Prosegue la rubrica in cui presentare le opere più apprezzate dai recensori di AnimeClick.it di un determinato periodo, filone o genere.
In questo appuntamento raccogliamo tutti gli anime compresi tra il 2000 e il 2004. A seguire, una raccolta di recensioni di alcuni dei titoli in classifica.

Siete d'accordo con la classifica? Oppure ci sono opere sopravvalutate o manca qualche titolone imperdibile?
 
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1 Planetes 9,192
2 La città incantata 9,103
3 Haibane renmei 8,929
4 Millennium Actress 8,923
5 Ghost in the Shell - Innocence 8,893
6 Jin-Roh 8,825
7 Fullmetal Alchemist 8,754
8 Samurai Champloo 8,753
9 Tokyo Godfathers 8,711
10 Kino no tabi - The Beautiful World 8,700
11 Mobile Suit Gundam SEED 8,654
12 Hikaru no go 8,636
13 Princess Tutu 8,632
14 Gankutsuou - Il conte di Montecristo 8,564
15 Kigeki 8,551
16 Fantastic Children 8,550
17 Gungrave 8,533
17 Texhnolyze 8,533
19 L'invincibile Dendoh 8,467
20 Il castello errante di Howl 8,427
21 Vampire Hunter D - Bloodlust 8,421
22 Kyou kara maou! 8,385
23 Beck - Mongolian Chop Squad 8,357
24 Full Metal Panic? Fumoffu 8,355
25 Monster 8,333
26 Ghost in the Shell - Stand Alone Complex 2nd GIG 8,318
27 Emma - Una storia romantica 8,267
27 Nadja Applefields 8,267
29 Inuyasha - il castello al di là dello specchio 8,261
30 Azumanga Daioh 8,250
31 Digimon Tamers 8,235
32 Keroro gunso 8,200
32 Kakurenbo (Nascosti nel buio) 8,200
34 School Rumble 8,191
35 Full Moon wo sagashite  8,182
35 Detective Conan: Trappola di cristallo 8,182
37 Mai-HiME 8,171
38 Lupin III - Episode 0: First Contact 8,133
39 Bleach 8,113
40 Hajime no Ippo - The Fighting  8,111
41 Macross Zero 8,091
42 Last Exile 8,089
43 X (TV) 8,088
44 Hungry Heart - Wild Striker 8,080
44 Rozen Maiden 8,080
46 Noir 8,059
47 Kimi ga nozomu eien 8,053
48 Gunslinger Girl 8,045
49 Pretty Cure 8,042
50 Paranoia Agent 8,039
51 Chrno Crusade 8,038
52 Inuyasha - La spada del dominatore del mondo 8,032
53 Chobits 8,017
54 Wolf's Rain 8,016
55 Initial D 4th Stage 8,000
55 Uninhabited Planet Survival 8,000
55 Godannar 8,000
55 Angelic Layer 8,000
59 Beyond the Clouds - The promised place 7,974
60 .hack//Sign  7,951
61 Fruits Basket 7,950
62 FLCL 7,940
63 Bible Black 7,938
64 Appleseed (2004) 7,933
65 RahXephon 7,926
66 Pokémon 3 - L'incantesimo degli Unown 7,909
67 Digimon Adventure 02 7,895
68 Ragnarok - the Animation 7,889
68 Mobile Suit Gundam MS IGLOO: The Hidden One-Year War 7,889
70 Gakuen Alice 7,882
70 Capitan Herlock - The Endless Odyssey 7,882
72 Zipang 7,875
72 Tsukuyomi - MOON PHASE 7,875
72 Melanzane - Estate in Andalusia 7,875
75 Mind Game 7,857
76 Ghost in the Shell - Stand Alone Complex 7,848
77 Elfen Lied 7,847
78 Le bizzarre avventure di JoJo - Prequel 7,842
79 .hack//Legend of Twilight Bracelet 7,833
79 Mahou shoujo tai arusu 7,833
79 Mahou shoujo Lyrical Nanoha 7,833 
 


VAI ALL'ELENCO ANIME ANNI «2000» «2001» «2002» «2003» «2004»
 

8.0/10
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"Planetes" (dal greco Πλανήτης) è un anime del 2003, composto da 26 episodi, tratto dal manga di 4 tankoubon di Makoto Yukimura, prodotto da Yoshitaka Kawaguchi e diretto da Goro Taniguchi per Sunrise.
Il plot è molto semplice. Nel 2075 lo spazio soffre ormai di quella che è comunemente conosciuta come la sindrome di Kessler: le orbite della Terra e della Luna sono invase dalla presenza di numerosi detriti e rifiuti spaziali, provocati dalle collisioni dei vari oggetti presenti nello Spazio, dai satelliti alle sonde. Ogni urto tra i vari oggetti provoca altri detriti, in una reazione a catena che è difficile da arrestare e che provoca molte difficoltà alla navigazione spaziale. Nuovi studi e progetti sempre più all'avanguardia stanno portando all'esplorazione di Giove, ma un gruppo terrorista, il Fronte per la Difesa Spaziale, si oppone a queste nuove espansioni perché porterebbero vantaggi solo alle nazioni più ricche della Terra, mentre le più povere sono ancora costrette a soffrire la fame e la miseria. In questo scenario una piccola squadra di raccogli-detriti, che lavora nella Debris Section della società Technora Corporation, si occupa del lavoro vero e proprio di pulizia dello Spazio.

L'anime può essere suddiviso in due parti: la prima parte descrive la vita quotidiana dell'equipaggio della Sezione Detriti, in particolare dal punto di vista della protagonista Ai Tanabe, giovane ragazza idealista e generosa, alle prime esperienze sullo spazio; la seconda parte si fa più avvincente, si svolge prevalentemente sull'astronave che dovrà partire per Giove, la Von Braun, e ha come protagonista Hachirota Hoshino, detto Hachimaki, esperto di EVA, sognatore, spesso scontroso e problematico, ma molto determinato.
I punti di forza di "Planetes sono": un'attenzione microscopica ai dettagli dell'ambientazione e delle attrezzature spaziali, nonché un'eguale precisione per i dialoghi e le spiegazioni scientifiche. Siamo di fronte a un'opera che non si distacca molto da un buon libro di hard science fiction. Molto realistici sono anche la descrizione psicologica dei personaggi e il loro rapporto con l'ambiente circostante. Le relazioni sociali che si sviluppano nella storia sono salde e particolarmente interessanti. Ogni personaggio è rappresentato a tutto tondo ed esiste una vera e propria rete di interconnessione tra di essi. I drammi di ognuno, i piccoli vizi, le soddisfazioni professionali, le sfumature dei caratteri sono resi in modo minuzioso.

Suggestive sono le panoramiche sul suolo lunare desertico e oscuro e i frequenti cambi di angolazione. I colori pastello dominano e insieme alle luci soffuse della Luna contribuiscono a creare un'atmosfera calma e tranquillizzante. Le musiche sono ben armonizzate e le sigle iniziale e finale sono orecchiabili.
I messaggi di fondo sull'eguaglianza tra i popoli e le nazioni - alla domanda se esista o meno un vero confine tra la Terra e lo spazio, Yuri, dipendente della Debris Section, afferma: "Secondo me non c'è confine, non c'è una separazione, non una reale. No, non ci sono dei veri confini in questo mondo. E credo che sia giusto così". -, sulla potenzialità degli uomini di raggiungere i propri sogni e sull'importanza dei legami affettivi - l'ultima lezione di sensei Gigalt: "Ogni nave ha bisogno di un porto che sia sempre lì ad aspettarla e che l'accolga quando finalmente tornerà a casa, un luogo caldo e sicuro." - sono positivi e incisivi.

Peccato per la lentezza del ritmo di alcuni episodi, soprattutto quelli iniziali, dove la storia fatica a procedere e sono poche le scene d'azione coinvolgenti, e peccato soprattutto per il finale scontato e insipido. C'era da aspettarsi qualcosa di più dall'episodio finale, dopo le belle premesse. Da notare anche che la storia è stata notevolmente ampliata rispetto al manga originale, molto più corto, e che molti personaggi sono stati aggiunti, come il sensei di Hachimaki, Gigalt Gangaragash, e ciò ha portato al cambiamento di molte cose, compresa la conclusione.


