In occasione della prima edizione del WonderCon, il 7 giugno 2015, presso il nuovo padiglione della Fiera del Levante di Bari, Roberto Di Letizia ha introdotto al pubblico dell'auditorium il suo ultimo libro: Ludosofia - Cosa la filosofia ha da dirci sui videogiochi. AnimeClick.it era presente con i suoi redattori: di seguito riportiamo il contenuto della conferenza.

11350065_10206873736712751_1280265364_n.jpgPer chi non mi conoscesse mi presento: sono Roberto Di Letizia, laureato in Filosofia, con un dottorato in Scienze della Mente, e sono un videogiocatore da circa trent’anni, più o meno, da quando ho cominciato a usare il Commodore 64. I miei due interessi, la filosofia e i videogiochi, hanno trovato una sintesi, un’unione in questo libro. In realtà l’obbiettivo principale dell’opera è quello di voler mostrare come il medium videoludico, cioè i videogiochi, possano aprire ad una riflessione anche estesa su certi argomenti come per esempio l’esperienza dell’immersione o presenza, ma anche la morale, l’etica e l’estetica. Quando ho cominciato a scrivere il libro ho scoperto un vero e proprio mondo accademico dietro i videogiochi, i cosiddetti game studies (studi sui giochi), che sono sviluppati soprattutto nei paesi scandinavi e negli Stati Uniti, però piano piano anche in Italia si stanno aprendo a questo campo da un punto di vista accademico. Lo scopo principale dell’opera è duplice, da un lato è destinato appunto a chi nel settore della filosofia volesse vedere nei giochi una possibile applicazione pratica di certi concetti e metodologie d’indagine, ma è soprattutto un’opera dedicata e destinata ai videogiocatori che, al di là della semplice fruizione ludica del medium, volessero approfondire e arricchire la propria esperienza giocando in modo più consapevole. Quindi ho cercato di tirar fuori attraverso la filosofia delle potenzialità insite nell’esperienza del videogioco.

Nella mia opera ho distinto due filoni di ricerca: 1) la filosofia nei videogiochi, i cui argomenti principali sono la definizione di videogioco (che eredita una discussione più ampia su che cos’è un gioco), la fenomenologia dell’esperienza di gioco (che, a mio avviso, si basa sull’immersione), l’etica e l'estetica dei computer games; 2) i videogiochi filosofici (vale a dire quei videogiochi basati su concept filosofici o che mostrano dei contenuti che possono essere collegati alla filosofia o che pongono delle questioni filosofiche), quindi l’ermeneutica dei videogiochi, la rappresentazione di teorie filosofiche per scopi didattici o artistici (per es. 8 Bit Philosophy).

Ci sono diversi tipi di videogiochi filosofici, alcune volte i game designer non hanno l’intenzione di rappresentare dei sistemi filosofici con dei videogiochi, altre volte invece i videogiochi sono basati su dei concept filosofici, su delle teorie filosofiche. Un esempio di videogioco filosofico è The Swapper, basato sulla teoria del rapporto mente/corpo. Un’opera fantascientifica molto interessante che pone delle interessanti questioni filosofiche. Io ho contattato l’autore del gioco e lui mi ha detto che in effetti lui aveva intenzione di esplorare alcune questioni del rapporto mente/corpo proprio attraverso questo videogioco. Un altro esempio è Journey che invece è chiaramente ispirato alla teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche, ma non in modo consapevole, non vi racconto la trama per non fare spoiler. Questi sono due esempi di videogiochi filosofici. La mia opera però, sebbene io mi interessi anche a questi argomenti per vie trasversali, cerca di parlare del mezzo videoludico in quanto tale, del videogioco in sé, facendo anche riferimento ai singoli giochi e cercando di individuarne alcune peculiarità essenziali.
 
