Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

In occasione dei Mondiali, appuntamento a tema calcistico con gli anime Hungry Heart - Wild Striker e Giant Killing ed il manga Capitan Tsubasa

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


Per saperne di più continuate a leggere.


-

Se ci capita di nominare Yoichi Takahashi discutendo di anime e manga, nove volte su dieci lo si cita perché si parla della sua opera più celebre conosciuta a tutti gli appassionata di animazione, e non solo, vale a dire “Capitan Tsubasa”, “Holly e Benji” in Italia.
Il mangaka in questione però è anche l'autore di un'altra opera, sicuramente meno famosa di quella appena citata, ma non per questo da sottovalutare o peggio ancora scartare. Sto parlando di “Hungry Heart - Wild Striker”, conosciuto nel nostro paese come “La squadra del cuore”.

Se con “Capitan Tsubasa” ha acquistato fama e notorietà raccontandoci passo passo la crescita di un giovane e promettentissimo campione attraverso un percorso che prevedeva una tipologia d'incontri calcistici basati o quasi su delle “particolarità” assolutamente non comuni ai canonici match che si disputano su un qualsiasi campo da gioco, in “Hungry Heart” non vi è riscontrabile o quasi nessuno di quegli elementi.
Sotto il profilo tecnico riguardante la veridicità del gioco del calcio infatti, l'opera che sto recensendo attualmente è di gran lunga superiore a Tsubasa. Si pensi che in Hungry Heart il risultato di un incontro non è affatto scritto prima ancora di essere disputato come spesso accadeva con Holly e company, dove bene o male si era consapevoli che, almeno prima di una finale, vittoria sarebbe stata; qui tutt'altro, vediamo invece i nostri protagonisti vincere, perdere o pareggiare in qualsiasi momento e con la più assoluta imprevedibilità. I match non sono infiniti, vengono conclusi nel giro di un episodio-due al massimo; non sono presenti colpi o acrobazie spericolate bensì canoniche manovre e azioni attuabili da un qualsiasi team di calcio professionista. Insomma, salvo un paio di casi in cui si assiste a tiri/combinazioni che ricordano l'opera più famosa di Takahashi (ma sempre in scala uno a dieci), “Hungry Heart” per gli amanti più adulti del gioco del pallone è quello che ci vuole.

Analizzato l'aspetto primario che probabilmente è quello che più interessa, si può accennare alla trama comunque interessante che vede il protagonista degli eventi inizialmente non troppo interessato al calcio, o almeno così è quello che vuole fare vedere. Il suo nome è Roy Kanou.
Il motivo di ciò è presto detto: suo fratello Peter gioca nel Milan dove ha un gran successo e Roy così viene spesso avvicinato da ragazzi solo per questa ragione non affatto sostenibile e sopportabile per un tipo orgoglioso, irascibile e rissoso come lui, tanto da indurlo a esternare apertamente il suo odio verso il calcio e a cercarsi altri interessi come la musica.
A seguito di un evento che non vi sto qui a raccontare per non dilungarmi, si trova comunque ad allenare una squadra femminile di calcio capitanata dalla bella Miki e il tempo passato da coach gli è d'aiuto per trovare stimoli che lo portano a indossare nuovamente le scarpette da gioco e a entrare nell'Orange Hill nel ruolo di attaccante, dove conosce tra gli altri due elementi che non passano certamente inosservati: il fantasista Rodrigo e il portiere Sakai.

Il design della serie è discretamente curato nei particolari e le animazioni sono accettabili tutto sommato. L'aspetto di Roy poi è a tutti gli effetti una versione calcistica di Hanamichi Sakuragi, famoso protagonista di Slam Dunk. Entrambi infatti hanno diversi aspetti che li accomunano e, se il carattere come detto poco più sopra è pressoché identico, non da meno è la loro stazza e il colore dei capelli che li raffigura - rossi Hanamichi, arancioni Roy -, assolutamente non comune al resto dei ragazzi presenti nel contesto. Se avete adorato dunque il numero dieci dello Shohoku, vi troverete senz'altro ad apprezzare anche il numero nove dell'Orange Hill.

