tokyo-godfathers.342.jpgE’ la notte di Natale in una gelida Tokyo imbiancata dalla neve. Alla mensa dei poveri un sacerdote cattolico rivolge la sua predica a una folla di fedeli per la Santa Messa. In fondo alla sala tre vagabondi male assortiti e male in arnese assistono alla cerimonia, sono: Hana, ex drag-queen caduta in disgrazia; Gin, uomo di mezza età alcolizzato; e Miyuki, problematica ragazza scappata di casa. Nella scena seguente ritroviamo i tre che, rovistando tra i rifiuti, trovano casualmente una bimba neonata che piange abbandonata a sé stessa. Gin vorrebbe consegnarla subito alla polizia, mentre Hana, che ha un innato istinto materno chiaramente frustrato, sogna di tenerla con sé e le ha già dato un nome: Kiyoko. Dopo aver trovato alcuni indizi, per comprendere il motivo dell’abbandono e nel disperato tentativo di riportarla alla sua famiglia, i tre improvvisati angeli custodi affronteranno una rocambolesca avventura all'ombra della torre di Tokyo, dove si incontreranno (e scontreranno) con tutta una gamma di abitanti della metropoli fra mille peripezie, svolte inattese e situazioni tragicomiche.

Liberamente ispirato alla pellicola In nome di Dio (The Three Godfathers, 1948) di John Ford, del quale si può considerare una sorta di remake, Tokyo Godfathers è un lungometraggio del 2003 scritto e diretto da Satoshi Kon, co-sceneggiato da Keiko Nobumoto, e prodotto dalla Mad House. Per la sua atmosfera il film si inserisce a pieno titolo nel novero delle favole natalizie al fianco dei grandi classici del genere. Con la sua straordinaria serie di coincidenze, i suoi angeli e i suoi protagonisti sulla strada della redenzione non si può non pensare a La vita è meravigliosa (1946) di Frank Capra. Ma il film non si limita a omaggiare la Hollywood degli anni d’oro (ammantata di speranza e ottimismo consolatorio tipico del new deal), con la sua personalissima impronta stilistica il regista ci mostra la sua passione per il cinema tuot court arricchendo la pellicola con pirotecniche sequenze di comicità slapstick e funamboliche scene d’azione pura.
 
“Siamo barboni senzatetto non eroi del cinema!” (Gin)
 
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I personaggi, che si muovono sulla scena con grazia e leggerezza tra scene esilaranti e momenti toccanti, sono il frutto di un eccezionale lavoro di caratterizzazione psicologica e sono talmente ben tratteggiati e sfumati che presto ci si dimentica di avere davanti dei disegni e si finisce per subire il loro irresistibile fascino e la loro disarmante umanità. I protagonisti sono ritratti a tutto tondo, molto complessi e reali. Miyuki è un adolescente scappata di casa dopo aver accoltellato suo padre, convinta che avesse eliminato il suo gatto a cui era morbosamente attaccata; è la più giovane e bellicosa del trio, sempre in lotta per l'ultimo pezzo di cibo. Gin è un burbero frustrato per aver lasciato moglie e figlia dopo aver contratto debiti di gioco, e si compiange di continuo per la crisi personale che lo ha fatto finire in strada. In una delle scene più memorabili lo vediamo confortare un barbone anziano sul letto di morte e in quel momento ha una visione, un segno, forse, di quello che potrebbe diventare se dovesse continuare su quella china. Particolarmente degno di nota è il ruolo di Hana, per la simpatia del suo personaggio e per la profondità che riesce ad imprimere alle sue battute; è un travestito che aveva aggredito un cliente maleducato nel locale dove si esibiva come cantante. Ha un’indole artistica, il che la porta spesso a sognare a occhi aperti e a recitare versi haiku nei punti chiave della storia. Nello stesso tempo ha un temperamento risoluto, è molto determinata nel tenere unito il suo atipico nucleo familiare ed è molto interessata alla spiritualità, frequenta i servizi cristiani ed esegue rituali shintoisti in modo serio e solenne.  Mirabile la sequenza disegnata nello stile degli Hokusai Manga, in cui Hana mette in scena una poetica metafora della sua relazione con Gin. 

Attraverso le vite di queste tre figure tragiche, Kon ci parla essenzialmente di "umanità", sottolineando la scintilla che ci unisce tutti, nonostante le nostre imperfezioni. La loro esistenza ai margini è una fuga dalle responsabilità e dagli errori del passato, ma attraverso il loro spirito di compassione e la loro volontà di agire uniti come una vera famiglia, contro la discriminazione e l’indifferenza della società, riescono a trovare ognuno la propria via per il riscatto. Pochi anime possono vantare personaggi così espressivi e potenti, e il regista li dirige magistralmente come dei veri attori creando un’alchimia meravigliosa e un momento culminante nella storia degli anime. Anche i comprimari emergono come persone reali, dalla famiglia del generoso yakuza, alla coppia di immigrati clandestini dall’accento ispanico, fino alle comparse che si ritagliano piccole gag nell’arco dell’avventura.
 