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Quali sono le domande ludosofiche che mi pongo nel libro? Sono di tre tipi.
  1. L’esperienza; che tipo di esperienza fa il giocatore quando usufruisce del medium videoludico? cosa distingue l’esperienza di gioco dalle altre esperienze? che rapporto c’è tra l’identità dell’avatar (lo strumento attraverso il quale il giocatore interagisce con il mondo di gioco) e l’identità reale del giocatore stesso?
  2. L’etica; i videogiochi possono essere degli oggetti etici? cioè possono essere considerati elementi di discussione etica? Chiaramente qui si possono aprire tanti spiragli di discussione come il rapporto tra videogiochi e violenza (che viene anche trattato nel libro) e in che modo il game designer influenza l’esperienza morale del giocatore: talvolta il giocatore è costretto a commettere degli atti immorali o ritenuti tali, e appunto ci si chiede fino a che punto il game designer possa influenzare o modificare l’esperienza etica, la morale dei giocatori. Naturalmente ci sono anche altre domande di livello etico.
  3. L'estetica; argomento ampiamente discusso dalla letteratura del settore, e cioè ci si domanda se i videogiochi sono una forma d’arte, se presentano quelle proprietà che li accomunano con le altre opere d’arte e quindi se possono rientrare nella categoria dell’arte e che tipo di esperienza estetica si innesca nel momento in cui facciamo uso dei videogiochi. Queste sono domande che possono mettere in atto le potenzialità riflessive e meditative potenzialmente presenti nel medium videoludico.
Nel piano dell’opera sono contemplati gli argomenti che tratto: la relazione tra videogiochi e giocatore riguardo l’esperienza estetica, la relazione tra videogiochi ed etica, la relazione tra videogiochi e mondo (di quest’ultima parte mi interesso soprattutto degli effetti che i videogiochi possono avere sulla mente, sulla psicologia del giocatore). Lo scopo principale è quello di promuovere un atteggiamento più conscio e critico nei confronti del medium videoludico.

La prima questione che affronteremo, fra quelle presenti nel libro, è la definizione di videogioco. Che cos’è esattamente un videogioco? Inizialmente faccio riferimento a delle teorie classiche del gioco, che non si applicano solo ai videogiochi ma che potrebbero applicarsi a tutti i tipi di giochi. Una definizione classica di gioco è quella data dal filosofo olandese Johan Huizinga nel 1938: “il gioco costruisce un cerchio magico che lo separa dal mondo reale”. Cioè il gioco presenta delle regole che si applicano solo in un determinato contesto, quello del gioco, ma non valgono all’esterno di questo cerchio magico. Il problema è che i videogiochi hanno delle conseguenze nel mondo reale, e quindi il confine tra gioco e realtà viene meno grazie appunto a delle esperienze che nascono dai videogiochi come quella dell’immersione, in particolar modo i videogiochi influenzano l’umore dei giocatori, ne modificano le abilità, il comportamento, in particolar modo il comportamento motorio. Ci sono studi di psicologia che dimostrano come le abilità come la coordinazione mano-occhio possa essere migliorata attraverso l’utilizzo reiterato dei videogiochi, e inoltre comunicano delle idee, cioè colui che progetta il videogioco comunica anche delle ideologie talvolta politiche, talvolta sociali, presenti nel tessuto narrativo del gioco. Quindi questa teoria classica del gioco non è applicabile ai videogiochi proprio perché questi spesso sconfinano nel mondo reale.
 
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Un’altra definizione classica, questa volta data da uno studioso di videogiochi, Juul, appartiene alla teoria della ludologia ed è la seguente: “un videogioco è un sistema di regole con un risultato variabile e quantificabile”. Sostanzialmente un videogioco deve dare dei risultati, di solito un punteggio, oppure deve indicare in modo chiaro e netto quando vinciamo e quando perdiamo. Il risultato è variabile perché appunto possiamo perdere o vincere, richiede uno sforzo per influenzare il risultato, l’esperienza e l’addestramento che si ha nel momento in cui si gioca molte ore al videogioco e ci si sente attaccati al risultato. Dunque la ludologia definisce il videogioco come un sistema di regole con un risultato variabile e quantificabile. Una definizione di questo genere può essere applicata a tanti videogiochi ma non a tutti, per esempio ci sono videogiochi come i simulatori o i gestionali dove non c’è un vero e proprio scopo, non c’è un risultato quantificabile e il sistema di gioco non specifica quando si vince o si perde. Per esempio in Sim City siamo liberi di costruire come vogliamo una città, vestiamo i panni di un sindaco con ampi poteri e siamo totalmente liberi di gestirla come vogliamo. Anche in Microsoft Flight Simulator non abbiamo un’idea chiara dello scopo o di ciò che bisogna fare per poter vincere, semplicemente siamo liberi di muoverci e di esplorare l’ambiente circostante. Quindi questa definizione è troppo restrittiva, alcuni videogiochi non rientrano in questa definizione.