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Anime di una delicatezza rara, che ho trovato in ben poche delle (molte) serie che ho avuto la fortuna di seguire.
La storia della prende avvio da idee semplici, ma tutte estremamente originali: una ragazza nasce da un seme, attecchito in una "Vecchia Casa". Non sa chi sia, né da dove provenga, né perché si trovi lì. Si ricorda solo il sogno che l'ha accompagnata. Altre ragazze simili a lei la accolgono. Sulle spalle ognuna di loro ha delle piccole Ali Grigie, che dopo una notte di dolore spunteranno anche a lei. Chi sono queste ragazze? Qual è il senso della loro nascita in una città circondata da mura invalicabili che solo uccelli e particolari individui chiamati Toga possono attraversare? Qual è lo scopo della confraternita chiamata "Haibane Renmei" (Lega delle Ali Grigie) che controlla e regola la vita degli individui nati dai semi? Qual è il significato dei sogni a cui ciascuna di loro è legata? Queste, e molte altre, le domande che accompagneranno lo spettatore fino alla fine. Senza che a tutte venga data una risposta, e forse questo è uno degli aspetti più controversi della serie. Tuttavia, senza paura di spoilerare, io ritengo che l'intera opera in tutta la sua poesia sia una grande metafora della vita umana. Come tale non necessita di risposte o spiegazioni perché neppure la vita le fornisce tutte. "Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?", sono domande che da secoli assillano l'Uomo. E l'unica cosa che l'Uomo può fare è continuare a vivere, e aspettare che altre Ali Grigie nascano dai semi.

Si possono individuare due distinti capitoli nello sviluppo della trama: ad una prima parte di "presentazione" se ne contrappone una seconda più emotivamente coinvolgente. Le due parti trovano congiunzione nell'intensissimo episodio 6.
Dal punto di vista tecnico l'anime è discretamente realizzato, senza infamia e senza lode. Il che è un peccato, perché una realizzazione più attenta gli avrebbe certamente procurato un maggior successo di pubblico, e lo avrebbe elevato senza alcun dubbio tra i capolavori senza tempo dell'animazione. A risentirne è soprattutto la continuità: a scene splendide e animazioni naturali seguono talvolta scene con cura insufficiente per i dettagli. Ottime invece la colorazione e la fotografia, entrambe di grande atmosfera (i giochi di ombre e colori cupi delle ultime puntate sono eccezionali).
La colonna sonora, con il suo carattere sognante e angelico, sviluppa in maniera magistrale la poesia di alcuni episodi e merita anche un ascolto separato. Si segnala soprattutto il brano che funge da sigla iniziale, "Free Bird", che è anche uno dei temi portanti dell'opera. Buona anche la sigla finale, "Blue Flow", specie nella versione breve.
Concludo questa recensione dicendo che questo è un anime che amo molto, e che più di tanti altri è stato capace di emozionarmi e farmi riflettere, di commuovermi e farmi sorridere. Lo consiglio a tutti, senza timore: è impossibile non innamorarsene.


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Avendo impresso un solco profondo nella storia del cinema, grazie a svariati capolavori, il regista Mamoru Oshii in accordo con lo studio della "Production I.G." decide che è ora di iniziare a cercare delle nuove leve in modo da garantire la sopravvivenza dell'azienda. Nonostante il progetto della "Kerberos Saga" sia totalmente legato alla figura di Oshii, che l'ha sviluppata nel corso degli anni nei media più svariati (manga, romanzi, trasmissioni radiofoniche e film), decide di realizzare un film animato appartenente a tale universo che funga da prequel, scrivendo sia il soggetto che la sceneggiatura, ma affidando la regia al suo allievo Hiroyuki Okiura, il quale a soli trentatré anni aveva già lavorato in molti film che hanno fatto la storia dell'animazione (per esempio: "Akira", "Patlabor 2" e "Ghost in the Shell"). Il film uscirà prima nei cinema francesi nel 1999 e poi l'anno successivo in Giappone. In Italia "Jin-Roh: Uomini e Lupi", è stato riproposto di recentemente da Yamato Video, in un'edizione limitata a due dischi (di cui uno contenente oltre cinquanta minuti di contenuti speciali molto interessanti per comprendere meglio l'opera ed i suoi sottotesti), sia in DVD che in Blu-Ray.

Nell'universo alternativo creato da Mamoru Oshii, la Germania ha vinto la Seconda Guerra Mondiale, ma tutto sembra procedere come la storia normale, e infatti, nel giro di dieci anni dalla sconfitta, il Giappone si riprende grazie a uno sviluppo economico senza precedenti. Tutto questo ha creato benessere, ma al contempo anche numerose disuguaglianze sociali, e ciò finisce con il provocare pesanti agitazioni e proteste. Per ovviare a ciò, il governo decide di creare l'organizzazione della DIME, la quale, avvalendosi di membri duramente addestrati, riesce a contrapporsi sempre più efficacemente all'organizzazione terroristica chiamata la "Setta", nella quale sono confluiti i vari gruppi di rivoltosi. Nel 1962, in uno di questi innumerevoli scontri, Kazuki Fuse, membro della DIME, si ritrova innanzi a una giovane terrorista che si lascia esplodere con una bomba invece di farsi catturare, e, a seguito di tale evento, Fuse viene rispedito nuovamente all'addestramento reclute, perché non le ha sparato. L'uomo in piena crisi di coscienza per via dell'accaduto, si ritrova coinvolto negli intricati e labirintici giochi di potere che vorrebbero smantellare la DIME.

Chiunque leggerà questa breve sinossi, capirà immediatamente che non si ritrova innanzi a un'opera qualsiasi, ma invece ha a che fare con un universo molto vasto, complesso e ricco di sfaccettature. Nonostante con un ottimo uso della voce fuori campo all'inizio del film si riesca benissimo a sintetizzare gli avvenimenti salienti caratterizzanti il contesto in cui la pellicola è immersa, si percepisce chiaramente come durante il corso dell'opera si abbia la sensazione di avere assaggiato solo un mero antipasto, facente invece parte di una portata molto più sostanziosa. Sensazione di incompletezza a parte, tutto ciò che c'è da sapere per quanto concerne la pellicola in questione è espresso all'interno di essa e, quindi, i timori di non capire determinati passaggi del film, o peggio la storia, sono infondati. La trama del film si dipana in lunghi, quanto complessi e labirintici giochi di potere dove le varie organizzazioni che si occupano della sicurezza interna si fronteggiano segretamente nel tentativo di prevalere l'una sull'altra, facendo anche uso di metodi illegali pur di riuscirvi.
Tutte le fila dell'intricata vicenda sono mossi abilmente dalle sapienti mani di Mamoru Oshii, la cui sceneggiatura si dimostra ben solida e inattaccabile, visto che tutti i pezzi del puzzle risultano incastrati alla perfezione, riuscendo così a creare un'immagine perfetta di tutti i machiavellici meccanismi presenti. Le fila dell'intera storia non sono facili da seguire e l'attenzione richiesta da parte di chi segue deve essere molto alta, pena perdersi all'interno dell'intricata tela di vicende, finendo così con il non apprezzare l'opera, che a dire il vero fa di tutto per mettere in difficoltà lo spettatore, poiché Oshii, come di consueto, sbatte letteralmente in faccia al povero spettatore un'enorme quantità di informazioni, nozioni, nomi di organizzazioni e personaggi senza un'adeguata presentazione pregressa (che molte volte manca del tutto), così che risulti molto facile perdersi, ma questo è il prezzo per ottenere un effetto più realistico possibile della vicenda.
Dopo che tutte le tessere di questo contorto mosaico avranno avuto la loro collocazione, ci si ritroverà innanzi all'immagine che l'autore voleva comunicarci, cioè una spietata critica all'immobilismo della società giapponese, all'interno della quale è impossibile modificare la propria posizione, cambiando il proprio status attuale. Kazuki Fuse esiste come individuo solo in quanto appartenente all'organizzazione della DIME, poiché al di fuori di essa finirà con l'essere un lupo solitario che cercherà invano di convivere con le altre persone. Con arditi simbolismi e l'uso metaforico della storia di Cappuccetto Rosso nell'originaria versione di Perrault, Fuse verrà squadrato sino nelle profondità della sua psiche in piena crisi, poiché è alla ricerca di una risposta che gli consenta di capire se potrà mai esistere come individuo solitario, oppure dovrà continuare ad essere un lupo in un branco di simili, al cui solo interno potrà collocare la propria esistenza, potendo aspirare al massimo nel potersi travestire da essere umano per poter celare le proprie vere sembianze.