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Una sorta di realismo magico pervade la pellicola e un afflato spirituale aleggia tra le scene: molti personaggi ammettono di essere cristiani in una certa misura, o almeno hanno familiarità con la tradizione cristiana e la storia di Gesù. Di certo la serie di incredibili coincidenze innescate dalle scelte dei tre protagonisti e i sovrabbondanti deus ex machina calati nell’intreccio faranno gridare al miracolo e ci convinceranno che i tre siano “in missione per conto di Dio”. Non è un caso che Kiyoko, la bambina trovatella, ha un neo sulla fronte proprio come il Buddha.
 
"Io sono un errore commesso da Dio!" (Hana)

Nel corso della storia vengono fuori diversi temi forti in controluce. Le dissonanti diseguaglianze della società, evidenziate dalla gentilezza e dalla compassione dei tre emarginati che passano attraverso mille difficoltà per restituire un bambino ai suoi genitori. La mancanza di rispetto e l'ipocrisia con cui sono trattati dai più intorno a loro. La forza di volontà: i tre protagonisti avranno qualcosa da imparare, e alla fine realizzeranno che sono responsabili per la loro vita. L’abbandono: non solo la bambina che trovano è stata abbandonata dai suoi genitori, ma anche Gin ha abbandonato la propria famiglia e Hana dice di non aver mai conosciuto la sua vera madre.

Una curiosità consiste nel fatto che alcuni degli eventi descritti nel film sono basati su incidenti realmente accaduti in Giappone nel periodo in cui il film è stato realizzato; in particolare la scena in cui Gin viene picchiato da un gruppo di adolescenti è basata su un incidente simile verificatosi a Tokyo e salito agli onori delle cronache; anche il retroscena della travagliata vicenda di Miyuki è basato su un vero incidente domestico in cui una ragazza adolescente aveva accoltellato il padre dopo un diverbio sul canale TV da guardare.
 
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Visivamente Tokyo Godfathers è sicuramente un lavoro degno di Kon e della sua costante collaborazione con Mad House. Il character design, curato dallo stesso regista in collaborazione con Kenichi Konishi, è molto dinamico e vira spesso in un accentuato stile deformed che esalta l'espressività e la vis comica dei personaggi. Molta attenzione viene posta al linguaggio del corpo e alla naturalezza della gestualità. Ambienti che quasi fanno venire i brividi per il vento freddo e la neve di dicembre. Il paesaggio urbano di Tokyo è descritto nei minimi dettagli in modo molto realistico ed efficace assumendo un ruolo centrale nel racconto. Anche i visitatori occasionali potranno menzionare luoghi di ritrovo alla moda come Shibuya, Ikebukuro, o quartieri come Shinjuku, Roppongi o Akihabara. Molto pochi però saranno in grado di riconoscere la Tokyo invisibile delle periferie, delle baraccopoli nascoste, dei lavoratori migranti, dei vicoli sporchi e dei parchi dove bande di studenti casualmente e brutalmente picchiano i senzatetto nel nome della "pulizia della spazzatura".

La colonna sonora di Keiichi Suzuki è dominata dagli strumenti elettronici, presenta temi freschi e orecchiabili che vengono riproposti con eclettismo su diverse chiavi durante tutto il film, dal dixieland delle prime scene al brioso beat che mantiene alta l’energia positiva e scandisce le scene più frenetiche. Sui titoli di coda un'eccentrica rivisitazione in chiave ska da parte dei Moonriders della Sinfonia n.9, “Inno alla gioia” di Ludwig van Beethoven (un brano che esalta la speranza e la fratellanza di tutta l'umanità) ci ricorda che questo è molto più di un semplice film di Natale.
 
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Messo da parte il montaggio complesso e visionario dei suoi primi due film, Satoshi Kon, alla sua terza prova da regista, si dimostra ancora una volta un autore maturo, completo e di valore assoluto. Affabulatore brillante, mette in piedi una commedia scoppiettante imperniata sulla vivacità dei dialoghi e sulla verve dei personaggi, allestisce un racconto incalzante enfatizzando il realismo dell'ambientazione metropolitana e l’imprevedibilità dell’intreccio. Ai tanti che criticheranno l’irrealistica progressione degli eventi si deve ricordare che la storia si svolge durante il periodo natalizio: sono attesi miracoli. Tokyo Godfathers non è solo estremamente piacevole e toccante, ma riserva anche una quantità immensa di valore morale senza essere moralista, ed emetterà una luce calda di speranza su qualsiasi spettatore che si avventurerà nel visionarlo.

 
Tanti "film natalizi" si concentrano su una percezione superficiale e stereotipata del Natale, ma Satoshi Kon affronta questo tema con un taglio insolito e con la ferma convinzione che il Natale è in realtà una giornata che celebra l’amore più puro, come può essere l'amore incondizionato tra un genitore e un bambino o anche tra un bambino e i suoi tre improbabili padrini. Tokyo Godfathers è molto più che un film sui senzatetto, è un film sulla famiglia, sul perdono e, paradossalmente, sulla casa come focolare domestico.