Un’altra definizione, che viene data da Poole, è quella della narratologia e vede i videogiochi come dei testi narrativi, cioè come delle opere narrative. La narrativa è una sequenza fissa di eventi e la storia è ciò che racconta questa sequenza. Il problema è che spesso i videogiochi non presentano una sequenza fissa ma varia notevolmente in base alle scelte del giocatore, e ci sono giochi dove non troviamo affatto una narrativa, ad esempio in Tetris ogni partita è diversa dall’altra, non c’è una storia che possiamo raccontare, oppure Breakout un altro gioco abbastanza vecchio, in entrambi i casi siamo di fronte a giochi privi di una struttura narrativa. Quindi neanche il concetto dato dalla narratologia è adeguato a definire i videogiochi.
 
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Qual è la definizione che fornisco nel libro? A mio avviso per poter definire un videogioco dobbiamo fare riferimento all’esperienza che viene prodotta nel momento in cui giochiamo, e ho dato questa definizione: “un videogioco è una simulazione interattiva di un mondo fittizio la cui meccanica è controllata da un computer e i cui feedback creano e hanno senso solo nell’esperienza di gioco”. Esattamente in che modo hanno senso questi dati di gioco? Io ho utilizzato un concetto filosofico per poter definire questa esperienza, che è il circolo ermeneutico ludico.

Nel momento in cui il giocatore si impegna, mentre gioca, deve interpretare i dati in base alle proprie capacità cognitive e alle proprie abilità senso-motorie, ma anche alle proprie conoscenze personali e culturali. In altre parole i dati dei videogiochi non sono mai neutri, non sono mai oggettivi, ma vengono sempre interpretati dal giocatore, non solo, nel momento in cui sono interpretati, in base a questa interpretazione il giocatore agisce nel mondo di gioco. Quindi l’esperienza del videogioco è bidirezionale: abbiamo il gioco che influenza il giocatore, e il giocatore che, attraverso la sua interpretazione del dato di gioco, influenza il mondo di gioco. Quindi la mia definizione fa riferimento sia al soggetto che gioca che all’oggetto, che è il sistema di gioco, e non solo al sistema di gioco come facevano le altre due definizioni.