Parlando di "Jin-Roh", si finisce inevitabilmente con il lodare solo quel genio di Mamoru Oshii, il quale ha avuto il merito di scrivere l'intricata vicenda in questione, però in tal modo si oscurano sempre i meriti di colui che dall'alto dirige abilmente tutti i fili della storia, il regista Hiroyuki Okiura. L'allievo di Oshii sfoggia una regia fortemente debitrice verso quella del suo maestro, a cui sicuramente avrà chiesto numerosi consigli per la realizzazione delle scene chiave del film, ma che dimostra avere comunque una forte personalità, riuscendo a conferire un ritmo molto lento e sostenuto alla storia, dando così un forte taglio da cinema live all'intera vicenda, narrata con uno stile molto freddo e documentaristico.
Tutto ciò si riflette nella messa in scena tendente al realismo più assoluto sin nei più piccoli particolari e sia nelle stranianti quanto eclettiche inquadrature degli sguardi spenti dei suoi personaggi, rivolti chissà dove alla ricerca di una risposta ai propri dilemma. Okiura nasce come emulo di Oshii, ma a differenza di molti altri registi che tentano di scimmiottarne lo stile senza comprenderne la vera essenza (vedere i film di "Cowboy Bebop" o "Patlabor WXIII" per fare due esempi), egli nel giro di poco tempo se ne distaccherà, creando un proprio stile personale.

In sostanza ci si ritrova innanzi a un'opera complessa e che sicuramente risulterà indigesta a uno spettatore poco avvezzo, ma dal risultato finale assolutamente riuscito, visto che Hiroyuki Okiura riesce a entrare nell'esclusivo quanto limitato club di registi che sono riusciti a debuttare con il capolavoro. Ad aggiungere ulteriore valore alla pellicola è il fatto che ci si ritrovi innanzi all'ultimo kolossal animato in modo analogico, dove la CGI risulta del tutto assente (unica eccezione è la copertina del libro di Cappuccetto Rosso) a favore delle animazioni a mano, le quali sole riescono a conferire un tocco realistico alla rappresentazione della storia.
Insomma, un film molto avanti per l'epoca, poiché contenente sottotesti che ancora a distanza di anni risultano tuttora attuali, e per questo motivo merita una visione da parte di qualunque persona ami il cinema.


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<i>Si dice che ogni volta si vedano degli uccelli volare nel cielo si senta il bisogno d'intraprendere un viaggio</i>, ma il viaggio non sarà un semplice errare senza meta, ma la scoperta del mondo, in particolare quello interiore, una ricerca della conoscenza e di se stessi.
Tale è il viaggio di Kino, un peregrinare verso l'animo umano e il suo dolore, un capolavoro di tenera malinconia e disincantato cinismo, una sfida di ermeneutica filosofica che conosce pochi degni rivali.
Al progetto prendono parte nomi eccellenti - già meritevoli della partecipazione a titoli notevoli -, diretto da Nakamura Ryutaro, proveniente da "Serial experiments lain" e sceneggiato da Murai Sadayuki, da "Boogiepop Phantom".

Rimarchevole merito dell'opera è la propria chiarezza. Pur essendo una composizione simbolista essa non si ottenebra in un serrato ermetismo come tipicamente avviene, ma intraprende una differente scelta che, coadiuvata da un saggio apporto registico, permetta una puntuale esplicazione dei temi trattati senza scadere in banali artifici tecnici. L'evidenza espositiva, per quanto in prima approssimazione, non inficia in modo alcuno la profondità dei temi sviscerati, che anzi sovente concernono gravosi dilemmi morali e paradossi logici, spaziando dalla sociologia alla gnoseologia, dalla psicologia all'ontologia, dall'etica alla deontologia.
Non è tuttavia da pensarsi che una visione precisa e puntuale non permetta di sviscerare tutti i secondari dettagli che portano alla costituzione dell'integrità dell'opera, particolari i quali verranno colti solo attraverso tale visione successiva e meticolosa e che altrimenti rimarrebbero obliati di primo acchito.

Il simbolico viaggio della vita della giovane Kino, la porterà attraverso diversi paesi dalle peculiari usanze e istituzioni. In questo verranno poste severe sentenze volte a indagare complicati aspetti della realtà, da quello teoretico a quello pratico.
In questo possente inno al nichilismo verrà specialmente sollevata una feroce e impassibile critica alla società, alle tradizioni e all'etica. L'intera opera è improntata al più completo pessimismo antropologico e il suo amaro cinismo accompagnerà con dolce malinconia il finale di ogni vicenda. Lo stesso messaggio conclusivo è la fuggevolezza della letizia per gli uomini e l'insensatezza della realtà, la quale non può essere vincolata da regole e schemi, in una sorta di nietzschiana rivelazione della cruda verità.
Il dolore è insito nell'uomo - queste parole la serie bisbiglia soavemente ma con persistenza - e la sua sede non si trova se non nell'intimo di lui stesso, il seme della distruzione, la metafora del proprio Es, che trascina l'intera realtà in una spirale di assurdità, follia che fonda la società stessa. Dunque, cercando le regole che muovono quest'ultima e una garanzia della sua giustizia, si concluderà nell'impossibilità di trovare una risposta, o meglio, nella certezza dell'inesistenza degli elementi cercati.

La viaggiatrice, metafora del filosofo, prosegue nel suo cammino, uno specchio vuoto e distaccato nel quale si riflettono le persone da lei incontrate e le civiltà da lei conosciute. Se spesso gli individui presentati paiono trascinarsi in una vita vacua, senza una meta che motivi le proprie fatiche se non l'attesa della fine dei propri giorni, la viaggiatrice medesima non è dissimile da loro, mossa in un viaggio virtualmente senza fine, eccettuata la propria stessa distruzione, simboleggiata sia dalla morte sia dal vincolarsi a un luogo, un'odissea perniciosa che porta la filosofa a conoscere sempre più a fondo gli abissi di tenebra che sono alla radice dell'intimo animo umano, in una disincantata ricerca della verità. In questa sofferenza però Kino non risponderà alla richiesta di spiegare la cagione di tale prosecuzione, forse ingannando se stessa o magari non essendole possibile fare altrimenti. Illuminante è a tale riguardo una breve conversazione tenuta con Hermes, la quale prende luogo nella traversata di un fiume sotto a un cielo stellato: <i>"Mi immergo nei pensieri in momenti come questo.", "Che pensieri?", "Il significato del viaggio e della vita.", "E' una malattia comune a tutti gli uomini.", "Mi domando se domani il cielo sarà blu."</i>

Le storie narrate si intrecciano secondo una catena ad anelli, alternando nell'esposizione i differenti topoi suddivisi in episodi non contigui, costituendo un dialogico gioco di rimandi e risposte.
In "Kino no Tabi" tuttavia le risposte hanno un ruolo secondario, relegate a mere comparse, in quanto sono le domande la vera essenza dell'opera, le quali spesse volte non saranno risolubili non essendo possibile scioglierne il dilemma in modo alcuno, come nel tentativo di discernere realtà e illusione, che si rileverà non essere nemmeno una questione, poiché la stessa definizione di realtà altro non è che una creazione dell'uomo stesso, un'ente ideale.

Tecnicamente l'opera gode di un ricercato ed elegante minimalismo, un'ostentata pacatezza che vela ogni respiro, in un mondo dai colori ovattati e spenti. La colonna sonora segue i medesimi principi, senza mai incalzare né appropriarsi della scena, ma pizzicando l'attenzione dello spettatore ove necessario, tacendo altrimenti.
Unico limite della composizione è l'univocità delle proprie deduzioni, che la portano a esaurirsi dopo successive letture contrariamente ai grandi pilastri dell'animazione simbolista che, essendo studiati per essere lavori aperti, non permettono mai il raggiungimento di una soluzione.
"Kino no Tabi" si presenta come la più compiuta opera estesa prettamente filosofica dell'animazione orientale, un lavoro eccezionale che merita di partecipare al firmamento delle migliori composizioni, una rara perla di pessimismo esistenziale e di nichilismo, che dovrebbe essere ben più valorizzata.