Detto infine che il doppiaggio italiano si lascia apprezzare con Corrado Conforti tra gli altri a dare voce al nostro protagonista riuscendo a esprimere al meglio il suo carattere forte, deciso e irrequieto, consiglio la visione di quest'anime innanzitutto a tutti gli appassionati di questo sport che hanno così modo di gustarsi un titolo che racconta le partite di calcio per quello che sono (o quasi) senza troppo eccedere. Ma lo consiglio anche a un pubblico sportivo, e non, femminile, dato che vi è pure una sotto-trama sentimentale che potrebbe fare al caso vostro.
Tutti questi elementi a me non sono dispiaciuti, adesso tocca a voi.



-

Anni '80. Il Giappone si è ormai lasciato alle spalle gli anni bui del dopoguerra: il benessere economico si è diffuso a macchia d'olio, i figli dei baby boomer sono lontani dai "figli della sconfitta", e il peso della disfatta mondiale è diventato ormai estremamente labile. Il sentimento d'impotenza e inferiorità rispetto agli occidentali s'è acquietato, il desiderio di rivalsa internazionale ha trovato appagamento nell'esplosione economica che ha portato il Giappone ai vertici finanziari del mondo intero; anche l'insoddisfazione sociale e il desiderio di cambiare il mondo dei baby-boomer si sono spenti nel fallimento delle rivolte universitarie del '68.
Anche il manga, da sempre specchio ideale dell'evoluzione sociale e culturale della nazione, si è adattato, e così il genere spokon, il manga sportivo (per adolescenti).
Non c'è più spazio per gli emuli di Masae Kasai, che rinunciava all'amore e alla famiglia per inseguire il sogno di gloria del suo allenatore Daimatsu e del Giappone tutto; non è più il tempo delle lacrime di Hiromi Oka, del sacrificio dell'amore per il compagno di club Todo, dell'annientamento individuale in cerca della gloria internazionale, degli interrogativi su come sarebbe una vita normale, come quella di tutte le sue coetanee. Le cose sono più semplici, ora: Mila può amare il suo Shiro mentre percorre la sua strada sportiva, ad Hikari è persino concesso uccidere il sogno olimpico in nome di amicizia e amore, mentre i triangoli, i quadrati, gli esagoni, i tetraedri sentimentali hanno la stessa dignità dell'agonismo sportivo. È l'epoca di Yawara, quindicenne abilissima nel judo a cui tuttavia lo sport e la gloria olimpica non interessano minimamente e che vuole uscire con le amiche, sognare l'idol del momento, divertirsi, e non passare ore e ore in una palestra puzzolente di sudore insieme a omaccioni brutti e violenti.
Per i ragazzi vale lo stesso. Si dica addio al Joe Yabuki che bruciava come una fiamma fino a lasciar solo cenere bianchissima, ai wrestler mascherati che mettevano in gioco la vita sul ring, agli orfani novelli pugili in cerca di riscatto per la morte del padre; questo è il decennio delle commedie sentimentali, di Mitsuru Adachi e del suo Touch (mostro da 100 milioni di copie vendute - il manga - e 30% di share - la serie televisiva), in cui il sogno dell'amata è più importante della vittoria di uno "stupido" torneo sportivo.
In uno stato intermedio tra questi due poli, non più dramma del dopoguerra ma non ancora commedia moderna, si posiziona uno dei titoli più famosi del genere, Captain Tsubasa.