Facciamo un esempio pratico: nel momento in cui il giocatore è impegnato a giocare subentrano quattro livelli interpretativi.
  1. Il giocatore interpreta il dato di gioco innanzitutto come un agente virtuale, cioè interpreta gli oggetti presenti nell’ambiente come opportunità e vincoli di azione integrati nella struttura di gioco in modo da raggiungere certi obbiettivi predefiniti; ad esempio giocando a un action-adventure come può essere un Tomb Rider o meglio un GTA (dove vengono specificate le missioni), il giocatore interpreta l’ambiente come se fosse l’agente virtuale non come se fosse se stesso. Quindi in un certo senso deve anche integrare la sua identità con quella dell’agente virtuale.
  2. Il giocatore interpreta i dati di gioco anche come individuo, ad esempio un’opportunità di azione può essere riconosciuta da chi ha un repertorio ludico molto esteso: chi conosce bene uno specifico genere di gioco può sapere già cosa fare e come interpretare gli oggetti presenti nell’ambiente, o anche in base alla phronesis ludica, cioè la propria capacità di rilevare questioni morali all’interno del videogioco. Quest’ultima dipende molto dalla sensibilità soggettiva perché sappiamo bene che essendo un mondo simulato spesso i giocatori commettono atti immorali senza delle conseguenze reali. La capacità di rilevare un dilemma morale all’interno di un videogioco talvolta è lo stesso game designer a stimolarla, per esempio in The walking dead, un’avventura grafica, spesso il giocatore deve fare delle scelte morali, cioè decidere se aiutare una persona piuttosto che un’altra e questo dipende dai propri valori morali.
  3. Nell’interpretazione del dato di gioco subentrano anche il giocatore in carne ed ossa, le sue capacità cognitive e le abilità senso-motorie, ad esempio la capacità di controllare in modo adeguato l’avatar dipende dalle nostre capacità di controllare l’occhio e la mano, e questo deriva sempre dal nostro apparato percettivo.
  4. Infine noi interpretiamo i dati di gioco anche attraverso la comunità dei giocatori, ovvero quando giochiamo on line, ad esempio in World of Warcraft, possiamo decidere di aiutare un altro giocatore perché intervengono i valori di riferimento espressi dalla comunità di giocatori a cui noi aderiamo.
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Come potete ben vedere l’idea che abbiamo di solito del gioco è semplicemente quella di un dato che influenza il giocatore in modo passivo. In realtà i videogiochi non sono qualcosa di passivo ma qualcosa di attivo ed è un continuo scambio tra giocatore e sistema di gioco, uno scambio che è interpretativo. Ho inserito due esempi per spiegare che cos’è il circolo ermeneutico ludico. Nel primo caso abbiamo un gioco di Hideo Kojima, Metal Gear Solid 5: Ground Zeros, uno stealth in cui bisogna conseguire l’obbiettivo senza essere individuati dai propri nemici, quando si viene individuati cambia la strategia di gioco e diventa molto più di azione. Nel momento in cui si trova in questa situazione (vedi slide) il giocatore interpreta l’ambiente in un determinato modo. Ad esempio il muro viene interpretato come un modo per nascondersi (il giocatore si è integrato identificandosi con l’agente virtuale) ma anche in base alla sua esperienza di gioco perché sa come funziona uno stealth, inoltre perché ha deciso, in base alla comunità di appartenenza, di giocare senza farsi individuare. In una semplice immagine possiamo vedere come il giocatore interpreta un singolo dato in tanti modi in base a questo circolo ermeneutico. Ho inserito anche Infamous: Second Son. In questo caso si chiede al giocatore di fare una scelta morale: denunciare una persona a lui cara oppure autodenunciarsi? E’ una scelta di tipo morale e verrà fatta in base ai suoi valori morali. Anche qui subentra un processo interpretativo del dato di gioco.

Questa parte rappresenta la sezione più tecnica del mio lavoro in cui mi soffermo prevalentemente sull’immersione o presenza, ovvero la percezione di essere presente nel mondo virtuale di gioco, e cerco di individuare i fattori che contribuiscono a formare quest’esperienza immersiva. La presenza è un'esperienza genuina che ha luogo quando l'interazione tra medium e utente pone le condizioni per estendere la nostra esperienza del corpo (embodiment) nel mondo virtuale. Dal momento che si tratta di un argomento piuttosto vasto vi dico semplicemente da cosa dipende quest’esperienza a partire dallo studio della fenomenologia che è una disciplina filosofica che studia in modo analitico l’esperienza. A mio avviso noi facciamo esperienza di immersione nel mondo di gioco perché riusciamo a controllare le nostre azioni all’interno dell’ambiente virtuale in modo sensato, le controlliamo attraverso delle correlazioni senso-motorie e riusciamo a eseguire delle azioni finalizzate, cioè degli scopi. Sono gli scopi sensati realizzati nel mondo di gioco a contribuire all’esperienza genuina che consiste nell’immersione.
 