<i>Il mondo non è meraviglioso: e per questo lo è.</i>


9.0/10
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"Princess tutu" è una serie del 2002 prodotta dallo studio Hal Film Maker e diretta dal geniale Jun'ichi Satō, che ha lavorato per serie del calibro di Sailor Moon. L'opera è divisa in due stagioni per un numero complessivo di ventisei episodi (ignoto il motivo per cui se ne segnino trentotto), rispettivamente intitolate "Chapter of the Egg", e "Chapter of the Fledgling".

Spesso si è portati erroneamente a credere che le fiabe siano un genere di racconti adatti solamente ai bambini, capaci appena di propinare una qualche morale costruita a puntino senza riuscire ad addentrarsi in riflessioni dotate di una certa maturità e profondità. Ritengo che questo sia uno dei più gravi errori e pregiudizi in cui si possa incorrere. "Princess Tutu" è la prova inoppugnabile di come anche una fiaba possa rivelarsi incredibilmente significativa, tragica e dolce. Questa serie non è altro, infatti, se non una bellissima fiaba, anzi, a voler essere precisi, la si dovrebbe considerare la fiaba delle fiabe, la storia per antonomasia, poiché la riflessione che propone va a incidere sul significato stesso della costruzione di una storia, del ruolo dei suoi personaggi e della funzione del suo autore.

Per capire a cosa mi riferisco si deve però fare qualche passo indietro e andare a scoprire qualcosa di più circa le peculiari caratteristiche di quest'opera.
Non si è trattato certo di un nostro capriccio il voler definire "Princess Tutu" una fiaba; essa presenta infatti i personaggi tradizionalmente propri di questo genere, quali il principe, la principessa, il corvo, il cavaliere, accompagnati da un insieme pittoresco di animali antropomorfizzati e parlanti, dei quali illustre esempio viene fornito dal Neko-sensei. Anche la struttura è apparentemente quella di una semplice fiaba: vi si può comodamente notare la classica contrapposizione tra il bene, il principe, e il male, il corvo, e la strenua battaglia tra i due, che porterà prima o poi al prevalere dell'uno sull'altro. Tale battaglia all'iniziare della serie è però interrotta, perché il principe, per non soccombere al corvo, ha spezzato in molti frammenti il suo cuore in modo da sigillare il suo atavico nemico sotto la città, perdendo così la sua personalità, ma riuscendo a fermare la storia, uscendo dalla stessa. Per aggirare tale ostacolo l'autore decide d'intervenire direttamente e qui iniziano le vicende della nostra eroina Ahiru, aka Princess Tutu.

Ora, per comprendere quest'opera è necessario fare uno sforzo di volontà e cercare di cogliere più di quello che si palesa allo spettatore durante la visione, andando ad analizzare in profondità ciò che viene celato all'occhio disattento. Si tratta dunque di una serie suscettibile a più livelli di comprensione e interpretazione, che lascia ampio spazio alla rielaborazione personale dello spettatore, in grado di ricevere la sua essenza in modi diversi.
Se visto superficialmente, "Princess Tutu" potrebbe apparire come una dolce storia che parla d'amore. Non l'amore giocondo e frivolo comune a molte favole, ma un amore sofferto e tragico, un sentimento che scuote le passioni e i desideri dell'uomo e che contemporaneamente lo affligge, in una stringente morsa di autocommiserazione e di pessimismo. A cosa si anela veramente? Ad amare o a essere amati? Il desiderio che in realtà si cela nei più profondi anfratti dell'animo umano è quello di ricevere gratuitamente l'amore dagli altri, possedere l'oggetto di tale brama solo per se stessi, per soddisfare il proprio egoismo e lenire la propria solitudine. Questo è ciò che pensiamo possa renderci felici. Infatti quale orribile destino, segnato dalla sofferenza, attende chi invece ama senza però essere ricambiato, senza poter godere di quell'amore che in cuor suo offrirebbe incondizionatamente, poiché il crudele fato glielo impedisce? La medesima domanda affligge anche i personaggi, in particolare Rue, principessa destinata a non venire amata da alcuno, la stessa Tutu, il cui fato è quello di svanire per sempre nel momento in qui svelerà il suo intimo sentimento all'amato Queste e tante altre riflessioni emergono dal complicatissimo intrico narrativo che si viene a creare; ad esempio la volontà di fermare lo scorrere degli eventi, di fermare la storia, gettando via i propri sentimenti, dimenticando la realtà per costruirsene una fittizia, sicura per se stessi, dove guadagnare una felicità fasulla, confortevole, ma tanto fragile da crollare inevitabilmente innanzi al mutare degli avvenimenti. La soluzione non è fuggire, rimandando inutilmente la propria sorte per paura di soffrire, ma affrontare faccia a faccia il proprio destino per cercare di cambiarlo.

Interessante notare, poi, come venga reso ambiguo il rapporto tra ciò che è reale e ciò che è fantasia, questi due aspetti si fondono in un confuso e onirico amalgama, sottolineando come la loro differenza sia indefinitamente sottile, tanto da portare, più avanti, a inquietanti considerazioni in merito alla liberà individuale.
Con questo passaggio si arriva a un'analisi più approfondita della serie, quale tentativo di decostruzione del processo che porta alla formazione di una storia. Cos'altro determina le vicende di una narrazione se non la volontà del suo autore? I personaggi all'interno della fiaba non sono che mere pedine di un crudele gioco, marionette che credono d'agire secondo la propria volontà senza sapere che dietro vi è la mano di qualcun altro: dell'autore appunto, il quale determina il tragico fato delle sue comparse, giocando a fare la divinità.
Cosa accadrebbe, tuttavia, se i personaggi, piano piano, si accorgessero di essere manipolati, ottenendo così coscienza della loro condizione? Anche se sapessero che ogni loro atto è già stato deciso, come potrebbero agire di conseguenza, in modo da liberarsi? Come poter essere sicuri che il loro comportamento li porti davvero a realizzare ciò che desiderano e non contribuisca invece allo sviluppo della storia, i cui binari sono già predeterminati dal suo creatore?

Una storia che diventa realtà, la realtà che diventa una storia: qual è la differenza tra questi due processi di creazione? La risposta è che essa è molto labile, ambigua, e ciò comporta il dubbio di essere anche noi, senza saperlo, parte della storia scritta da qualcun altro, poiché non possiamo sapere se le nostre azioni e vicende siano state o meno già premeditate in un progetto più grande di noi, da una mente superiore. Anche l'autore della storia non è esente da questo dilemma, arrivando nelle battute finali a porsi anche lui questo quesito, la cui risposta è ironicamente positiva, poiché egli non è altro che un personaggio dell'anime stesso, una trovata davvero brillante e a mio parere geniale.

Nell'ultima parte della storia i personaggi tentano di liberarsi dall'infausto destino che li accomuna, cercando di evitare la triste conclusione che li attende, imposta dalla sadica mente di Drosselmeyer. Ciò non è tuttavia facile, perché essi non sono altro che i suoi personaggi, all'interno della sua storia, sebbene questa spesso gli sfugga di mano, come del resto può accadere anche al migliore scrittore; per questo egli necessita di una pedina da utilizzare come motore di tutto, e questa sarà proprio la nostra eroina, inizialmente estranea alle vicende e introdotta nella narrazione per farla procedere come previsto. Tutu, inconsapevole del suo vero ruolo, accetta questo compito con determinazione, diventando la "mano" dell'autore all'interno della storia.
Il susseguirsi degli avvenimenti, dunque, si costruisce in parte grazie all'intervento e alle direttive dell'autore e in parte in base alle scelte dei personaggi, nei limiti imposti dall'autore stesso che interverrà quando di dovere, per aggiustare e reindirizzare le vicende sui binari da lui scelti. Egli ha già deciso infatti che l'opera sarà una tragedia, ed essendo questa la sua volontà, arduo sarà cercare di svincolarsi da tali catene. Solamente nel finale si riuscirà a superare l'autore stesso e i personaggi, tornando ai loro ruoli, completeranno da soli la fine della fiaba.

