.

Qualcosa che si salva fortunatamente c'è, ma a semplici sprazzi: la tesa sequenza di Togusa con sua figlia, la bellissima scena d'azione finale, le intriganti rivelazioni conclusive - comprensive di una sterzata di cybermisticismo - che danno un senso al tutto. Ma è davvero arduo pensare di consigliare 'Solid State Society' solo per una ventina di minuti eccellenti e un'altra ora e mezza pesante e di difficile comprensione. Se, infine, come confezione Production I.G siamo sempre al top, bisogna purtroppo ammettere che a deludermi questa volta c'è anche la Kanno, qui, a mio avviso, in una delle sue prove meno incisive con il suo mal riuscito alternative rock mischiato alle sonorità delle due serie precedenti, score moscio che non mi trasmette il consueto senso di tensione e universalità.

La conclusione salva questo thriller mal scritto e pesante, ma dare un voto superiore alla sufficienza solo per questo sarebbe fuorviante. Per gli amanti di Shirow e della saga anche 'Solid State Society' può meritare un'occhiata per completezza, peccato che pensando a quanto sfacciatamente superiori sono i suoi prequel non si può, infine, che reputarlo l'occasione sprecata di concludere in bellezza una saga straordinaria. Stranamente - considerando che le prime due stagioni sono arrivate - è inedito in Italia.



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Un adattamento - tanto etereo quanto granitico - dall'omonimo manga di Taiyo Matsumoto "Black and White" (Kuro to Shiro), gestito da Michael Arias: "TekkonKinkreet" è il primo americano che si cimenta nel ruolo di regista per un film d'animazione che si evolve nella dualità di ogni estremo: è banale ma complesso, spietato ma clemente, che parla in prosa ma in poesia.

In una città (Treasure Town) che è tutta un tesoro per i protagonisti, in un mondo che è sconosciuto ma desiderato, la sceneggiatura ci catapulta nelle peripezie quotidiane dei Gatti e dei Ratti, della zona della società più bassa, figurata e non, estendendo esplicitamente il disegno della realtà senza cancellature di gomma, all'interno di quel foglio che non è né bianco né nero - né Shiro né Kuro, i protagonisti - ma è tutto e nulla, e basta.
In altre parole, l'antitesi tra due entità, il contrasto di una coppia che continuamente si scambia una parte di sé confondendola con l'altra metà: questa è la chiave per leggere (vedere, meglio) "Tekkonkinkreet"; è lo stesso nome a dircelo: la traduzione letterale del titolo è "cemento armato", nonostante due sillabe siano invertite: cemento armato in giapponese si dice infatti "tekkin konkuriito".

La narrazione, sebbene leggermente cadenzale all'inizio (ma smorzata da una grafica sperimentale e al suo interno antitetica, che fa ritorno al concetto di contrasto), si aggrappa al proprio filo conduttore risalendolo senza fatica alcuna; una narrazione, insomma, rifinita dai ricami di scene d'azione ghiotte di suspense ma allo stesso tempo semplici, di una prevedibilità che non annoia, e guarnita di uno strato delizioso - ma duro - come un dolce morbido ma salato, che è quello della grafica.

La grafica riprende il concetto di lettura dell'animazione, stravolgendone la banalità e sovvertendone l'instabilità: la piacevolezza del reparto grafico di "Tekkonkinkreet" si cela all'ombra del dualismo dello stile di disegno tra personaggi e ambienti, ripiegandosi sui più particolari dettagli di una città immaginaria come quella di Treasure Town e sulle più peculiari sagome del volto vissuto, duro, di due bambini soli, contro tutti.
Una visione panoramica dell'utopia e del desiderio più avido dell'uomo: bramando una città ai propri piedi, l'antagonista, il Serpente, è il destinatario di una vicenda spietata, più della stessa realtà, che riesce a strappare sorrisi e lacrime - è molto più semplice farlo in contesti avversi come questi.

In conclusione, "Tekkonkinkreet" è ciò che voleva essere: un film sperimentale, complicato ma risolvibile, disegnato ai margini di una società che, a sua volta, disegna i margini dei volti di due ragazzi così diversi - ma così vicini - non curandosi di avere affilato troppo la matita da disegno; un'originale produzione interessata a sviluppare, sulla scia che l'innocenza di una tenera età si lascia dietro, l'introspezione di sé, di una vita dura e compatta come il "cemento armato": "Tekkonkinkreet" non è altro che se stesso, un po' diritto, un po' al contrario, dal significato latente, vero.

L'obiettivo che lo studio 4°C si era prefissato era riuscire a creare un titolo del genere. Non diverso. Non differente. Ma questo titolo. È una sorte di perfezione indiretta, nata dalle mani e dalle menti che hanno lavorato allo stesso film.
Una chicca per i cultori dell'animazione. Adatto e consigliato a ogni tipo di pubblico.