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Quando facciamo esperienza dell’immersione? (Qui ho inserito The Last of Us, uno sparatutto in terza persona con delle componenti stealth). Esattamente noi facciamo esperienza dell’immersione nel momento in cui percepiamo l’ambiente di gioco come uno spazio egocentrico e situato. Egocentrico significa che lo spazio è specificato dai nostri assi corporei: destra, sinistra, avanti, dietro, alto, basso. Questi assi sono specificati dal nostro corpo, non appartengono a uno spazio oggettivo ma soggettivo, e quando noi ci muoviamo in un ambiente di gioco utilizziamo questi assi. Lo vediamo anche quando giochiamo online con i nostri amici, per indicare la presenza del nemico lo indichiamo a destra o sinistra utilizzando quegli assi che hanno come punto di riferimento il nostro corpo, quello fisico e non quello virtuale del nostro avatar. Perché avviene questo? perché si è innescata un’esperienza che è quella dell’immersione, cioè noi facciamo esperienza dell’essere presenti nell’ambiente virtuale, e questo è possibile perché iniziamo a controllare in modo sensato il nostro avatar e a realizzare degli scopi e delle azioni finalizzate. Ho individuato tre gradi di presenza videoludica:
  1. Il medium (monitor, controller, avatar) diventa trasparente all'esperienza del giocatore;
  2. l'avatar diventa un'estensione protesica del giocatore attraverso cui eseguire azioni e realizzare obiettivi nel mondo di gioco;
  3. il giocatore fa esperienza di una ricollocazione spaziale del proprio corpo in quanto percepisce lo spazio dell'ambiente di gioco in modo egocentrico e situato.
Un altro argomento da me trattato riguarda il rapporto tra etica e videogiochi. Qui ho inserito altri due giochi dove si chiede di fare una scelta morale. Il primo è Bioshock dove il giocatore può scegliere: o uccidere una bambina per acquisirne la linfa o salvarle la vita. L’altro gioco preso come esempio è Far Cry 3, dove invece si può decidere se uccidere la propria compagna e unirsi a un gruppo di malviventi (qui c’è tutta una storia dietro) oppure salvarla. Questo dimostra come i videogiochi non sempre sono semplicistici ma talvolta ci pongono di fronte a delle scelte morali. In base a cosa noi facciamo delle scelte morali all’interno dei videogiochi? A mio avviso i videogiochi possono essere oggetti etici e morali in quanto sistemi di regole che vincolano possibili esperienze creando valori morali messi in atto, interpretati o giudicati dai giocatori. La scelta morale di salvare la bambina è un vincolo nella nostra esperienza, il game designer ci sta dicendo che noi possiamo fare una scelta piuttosto che un’altra e in questo modo sta influenzando la nostra esperienza di gioco ma anche la nostra esperienza morale: salvare o non salvare una persona.
 
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Per quanto riguarda l’esperienza morale subentrano quattro fattori:
  1. Il giocatore come essere morale che rileva o fa emergere potenziali situazioni morali nel gameplay.
  2. Il giocatore può creare valori etici nel gioco (questo è presente soprattutto nei massive multiplayer online games dove si creano delle comunità con dei valori etici di riferimento), il giocatore può liberamente rilevare dei dilemmi morali e dei dubbi morali all’interno dei giochi, ad esempio ci si può chiedere se sia giusto o meno, nel momento in cui stiamo svolgendo una missione, uccidere degli innocenti. Spesso si uccidono e basta senza neanche pensarci, però se noi facciamo riferimento a dei valori morali, e molti giocatori lo fanno, decidono di complicare la propria missione per non uccidere appunto degli innocenti, questo perché loro stanno interpretando in modo morale la loro esperienza di gioco.
  3. A influenzare l’esperienza morale non è solo la moralità del giocatore ma anche il game designer che riduce o estende le scelte che possiamo fare, quindi vincola la nostra esperienza.
  4. Il game design può essere eticamente aperto o eticamente chiuso. E’ eticamente aperto quando i giocatori sono liberi di portare la propria moralità nel gioco e l’ambiente di gioco può cambiare in relazione alla propria moralità. World of Warcraft ne è un esempio lampante ma anche Civilization V dove si può giocare on line e i giocatori possono decidere se aderire all’ideologia della guerra oppure a quella dei pacifisti. Questo è un valore del game design perché permette ai giocatori di seguire la propria moralità e di portare i propri valori morali nel gioco.
Quelli eticamente chiusi invece, che sono la stragrande maggioranza, non permettono al giocatore di fare delle scelte morali ma è il game designer a decidere quali scelte deve fare, ad esempio in molti giochi non possiamo uccidere degli innocenti perché non vengono selezionati come dei nemici, questo perché il game designer ha deciso che è immorale fare questa cosa e quindi decide per il giocatore. Eticamente chiuso perché il giocatore non può modificare il gioco in base alla sua moralità e naturalmente nell’esperienza morale del giocatore interviene anche la comunità dei giocatori che hanno dei propri valori morali, come ad esempio quando si aiutano i newby, i neofiti che si sono appena iscritti a World of Warcraft e quindi devono essere aiutati da giocatori più esperti. Questo è un valore morale che non è stato specificato dal game designer ma è stato stabilito dalla comunità dei videogiocatori.