Seguendo questa ribellione, portata avanti dai personaggi della serie, non si potrà che rimanere sconvolti dall'incredibile profondità delle riflessioni presenti, per non parlare della credibile umanità che i protagonisti dimostrano, il tutto reso impeccabilmente da una superba regia.
Il lato tecnico infatti è spettacolare. Pochi anime meritano un elogio così sentito per la loro realizzazione a livello visivo e a livello sonoro.
Le animazioni sono molto fluide e ben realizzate, gli sfondi curati e il character design originale e adatto per una serie di stampo fiabesco. Le atmosfere sono cupe e tristi, la città in cui tutto si ambienta è infatti misteriosa e profondamente incoerente; nessun personaggio però sembra inizialmente accorgersene (se non Ahiru, essendo a esso esterna) poiché, naturalmente, nessun personaggio di una storia si stupirebbe dell'ambiente in cui è calato, nonostante le lapalissiane incongruenze che lo caratterizzano.
Il maggior pregio, dal lato tecnico, consiste nell'incredibile comparto sonoro, il quale fa proprie le musiche composte dal genio di Pëtr Il'ič Čajkovskij.
Esse si adattano alla perfezione con la regia, tanto da lasciare a bocca aperta in più di qualche occasione, risultando oltremodo azzeccate con il contesto, la scuola di ballo, ed entrando in perfetta sinergia con l'intrinseca eleganza ed effimera leggerezza delle movenze dei personaggi, i quali sembrano danzare anche nel mentre della più furibonda lotta.

Purtroppo in questa recensione sono stato costretto, per motivi di spazio, a spietati funambolismi sinottici, riducendo al minimo le considerazioni da me tratte in seguito alla visione di questa splendida opera. Tanto ancora ci sarebbe da scrivere e di cui discutere, ma credo sia ora di pervenire a una conclusione per non tediare il lettore. Porgo i più sentiti ringraziamenti a quanti hanno avuto la pazienza di leggere fino a qui e immancabilmente non potrò che suggerire loro la visione di quest'opera, dolcissima e tragica, a cui vale davvero la pena dedicare il proprio tempo.
Voto: 9.


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Se Dumas fosse ancora vivo mi chiedo cosa avrebbe pensato della trasposizione di uno dei suoi romanzi più famosi, di questa onirica e visionaria follia, di un Conte di Montecristo proiettato in una visione surreale e futuristica che di tradizionale possiede esclusivamente quel gigantesco scheletro narrativo dall'attrattiva inossidabile ed eterna dei grandi capolavori letterari.
A conti fatti, a mio avviso "Gankutsuou - Il conte di Montecristo" può essere tranquillamente annoverato come uno dei migliori lavori dello studio Gonzo, se non il migliore in assoluto. Nonostante la storia di fondo sia leggermente modificata, conserva i punti chiave del drammatico e indimenticabile romanzo del noto scrittore francese, anche se l'ambientazione è totalmente stravolta: in un ipotetico futuro dai toni che ricordano lontanamente qualcosa di "steampunk", la tecnologia più moderna è fusa al classico e al barocco in un intreccio di scelte stilistiche totalmente anacronistico. Scenari come una rinnovata e visionaria Parigi o una sempre soleggiata e semplice Marsiglia fanno da palcoscenico ai ben noti personaggi della storia di Dumas, che non si limitano a tali mete, bensì frequentano anche nuove locazioni che nel romanzo non erano ovviamente citate, luoghi impensabili e fuori da ogni contesto come la luna, dove - assurdo ma vero - si svolgerà una buona parte della vicenda.

Per chi ancora non conoscesse la trama di questo drammatico e intenso capolavoro senza tempo, la stesura de "Il Conte di Montecristo" viene completata nel 1844 da Alexandre Dumas e narra le disavventure di Edmond Dantes, incastrato da persone che credeva sinceri e fedeli amici per una questione di denaro, derubato della propria donna, di tutti i suoi averi e rinchiuso in una segreta per anni. Ma Dantes riuscirà a evadere e ad architettare una lenta, crudele, spietata e inarrestabile vendetta contro tutti quei traditori che hanno trasformato la sua vita in un inferno.
Da come chiaramente s'evince siamo di fronte a un incipit decisamente drammatico che nell'anime in questione viene drasticamente ridotto per ricostruire tali eventi in 26 caleidoscopici episodi, amalgamati sapientemente da una regia eccezionale e irrorati da giochi di luci e ombre a mio parere mai visti prima in una serie animata.
Il male, il cancro della vendetta rode Dantes ogni singolo istante della vicenda, tanto che egli è identificato come un'entità sovrannaturale quanto nociva, l'essenza stessa del rancore che giace all'interno di quel suo cuore marcio e divorato dalla rabbia. Il conte viene rappresentato materialmente come una sorta di creatura proveniente dalle profondità dello spazio, chiara metafora del gelo assoluto che vige nell'arido animo di chi non desidera altro se non bramar vendetta. Tuttavia, esternamente questi tormenti non traspaiono affatto, anzi, il misterioso Conte di Montecristo appare tranquillo, misurato, gelido e calcolatore, privo d'emozioni improvvise o di sbalzi d'umore.

Tramite una sorta di cromatica sperimentale e con animazioni ampiamente sopra la media, Studio Gonzo riesce a ispirare un ventaglio ricco dei più profondi sentimenti umani che vanno dall'amore all'odio, all'amicizia alla gelosia, veri e propri orrori che rodono l'animo umano o lo elevano spiritualmente, e tramite questi filtri modifica leggermente la trama originale e la rende imprevedibile in più di qualche frangente, fino a un finale davvero memorabile.
L'intero cast di personaggi, sia protagonisti sia comprimari, è dotato di uno spessore senza pari, e i doppiatori nella versione italiana si esaltano come in pochi altri anime hanno fatto - talentuoso il doppiatore di Albert, semplicemente divino chi dona la voce al Conte di Montecristo. Ma ciò che più colpisce (e stordisce) è l'innovativa tecnica di trame cromatiche e tonalità sovrapposte a ricreare materiali e superfici, pelle dei personaggi o sfondi lontani: un gioco di luci e ombre, di texture amalgamate degno quasi di un acerbo futurismo che ben contribuisce a un pathos diffuso in tutta la vicenda, ma che colpisce, stagna e risalta negli episodi chiave.
Altrettanto originale la colonna sonora, ricca di brani emozionanti e consoni alle atmosfere drammatiche dell'anime.

La scelta di parafrasare niente poco di meno che il capolavoro di Dumas era una sfida davvero ardua, ma che, a mio parere, Studio Gonzo è riuscita a vincere sotto tutti gli aspetti, plasmando un'opera profondissima, impegnativa e incredibilmente emozionante. Un cult da non perdere assolutamente.


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Nonostante il disegno poco accattivante e diverso dal solito, "Fantastic Children" ha uno stile grafico che mi ricordava qualcosa. E' infatti prodotto da quel Takashi Nakamura, che in Italia è noto per il character design della serie tv di Peter Pan, ma che comunque lavora nel settore da molto tempo e ha avuto modo di lavorare su alcuni capolavori dell'animazione giapponese, come Nausicaa e Akira, nel quale svolse il ruolo di direttore delle animazioni. Dovrò poi riprendere in mano "Robot Carnival", in cui ha curato un cortometraggio, e dovrò procurarmi il film di animazione "A Tree of Palme": voglio vedere altri suoi lavori, "Fantastic Children" mi è proprio piaciuto.
Prodotto nel 2004, "Fantastic Children" dimostra probabilmente qualche anno in più di quelli che ha. Il character design è molto lontano dai prodotti attuali, i personaggi sono semplici, poco accattivanti e presentano alcuni tratti dei visi in certi casi molto pronunciati e quasi caricaturali. Graficamente non è brutto, solo difficilmente sarà notato da chi è abituato agli ultimi prodotti. Probabilmente sarà snobbato dalle nuove generazioni, mentre gli appassionati di vecchia data potrebbero non notarlo a casa della sua anagrafica troppo recente.
Anche a livello di trama ci troviamo davanti a un titolo insolito, che si inserisce nel genere fantascientifico, con contaminazioni di vario tipo e un'ingenuità che comunque non gli impedisce di raccontare una storia complessa e articolata. La vicenda narrata ha una certa epicità, intuibile all'inizio solo dalla sigla di apertura, e si snoda lungo un lasso temporale di quasi 500 anni.