Uno dei motivi principali del suo successo planetario, ma che al contempo è probabilmente il suo più grande limite, è il suo concentrarsi solo ed esclusivamente sullo sport. Molto radi, nonchè totalmente insignificanti nell'economia complessiva della storia, sono le parentesi slice of life, sentimentali e scolastiche; decisione più che legittima da parte di Takahashi, ma esistendo più di un'opera in grado di affiancare a sfide appassionanti personaggi psicologicamente approfonditi ed anche una storia più articolata, è cosa buona e giusta premiare maggiormente quest'ultime più che Tsubasa. Su questo versante, a subirne maggiormente le spese è il protagonista Tsubasa, personaggio caratterizzato con rara superficialità e dotato dello spessore psicologico di un foglio di carta, in linea coi dettami dello shounen più mainstream che punta molto del suo fascino nell'immedesimazione dei (giovani) lettori; con un protagonista del genere, forse era davvero impossibile puntare su altro che non fossero le mere partite di calcio. Molto più interessante è ciò che Tsubasa rappresenta: figlio di una famiglia abbastanza benestante (non viene specificato nel dettaglio, ma è palese che non abbia problemi economici di alcuna natura), cresciuto con affetto da madre, padre e amici, è quanto di più lontano si possa pensare dai vecchi protagonisti dello spokon. Eppure il suo comportamento è il medesimo, ancora legato a storie vecchio stile con cui lui, a ben vedere, nulla avrebbe in comune. Il vero erede di Joe Yabuki e compagni è Kojiro Hiyuga, il rivale, il nemico da sconfiggere: orfano di padre, povero e con madre e diversi fratelli minori da mantenere, carico di rabbia e di rivalsa sociale, sfoga sul campo da gioco tutta la sua frustazione, la sua ira repressa, in cerca di un futuro migliore per la sua famiglia. Al confronto, le motivazioni di Tsubasa appaiono risibili, inconsistenti rispetto all'impegno e al sacrificio che riversa nel gioco, incapaci di giustificare la dedizione folle che lo spinge a rischiare danni irreversibili al proprio fisico per la più insignificante delle partite. I ruoli, insomma, si sono ribaltati: il ragazzo di buona famiglia, felice e soddisfatto è diventato il protagonista sempre vincitore, il povero ribelle e violento il rivale destinato alla sconfitta...
Peccato che tale tematica, tale scontro ideologico, si esaurisca alla fine del primo campionato, appiattendo ulteriormente la seconda parte, che corre ai ripari con un'ulteriore spettacolarizzazione delle sfide e delle mosse speciali dei vari giocatori.

Ciò che eleva Captain Tsubasa al di là della propria intrinseca qualità è il suo notevole impatto sociale sui giovani giapponesi dell'epoca, essendo accreditato da giornalisti, giocatori e persino dalla stessa JFA (Japanese Football Association, che inserisce la data di inizio della pubblicazione del manga nella sua cronologia della storia del calcio nipponico) come una delle cause principali dell'esplosione di popolarità del calcio - prima sport semisconosciuto - che avrebbe portato tempo dopo alla creazione della J-League, la lega professionistica di calcio giapponese, ed alla prima qualificazione della sua storia alla fase finale della Coppa del Mondo. Per non dimenticare il suo imprescindibile apporto all'esplosione della narrativa yaoi, con i vari KenKoji e Tsubasa-Misaki che arrivarono ad occupare ben il 10% di tutte le doujinshi yaoi del Comiket del 1986.



8.0/10
-

Una serie animata che riuscisse a descrivere la sfera calcistica nella sua vera forma, oltre che nei frangenti di puro spettacolo che caratterizzano lo sport più bello del mondo, non l'avevo mai trovata, finché non ho scoperto Giant Killing.