Due esempi di giochi eticamente chiusi: Hotline Miami, un indie game pubblicato nel 2012; Menhunt della Rockstar, del 2003. Nel primo caso noi non sappiamo perché dobbiamo commettere dei crimini molto crudi, semplicemente riceviamo una telefonata con la quale ci viene commissionato di uccidere tutti i personaggi che sono presenti nei vari livelli. E’ eticamente chiuso perché il giocatore non può decidere cosa fare, semplicemente deve compiere un atto che è chiaramente immorale. Allo stesso modo Menhunt parla di un galeotto che deve riuscire a fuggire da un ambiente ostile, una zona industriale abbandonata e infestata di nemici che vogliono solo ucciderlo. Anche qui il giocatore non sa perché deve commettere determinati atti. Si tratta di giochi eticamente chiusi perché non c’è una scelta, il game designer decide che tu devi fare questo e basta. Ho selezionato questi due giochi in particolare perché rappresentano la radicalizzazione del concetto di gioco eticamente chiuso e a mio parere in questi casi il game designer ha voluto sottolineare questo aspetto. Hotline Miami rappresenta in un certo senso proprio l’assurdità di un gioco eticamente chiuso e l’assurdità di molte strutture di videogiochi. Addirittura a un certo punto il gioco stesso ci chiede se ci piace uccidere la gente, in modo molto diretto, a rappresentare l’estremizzazione di un gioco eticamente chiuso.
 
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L’altro argomento trattato è il rapporto tra videogiochi e mono reale, in particolar modo mi sono soffermato sul rapporto tra videogiochi e neuroscienze, e tra videogiochi e arte. La domanda che mi pongo in questo senso è: quali sono gli effetti dei video giochi sulla mente e sul cervello? e sono davvero dannosi per la salute? Anche qui ho selezionato dei lavori di psicologi e neuro-scienziati che hanno individuato sia elementi positivi relativi all’utilizzo intensivo di videogiochi, che negativi, quindi dannosi per il comportamento così come sui nostri processi mentali e cognitivi. Ci sono chiaramente dei benefici cognitivi legati all’utilizzo dei videogiochi, avevo già accennato al miglioramento delle abilità senso-motorie: sostanzialmente chi gioca ai videogiochi sviluppa una capacità di riflesso migliore rispetto a chi non gioca; abilità spaziali, cioè capacità di orientamento; attenzione visiva, cioè la capacità di concentrarsi su alcuni dettagli in un breve lasso di tempo e trattenerli nella propria memoria; tra l’altro è stato anche dimostrato come possono migliorare il rallentamento dell’invecchiamento cognitivo, cioè possono rallentare quel decadimento delle proprie capacità cognitive dovuto all’avanzare dell’età.

Tuttavia è stato mostrato anche che ci possono essere dei disturbi relativi all’utilizzo intensivo dei videogiochi. Ad esempio la dipendenza: alcuni videogiochi utilizzano delle meccaniche che sembrerebbero progettate solo per stimolare il sistema dopaminico (la dopamina è quel neurotrasmettitore che viene rilasciato per rinforzare un certo comportamento). Ci sono giochi nei quali il premio a breve termine (per esempio Diablo 3) risulta essere uno strumento per indurre il giocatore ad attaccarsi ai risultati del gioco proprio perché ogni micro premio droppato dai propri nemici sconfitti rappresenta una piccola ricompensa e questo sistema di piccole ricompense non fa che innescare il sistema dopaminico. Anche questo potrebbe essere un elemento problematico dei videogiochi.
 