Il primo episodio parte in modo intrigante e misterioso, presentando gli inquietanti bambini dai capelli bianchi con uno sguardo e un atteggiamento insolitamente adulti. Vengono più volte segnalati nel corso dei secoli, ma è solo per caso che qualcuno inizia a studiarli. Se siano esseri immortali, vampiri o creature demoniache non è ben chiaro, vengono chiamati "Bambini di Befort", ovvero una piccola cittadina belga dove sono stati per la prima volta notati. Sembrano cercare qualcosa e vagano per il mondo per trovarlo, combattendo con una strana entità che per quale motivo intende ostacolarli. Poi ci sono altri tre ragazzini, ma qui ci si sposta ai giorni nostri e si parla di bambini come tanti altri: due orfani, ovvero la taciturna e introversa Helga e il suo piccolo amico Chitto, e il coraggioso e inizialmente spensierato Thoma. Inizialmente allo spettatore sembrerà di trovarsi davanti a due anime totalmente diversi, visto che si passa dai toni cupi e misteriosi che accompagnano le parti legate ai bambini di Befort, a quelli più movimentati e classici, che hanno come protagonisti i due ragazzini che cercano di scappare dall'orfanotrofio, aiutati da Thoma. La connessione fra le due parti sembra molto labile, ma ben presto verranno introdotti nuovi pezzi a formare un intreccio complesso e sensato, dove tutto viene spiegato, in modo magari un po' semplicistico, ma decisamente efficace. Come accennato, alcune parti e alcuni passaggi si dimostrano un po' ingenui e poco credibili, eppure sono licenze che ho accolto molto volentieri, sono fatte con estrema naturalezza e rientrano pienamente nello spirito di un'opera che bada più all'intreccio che ai dettagli: un po' come in "Conan il Ragazzo del Futuro", dove Conan precipita da un palazzo e non si fa nulla, così Thoma subisce colpi o si esibisce in evoluzioni che sfidano ogni legge fisica. La cosa non dà fastidio, anzi, è caratteristica di un prodotto che anagraficamente è nato nel 2004, ma è ideato da un autore che fa parte della "vecchia scuola".

Le vicende scorrono in modo fluido, senza un episodio inutile (a parte quello riassuntivo di metà serie), fanservice o altri fronzoli inutili. Tutto verrà spiegato, la fine è molto bella e definitiva. L'anime rimane affascinante anche una volta che tutte le carte sono svelate, i personaggi offrono mediamente una buona caratterizzazione psicologica, sebbene a onor di cronaca ve ne siano alcuni sin troppo lineari che risultano utili soltanto alla progressione degli eventi, visto che non hanno un vero e proprio ruolo attivo in quanto accade. Lo stesso Chitto risulta piuttosto lineare e piatto, Thoma invece lo rimane per buona parte della serie, mentre Helga è silenziosa e inespressiva per la maggior parte del tempo, ma subisce una rapida evoluzione nella seconda parte, quando è messa al corrente della propria situazione. I bambini di Befort sono interessanti sin da subito, ben caratterizzati e ricchi di dilemmi e contraddizioni, con i quali devono combattere ogni giorno. Curioso e piuttosto inutile il personaggio dell'ispettore, che si limita a recitare un ruolo pratico e stereotipato. Dalla parte dei cattivi vi sono personaggi abbastanza interessanti, anche in quanto è difficile capire esattamente cosa stiano cercando e quali siano le loro intenzioni.

Dal punto di vista tecnico la serie tv si dimostra essenziale e poco appariscente: gli scontri sono funzionali, gradevoli, ma ben lontani dall'essere spettacolari. Più che sul come sono realizzati, l'attenzione è sul loro esito e sulle difficoltà che i personaggi devono affrontare. Si fanno notare invece le sigle iniziale e finale, con uno stile classico e lirico, decisamente adatte al titolo. Le musiche fanno bene il loro lavoro, ma merita una menzione il tema della sigla finale, che talvolta viene introdotto negli episodi e diventa il vero protagonista di alcune sequenze davvero evocative e toccanti.
Quello che è certo è che mai e poi mai "Fantastic Children" verrà notato per come è realizzato: l'aspetto tecnico non è certamente il suo punto forte. Lo è l'intreccio che propone, i temi che affronta e soprattutto la narrazione efficace e intelligente. Vi sono molti misteri, vi è molta carne messa sul fuoco e, davvero, è raro vedere il tutto finalizzarsi in una trama piacevole, solida e complessa, senza cadute nel finale.

L'anime appassiona, tiene alto l'interesse e, se siete persone che non si lasciano ingannare da una grafica all'ultima moda, troverete cose che molte produzioni recenti ben più blasonate faticano a riprodurre. "Fantastic Children" sarà di certo snobbato dai più, alcuni vedendo gli screenshots e la sigla decideranno che è un prodotto per bambini e che non vale nemmeno la pena di dargli una possibilità. Si sbaglieranno: è un titolo ormai raro, d'altri tempi, che presenta una storia epica, raccontata con mezzi semplici e, comunque, molto efficaci.


8.0/10
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A volte non hai anche tu la sensazione di essere solo un attore, di essere partecipe di un fiume senza significato, di un «teatro della crudeltà» dove niente può essere diverso da come è, da come sarà, dal modo in cui è stato?
A volte capita, a volte ci si ferma in determinati istanti in cui è come se si aprissero gli occhi per la prima volta su ciò che ci sta attorno, per la prima volta svegli. A volte ci si risveglia da un incubo, altre volte ci si sveglia nella realtà, in una verità che non è un incubo, ma semplicemente quello che ci circonda, dato così com’è. In certi frangenti si percepisce l’inevitabilità, e si vede l’inevitabile di ciò che esiste.

Tra le altre cose, chi ha creato Texhnolyze credo sia partito da ciò, o quanto meno a questo è approdato come colonna vertebrale per tutti gli elementi aggregati nella serie.
Appunto, chi ha creato Texhnolize. Persone che fanno ciò che vogliono, non ciò che vuole il mercato. L’ha diretto Hirotsugu Amazaki, il quale poi con lo stesso stile alienante dirigerà Shigurui, serie incompleta ma morbosa come Texhnolize. L’ha sceneggiato tra gli altri Chiaki J. Konaka, che aveva dato prova della sua singolarità scrittoria con Lain e ne darà altre alla stessa altezza con Ghost Hound e Mononoke. Ne ha disegnato i personaggi Shigeo Akahori, partendo però dal conceptual design di quel Yoshitoshi Abe creatore originale del già citato Lain e del particolarissimo Haibane Renmei. Per chiudere, ne hanno curato le musiche Hajime Mizoguchi e Keishi Urata: compositore delle OST di Jin-Roh e di Escaflowne- the movie, il primo; responsabile del sinth sempre in Jin-Roh, e in Akira, Arjuna, Cowboy Bebop e Wolf’s Rain, il secondo.
Vanno citati, non è per fare il figo che ne parlo, ma per dare un retroscena e contestualizzare la natura di Texhnolyze, e perché sono stati in gamba e meritano un tributo, per quanto conta, per la loro creazione.

L’opera è sperimentale, ma non la più sperimentale mai uscita. È estrema, ma non in misura superiore ad altre che lo sono di più. In parte ciò si deve alla sua durata, poiché ventidue episodi richiedono una costruzione diversa rispetto a dieci o giù di lì. In parte, e soprattutto, ciò deriva dalla storia, dal respiro, da quello che vuole esprimere la serie, da cosa vogliono dire gli autori e da quanto complesso è il soggetto. Il quale in ultima analisi è sfuggente, anzi fino alla fine non si riesce a comprendere del tutto dove voglia andare a parare. S’intuisce però, il che è diverso, è addirittura meglio. Perché l’intuizione è una condizione più interna e sottile che ipnotizza l’attenzione e la spinge alla sete di senso, non di uno sviluppo della trama. Non che questo manchi: nonostante l’articolazione dell’intreccio sia lenta, essa metabolizza sviluppi episodio dopo episodio, e a seguito dello scioglimento di molti nodi ci si rende conto di quanta acqua sia passata sotto i ponti e di quanti “fiori” siano stati trascinati dal suo flusso.
Tuttavia il vero punto non è cosa accadrà dopo, ma trovare la chiave di decodifica del significato di ciò che si vede, della sensazione di occulto che fa tutt’uno con il crepuscolarismo della città di Lux, nella quale la luce è accecante ma impura, dove non c’è limpidezza – se non quella artificiale – ma solo degrado, metallo marcio e polvere in cui si consumano fino alla fine drammi disumani. Sempre sotto una rete di cavi, sempre sotto un cielo vuoto.