Lo spokon manga di Masaya Tsunamoto, o almeno una parte di esso, diviene serie televisiva nel 2010 ad opera dello studio DEEN. Figura di rilievo all'interno della trama non è alcun calciatore in attività, ma piuttosto un ex-giocatore giapponese trentacinquenne che, dopo aver suscitato curiosità in terra inglese come allenatore di un piccolo club di seconda divisione ed essersi guadagnato il soprannome di 'Giant Killing', prova a replicarsi anche in patria, ponendosi alla guida della squadra in cui militava, l'East Tokyo United (ETU), che parrebbe destinata a una retrocessione in lega inferiore. Takeshi Tatsumi - si chiama così questo personaggio molto carismatico dai modi un po' boriosi e dalla mentalità vincente, che i conoscitori della materia potranno indubbiamente accostare allo 'Special One' (io ci vedo anche una sottile somiglianza fisica, forse nello sguardo) -, è un protagonista che mi è piaciuto moltissimo, una sorta di Eikichi Onizuka del mondo del pallone, che inizialmente farà storcere il naso a tifosi, dirigenti e calciatori vari a causa delle scelte adoperate, eccentriche e spesso sprovvedute, ma che nel corso di allenamenti, partite di coppa e campionato, ma soprattutto fuori dal campo, riuscirà a farsi accettare e apprezzare come maestro di calcio e di vita dai suoi allievi. D'altronde, come vale per tutti gli spokon ben riusciti, anche in Giant Killing il campo di gioco fa solo da cornice a tutta una serie di considerazioni sulla forza d'animo, la lucidità, la determinazione e quel pizzico di coraggio che si richiedono nelle 'partite importanti' della vita, senza sottovalutare l'importanza del 'gioco di squadra' (come Tatsumi spiega nel bell'episodio finale). Quanto al lato prettamente pratico dello sport preso in esame, l'opera può essere tranquillamente indicata come la migliore 'simulazione calcistica' in circolazione (il FIFA degli anime, diciamo), poiché il realismo investe sia l'azione sul rettangolo di gioco, sia le situazioni di contorno che ritraggono allenatori, giocatori, giornalisti e tifosi in ragionamenti e atteggiamenti assolutamente verosimili. Aver optato per un doppiaggio nelle rispettive lingue di ogni presenza straniera - e ce ne sono tante fra mister e giocatori, proprio come nella J. League - è una delle idee che a mio parere hanno contribuito molto a incrementare il realismo della serie; allo stesso modo la tifoseria, che non si presenta come mero blocco coreografico senza voce in capitolo, ma divisa in più frange, tra 'ultras' e sostenitori nella norma, si caratterizza per l'attiva partecipazione e l'incredibile somiglianza della propria condotta al reale (memorabile una scena in cui il CT della nazionale viene 'sgridato' per le troppe convocazioni); per quanto riguarda il manto erboso, quasi inesistente è la frequenza di numeri rocamboleschi, né nel gioco, né tantomeno nelle statistiche: 'catapulte infernali', contropiedi millenari, palloni che distruggono gradinate o infortuni repentini non sono ammessi in questa serie, a beneficio, ancora una volta, della credibilità. Di certo non manca qualche cliché tipico del genere, ma si tratta sempre di situazioni indotte dai tempi di narrazione (es.: giocatori che si fermano a parlare in campo), e purtroppo le animazioni non esibiscono sempre tutta la grazia del mondo, per colpa di una computer grafica un po' troppo invasiva. Ma insomma, è davvero roba da poco, contando che la regia, il dinamismo di gioco e la fluidità di movimenti dei ventidue in campo confezionano comunque una realizzazione che non ha rivali in ambito di spokon calcistici. E anche la colonna sonora fa bene la sua parte, rendendo ogni match particolarmente eccitante.

Altro grande pregio di questo anime è il fatto che l'aspetto strategico-psicologico non sia stato troppo marcato - come ad esempio in One Outs - in modo da non sforare i limiti del probabile, rischiando di trasformare il nostro Tatsumi in un infallibile profeta e insuperabile genio della tattica. Difatti, l'organico che ha disposizione non può assicurargli strisce interminabili di vittorie, specie a inizio di lega, e il suo cammino sarà fatto di alti e bassi, come lo è per qualsiasi club di media classifica. Inoltre, Giant Killing sa essere, oltre che appassionante, molto divertente, e i toni leggeri della serie non vengono aboliti in favore dell'agonismo, tant'è che perfino nei momenti più intensi di una partita può scapparci un sorriso. L'unica nota dolente di questa serie è ad oggi (2013) la mancanza di una continuazione, anche se il manga ha ancora molto da dire.
Un titolo decisamente consigliato, che gli appassionati di calcio non possono assolutamente tralasciare.