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Un altro interessante fenomeno che riguarda un disturbo percettivo è il fenomeno del trasferimento del gioco, che è stato ultimamente studiato. Si tratta di esperienze che consistono nel percepire gli oggetti di gioco all’interno del mondo reale. Questo di solito avviene quando si gioca tanto ad un singolo videogioco. L’effetto più studiato è l’effetto Tetris: i giocatori che giocano molto a Tetris incominciano a vedere negli oggetti reali le forme dei tetramini, i mattoncini del gioco, e ci sono vari studi che mostrano che questo fenomeno avviene anche per altri videogiochi. L’effetto Tetris fra l’altro è studiato anche durante il sonno perché chi gioca molto a un determinato gioco poi sogna anche di giocare a quel gioco. Quindi si parla di disturbi di tipo percettivo.
Ultimo elemento molto interessante: sono state studiate, attraverso la FMRI (la risonanza magnetica funzionale), le aree cerebrali attivate nel momento in cui i giocatori stavano giocando a dei videogiochi aggressivi, violenti, ed è stato scoperto che in quel momento si attivano le stesse aree cerebrali che si attivano nel momento in cui si pensa o si agisce in modo violento, quindi c’è un collegamento fra videogiochi violenti e atti reali violenti. E’ chiaro che bisogna problematizzare questa connessione tra violenza e videogiochi e io la collego al rapporto tra videogiochi e pregiudizi sociali.

Ci sono due grandi pregiudizi sociali che riguardano i videogiochi: il primo riguarda il fatto che siano considerati delle forme culturali secondarie o inferiori e non sono né una forma d’arte e né intellettualmente impegnativi (come vedremo sono due pregiudizi infondati); il secondo pregiudizio riguarda il fatto che essi possano promuovere comportamenti antisociali, aggressivi (mediante l’estetizzazione della violenza, l’esibizione grafica della violenza), sessisti (mediante l’oggettificazione della donna) e razzisti. Anche qui cerco di demolire questi pregiudizi. Innanzitutto mi chiedo: i videogiochi non sono opere d’arte? Ho inserito qui due esempi: Super Mario Bros e Flower sono stati esibiti alla mostra The art of videogames organizzata dallo Smithsonian American Art Museum, uno dei più importanti musei degli Stati Uniti e questo è un sintomo di come stia cambiando la percezione estetica di questo medium.

Se i videogiochi non fossero arte non presenterebbero le seguenti caratteristiche che rispondono alla definizione di opera d’arte:
  1. possiedono proprietà estetiche positive (bellezza, grazia, eleganza) che stanno alla base del piacere sensoriale, chi gioca sa bene che i videogiochi possono presentare delle proprietà estetiche positive come la bellezza di un paesaggio, ultimamente The witcher 3 ha mostrato come è possibile una perfetta rappresentazione estetica di paesaggi bucolici;
  2. inducono emozioni forti e profonde, talvolta anche emozioni di disgusto che fanno parte anche dell’arte;
  3. sono intellettualmente impegnativi e mettono in discussione modi di pensare o pregiudizi, spesso nelle avventure grafiche o nei puzzle games ci viene chiesto di risolvere dei rompicapo molto complicati che presuppone uno sforzo intellettuale importante alla pari di quello che si può avere quando leggiamo un libro e dobbiamo concentrarci a comprenderne il messaggio dell’autore, ci sono altri giochi invece che sono delle vere e proprie opere letterarie;
  4. hanno la capacità di trasmettere significati complessi;
  5. sono un esercizio di immaginazione creativa;
  6. esibiscono un punto di vista individuale sul mondo, che di solito è quello del game designer. Come potete ben vedere non tutti ma molti videogiochi rientrano in queste definizioni e presentano le caratteristiche fondamentali che definirebbero un’opera d’arte.
 
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Per quanto riguarda il rapporto più problematico tra videogiochi e violenza la domanda che mi pongo è se i videogiochi promuovano comportamenti violenti. Occorre dire una cosa molto importante: spesso quando accade un evento di cronaca nera e chi ha commesso il crimine è un giocatore, subito si cerca la causa del tragico evento o dell’atto violento nell’utilizzo di un determinato videogioco, spesso è GTA ad essere molto criticato, ma chi dà una spiegazione così semplicistica del problema spesso ignora il fatto che noi siamo persone complicate che viviamo in un contesto che non riguarda solo i videogiochi ma in un contesto familiare e sociale molto più esteso e i fattori possono essere molto più complessi. Ad esempio il caso del massacro di Columbine: alla fine degli anni ’90 due ragazzi entrando a scuola uccisero decine di persone e si scoprì che uno dei due era un appassionato di uno sparatutto in prima persona, Doom. Il gioco entrò nell’occhio del ciclone per l’utilizzo che ne faceva questo ragazzo, ma molti dimenticarono che il ragazzo aveva altri problemi, utilizzava antidepressivi ed era vittima di atti di bullismo (problemi tipici della società americana). Quindi per semplificare e non voler evidenziare i problemi della società sovente si cerca di trovare un capro espiatorio e i videogiochi spesso lo sono.