Le figure che si muovono in tale scenario sono border line, disturbate nella loro caratterizzazione psicologica e nel loro modus operandi. C’è chi appartiene alla mala, ovvero agli Organo, ai suoi vertici, e di conseguenza si attiene a un’etichetta mafiosa che rispetta un’eleganza d’altri tempi mantenendo la seria implacabilità di ogni clan criminale.
C’è chi loro si oppone, l’Alleanza, i cui membri attuano strategie e sabotaggi di stampo terroristico e sono votati alla conservazione della “carne”, di una carne non “corrotta” dalle protesi articolari figlie della tecnologia Texhnolyze, la quale rappresenta la raison d'être di qualcun altro di davvero significativo nello scenario umano dell’opera.
Poi ci sono ovviamente gli sbandati, i “ragazzi contro” figli del disagio dell’epoca i quali fanno storia a sé, e metà hippies e metà teppisti stanno tra i due schieramenti languendo nelle loro vite in comune, pronti a mordere le caviglie dei due antagonisti quando il momento è critico.
C’è anche chi viene da non si sa dove, da un luogo “esterno” ai territori di Lux; uno scrutatore, un profeta o solo un pazzo che distruggerà gli equilibri e muoverà la pietra angolare del castello di poteri della città.

E poi c’è chi è emarginato da tutto, estraneo al gioco, in cui entrerà a forza ma senza scampo: l’animale mosso solo dalla sua furia frutto di reazioni indotte, in assenza delle quali cade nella passività catatonica. Ichise. E con lui c’è la bambina, Ran, l’enigma, la domanda e la risposta nascoste dietro una maschera, dietro due occhi, sigillate dietro un’innocenza perturbata dalla consapevolezza del tutto, e del sempre.
Altri si aggiungeranno, altre presenze all’inizio celate, le quali forse rappresentano i marionettisti di tutto lo spettacolo, o forse sono anch’esse parte della scena. Di una scena che tra simboli e metafore accumula azioni e procede espandendosi sempre più, fagocitando i suoi protagonisti e le loro storie nel suo climax imperturbabile, fino all’apogeo dell’orrore.

In questa varietà ogni personaggio è manifestazione dell’egoismo e della violenza umani, di un dolore indispensabile all’uomo e che ne definisce la vera natura, senza la quale non siamo che ombre, fatti dell’identica sostanza di queste ultime. Violare il sangue e la carne testimonia la nostra umanità; farlo con la tecnologia la fa trascendere, ci fa evolvere. Come appunto il protagonista di Texhnolize, l’Ichise esasperato dell’inizio che però è il medesimo del proseguo, sempre se stesso anche quando si “texhnolizza” e “civilizza”, anche quando la sua bestialità diventa tanto latente da renderlo irriconoscibile.
«Panta rei». Eppure il fiume è sempre lo stesso. Tutto muta, lentamente, tranne il fato; tutto segue la corrente del suo fato. Solo chi lo osserva esula dalla follia, ne ha avversione e disgusto e lo vive con distacco. Tuttavia a ciò non ne consegue la salvezza perché nell’anime, nel suo nichilismo e pessimismo assoluti, non c’è salvezza, e nel suo epilogo di desolazione e disperazione solitaria non c’è redenzione. C’è solo la realtà dilaniata, solo la concretizzazione di una profezia che ha divorato pure il suo oracolo, perché anche quest’ultimo è contenuto in essa, ne è vittima, come si palesa in due delle scene più strazianti cui si poteva assistere.

Ed è un peccato che il comparto visivo non accompagni sempre la narrazione come questa meriterebbe, o almeno non lo fa al principio. In quanto i disegni inizialmente sono duri, rigidi, un po’ tozzi e colorati con deformazioni poco piacevoli nella distribuzione delle ombre proprie. Le animazioni stesse sono impacciate e macchinose: non c’è naturalezza nei movimenti degli arti, che sembrano azionarsi in maniera indipendente dal resto del corpo, né armonia o quanto meno agilità nella figurazione.
Poi, al contrario di quanto di solito accade con le serie di medio metraggio, le quali sparano la maggior parte delle proprie cartucce nei primi episodi, il tutto si va alzando di livello poco per volta ma in modo evidente, fino a dei picchi conclusivi che giungono a standard di vera eccellenza.

La tecnica diventa così degna sia delle inquadrature, soggettive e oggettive anomale, oblique, frutto di classe immensa; sia degli ambienti, opprimenti, stranianti e ricreanti alla perfezione, con l’ottima fotografia, il vero concetto angosciante di atmosfera post-cyberpunk; sia delle musiche. Queste spaziano fra i generi più disparati – emblema di ciò [a href="http://www.youtube.com/watch?v=u3SzOzm8lmo&amp;feature=related"]l’opening[/a] e [a href="http://www.youtube.com/watch?v=NMM_25fgBJA&amp;feature=related"]l’ending[/a] agli antipodi –, sorprendono per la delicatezza e per l’ispirazione di cui sono capaci e rendono magnetica una visione destabilizzante.
Una visione nella quale i protagonisti si alternano con la loro carica d’agonia: figure sofferte, malate, diverse per caratteri ma identiche nella loro profondità e accomunate dalla sconfitta definitiva e globale, dalla distruzione di un’era che «lascia tutto ciò che è stata in eredità alla terra» – che lascia solo mistero e rovina, dai quali forse sorgerà un ultimo fiore di Rafia e poi più niente.


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Azumanga Daioh è un anime particolare. Al solo sentirne parlare potrebbe sembrare la classica commedia scolastica giapponese, e quindi ricca dei clichè umoristici, a volte sfiancanti, di un genere d'animazione che con difficoltà và rinnovandosi. L'eccezione alla regola è rappresentata egregiamente da quest'opera, che con pochi stratagemmi estremamente efficaci, non trova minima difficoltà a raffigurare una comicità contemporaneamente semplice e innovativa.
Il divertimento nasce dalle avventure di un gruppo di ragazze all'apparenza normalissime, alle prese con le vicende scolastiche.
Una trama inoffensiva, ciò è fuori discussione, ma il discorso prende una piega diversa se analizziamo meglio i protagonisti e le loro azioni, mi spiego: una bimba prodigio promossa dalle scuole elementari alle superiori in un sol colpo; una slanciata ragazza di poche parole con l'ossessione per i gatti; una prof. d'inglese che non sembra abbia molta voglia di lavorare, bensì divertirsi; un professore dal carattere ambiguo e dagli atteggiamenti scomodi, soprattutto nei paraggi di studentesse...questi ed altri sono personaggi che difficilmente si trovano altrove, soprattutto per i modi di porsi e di pensare, che, la maggior parte delle volte, tendono a concretizzarsi nell'assurdo pur rientrando in situazioni che hanno sempre a che fare con il quotidiano.
Le gag di Azumanga Daioh sono alquanto singolari, inserite intelligentemente nel contesto, e si basano in prevalenza sul dialogo. Senza mai provocare sorrisi forzati, le battute procedono a ritmi a volte bruschi, a volte blandi, con l'aggiunta di estrosi aneddoti quali: lunghe pause di silenzio in successione ad esclamazioni particolarmente nonsense; ripetizione rintronante di determinate frasi, parole o azioni (raramente sensate); osservazione di ragionamenti illogici o ancor peggio (o meglio?) per nulla inerenti ai discorsi trattati...
Grazie a queste peculiarità, soprattutto anche ad un'animazione che ne esalta le buffe caratteristiche con le immancabili deformazioni del disegno e a una cornice musicale assolutamente appropriata, la storia si fa apprezzare con regolarità fino alla fine e sprigiona una certa armonia, nonostante, bisogna riconoscerlo, molti eventi manifestino col tempo una certa ripetitività.
Insomma, il mio giudizio complessivo resta infine più che positivo: Azumanga Daioh non ha deluso le mie aspettative (alimentate, inizialmente, dall'opening, che mi faceva ben sperare in qualcosa di eccentrico), anzi, le ha ripagate alla grande, donandomi, con la simpatia di questo incredibile gruppo di protagoniste, una considerevole occasione di svago.
Da inserire tra i passatempi preferiti!