Io invece ho voluto provare un diverso approccio al problema del rapporto tra videogiochi e violenza. Innanzitutto non ci sono studi che dimostrano la correlazione tra atti violenti e uso dei videogiochi con contenuti violenti, anzi è stato dimostrato che da quando i videogiochi sono diventati uno strumento di massa, quindi dagli anni ’70, la violenza giovanile è diminuita, questo può anche non dimostrare alcun rapporto ma è chiaro che è arbitrario affermare che l’utilizzo dei videogiochi abbia fatto aumentare la violenza giovanile. Chi studia i videogiochi e gli effetti dei videogiochi sulla psicologia dei soggetti ha due tipi di approccio, due atteggiamenti: quello platonico e quello aristotelico. Platone affermava che l’arte è negativa e che la rappresentazione degli eventi come quelli teatrali è negativa perché stimola nello spettatore quei sentimenti che sono rappresentati nell’opera stessa, quindi se viene messo in scena un omicidio o comunque un atto violento, questo stimolerebbe nello spettatore un sentimento negativo di emulazione. Secondo Platone, bisognerebbe evitare l’arte, addirittura eliminare queste rappresentazioni perché potrebbero portare gli uomini a commettere gli stessi atti deleteri rappresentati mediaticamente. A ben vedere questo sarebbe lo stesso atteggiamento di chi utilizza i videogiochi per affermare che questi promuoverebbero dei comportamenti violenti nel mondo reale perché stimolerebbero quegli atti che vengono simulati nel gioco stesso. Questo è un approccio tipicamente platonico.

Aristotele invece affermava il contrario, cioè sosteneva che osservare un atto violento rappresentato equivalesse a liberare in modo catartico lo spettatore e ad aiutarlo in un certo senso a sfogare in modo pacifico quegli stessi sentimenti espressi nell’opera d’arte. Quindi un’altra interpretazione che si può dare dei videogiochi è che invece di promuovere contenuti violenti aiutino i soggetti a sfogare la loro violenza in un mondo sicuro che è quello simulato. Il problema di questi due atteggiamenti è che trattano i videogiocatori come dei soggetti passivi, come privi di senso critico perché verrebbero influenzati in modo negativo o positivo dal videogioco. Dal mio punto di vista invece i videogiocatori sono esseri morali ben responsabili. Responsabili dell’utilizzo che fanno di questi contenuti. La stragrande maggioranza li concepirà semplicemente come delle rappresentazioni, delle simulazioni di atti violenti, altri invece li interpreteranno in modo diverso, come qualcosa che stimola la loro predisposizione alla violenza, la loro aggressività. Questo per dire che di solito il videogioco, per quelle persone che hanno una predisposizione alla violenza o vivono una situazione di frustrazione, non fa altro che innescare ciò che è già presente in questi soggetti, che tenderanno a interpretare in modo realistico i contenuti del gioco virtuale.
 
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Roberto Di Letizia (1981) si è laureato in filosofia presso l’Università di Bari, per poi conseguire il Dottorato di Ricerca in Scienze della mente e delle relazioni umane all’Università del Salento. I suoi interessi di ricerca riguardano la filosofia della mente, la fenomenologia e i game studies. Tra gli articoli pubblicati su alcune riviste filosofiche ricordiamo Esperienza e videogiochi: un modello fenomenologico dell’immersione, presente ne I moderni orizzonti della scienza e della tecnica (deComporre, 2014). Collabora come redattore per un sito italiano di videogiochi.


Fonti consultate:
unisalento.academia.edu