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Quando Digimon Tamers, la terza serie legata a Digimon, arrivò in Italia, nell'inverno del mio terzo anno di liceo, sulle prime ne rimasi assai deluso.
Troppo folgorante era stata la passione per quel Digimon 02 che si era concluso appena pochi mesi prima, troppe lacrime di commozione erano state versate per il suo episodio conclusivo, in quel caldo pomeriggio di metà Luglio dell'estate precedente, troppa era stata l'affezione ai suoi personaggi e alle sue musiche, troppi i simbolismi di cui era stato caricato da parte mia.
L'idea che Daisuke e compagni fossero stati soppiantati da tutt'altri personaggi, sulle prime, mi irritò. Il ritmo degli episodi di Tamers era lento, completamente differente rispetto alle più veloci e semplici serie precedenti.
Perché, in fondo, di questo si tratta. Digimon Tamers è profondamente diversa rispetto ad Adventure e Adventure 02, e lo si comprende già sin dal titolo, che mette in chiaro quale sarà l'elemento preponderante della serie. Non più l'avventura in un mondo fantastico (elemento che ci sarà, seppur abbastanza limitato), ma l'attenzione al quotidiano, ai personaggi e alle loro vite e psicologie.
Non è un caso, infatti, che l'elemento del mondo digitale compaia soltanto nella seconda metà della serie, e che gran parte della vicenda è invece ambientata in un Giappone moderno, in un quartiere di Shinjuku perfettamente ricostruito nei minimi dettagli con tanto di riproduzioni di edifici e luoghi realmente esistenti.
Bastarono pochissimi episodi, tuttavia, per far cambiare radicalmente la mia opinione su Tamers, e, in breve tempo, mi ritrovai ad essere appassionato ai limiti dell'assuefazione, in maniera decisamente molto maggiore rispetto a quanto successe per le serie precedenti, al punto che tutt'oggi, videocassette con le registrazioni alla mano, quando mi capita di riguardare questa serie provo ancora una volta quell'antico amore, con un'intensità pari ad allora.
Diciamolo, dunque, Digimon Tamers, delle quattro che ho visto, è la mia serie preferita in assoluto. E adesso vediamo il perchè.
Ciò che innanzitutto ci preme specificare è che dietro Digimon Tamers si nasconde anche Chiaki Konaka, sceneggiatore di fama mondiale, che ha dato alla serie un'impronta più sperimentale, intimistica e matura.
Niente più evoluzioni a gogò e combattimenti alla Sailor Moon. O meglio, ci saranno, ma calati in un contesto più maturo, drammatico e ragionato.
Adesso nei combattimenti si può morire (ok, scomparire e disperdere i propri dati, che possono essere assimilati da chi ci ha sconfitti per renderlo più forte e permettergli di accumulare l'esperienza necessaria a evolvere, ma il concetto è quello!), si soffre per gli attacchi fisici, si conquistano gli stadi evolutivi con molta più difficoltà, e, cosa parecchio importante, il domatore posto a guardia del Digimon può fortificarlo o donargli particolari caratteristiche tramite delle speciali carte da gioco. Questo rende i combattimenti più vari e ragionati rispetto a prima. Meno tecniche spettacolari e più strategia. Meno teatralità e più realismo.
Questa svolta matura e realistica si ripercuote non solo sulle ambientazioni (che come abbiamo detto mostrano un dettagliatissimo Giappone e un mondo digitale molto più cupo e angoscioso rispetto a prima), ma anche sui personaggi stessi. Stando a contatto con la loro vita quotidiana, impareremo a conoscerne sentimenti, attitudini, famiglie e problemi, e sarà lampante la differenza di background e di carattere tra i tre personaggi principali: il gioviale e amichevole Jiangliang, la ricca, fredda, scostante e spietata Ruki, ma soprattutto lui, Takato, il nostro protagonista che per una volta non è un intrepido "google-boy", ma un ragazzino come tanti altri, con tutti i sogni, i giochi, le aspirazioni, le insicurezze e le paure che la sua giovane età comporta.
Vivendo la storia dal punto di vista del sensibile Takato, noi vedremo i Digimon e le loro battaglie come un divertente gioco di fantasia da fare con gli amici, ma avremo modo di vedere che gli altri personaggi invece la pensano diversamente, e sarà proprio l'incontro-scontro di personalità così diverse, che sono state però catapultate in un'esperienza talmente grande da non poter neppure essere controllata dalle loro giovani menti, a rendere sensazionale Digimon Tamers.
Non soltanto i tre protagonisti, ma anche i tanti personaggi di secondo piano, avranno una loro spiccata caratterizzazione psicologica e delle loro idee, modi di pensare e agire ben definiti e differenti gli uni dagli altri, ma dovranno imparare a porre la propria individualità al servizio degli altri e a crescere insieme, se vorranno uscire vivi da questa vicenda.
La trama vera e propria comincia lentamente, in sordina, dopo averci mostrato il background dei personaggi, e procede a suon di colpi di scena veramente ben gestiti, trasformandosi in una sorta di fanta-thriller psicologico dove ogni personaggio svolge un ruolo simile a quello di un pezzo degli scacchi durante una partita. I misteri abbonderanno e, in men che non si dica, Tamers renderà i suoi spettatori incollati allo schermo e desiderosi di avere tutti gli episodi filati da poter vedere in una volta sola.
Tanti saranno i temi di questa storia. Ci sarà l'amicizia, ci sarà l'amore, ci sarà la crescita individuale, ci sarà l'avventura, ci sarà la lotta, ci sarà lo strapotere degli uomini che, volendo assurgere a divinità, combinano disastri irreparabili, ci sarà la purezza dei bambini in confronto al cinismo degli adulti, ci sarà l'invidia, l'ambizione, ci sarà la morte e l'accettazione del lutto, il superamento delle difficoltà, la rabbia, la vendetta, ci sarà la fantascienza, ci sarà la filosofia, ci saranno fior fior di citazioni a buddismo, shintoismo, cristianesimo e induismo.
In men che non si dica, ci renderemo conto che, tra i 51 episodi di una serie apparentemente per bambini come questa, sarà possibile ritrovare la vita.

I disegni, la grafica e le animazioni appaiono sensibilmente migliorati rispetto alle serie precedenti, anche se le trasformazioni in 3D stavolta sono meno spettacolari.
A strabiliarci è ancora una volta la colonna sonora, che raggiunge i punti più alti mai toccati dall'intera serie.
Ogni personaggio ha più di una canzone dedicata e innumerevoli sono poi le canzoni che fungono soltanto da accompagnamento (spesso e volentieri affidate ai soliti Kouji Wada e Ai Maeda, se non agli stessi doppiatori dei personaggi), tutte ugualmente stupende.
A far da apripista a questa grande abbondanza di pezzi è lei, "The biggest dreamer", la sigla d'apertura, eseguita come sempre da Kouji Wada. Allegra, ritmata, cantabilissima, nonché carica di tutta la spontaneità e la delicata innocenza di un bambino, "The biggest dreamer" ci parla di compiti dimenticati, di ginocchia sbucciate e di sogni, quegli stessi sogni infantili che Digimon Tamers, neanche troppo velatamente, mette come suo tema cardine, visto il protagonista che si ritrova.
Come da tradizione, poi, meritano una particolare menzione le splendide musiche delle scene di trasformazione e combattimento, che stavolta sono ben tre: la ritmatissima "Slash", by Michihiko Ohta, che accompagna le scene in cui i Digimon vengono potenziati con le carte (mossa che, appunto, è denominata "Card Slash"), "Evo" dei Wild Child Bound, che accompagna le evoluzioni e la bellissima "One Vision" di Takayoshi Tanimoto, che accompagna, in tre versioni differenti (una per ognuno dei tre protagonisti), le evoluzioni allo stadio Matrix.

La nostra versione, ahimè, ha avuto qualche piccolissima censura, ma ha mantenuto tutte le musiche originali, qualcuna addirittura anche cantata. Pensate, addirittura, che la sigla italiana della serie utilizza la base di quella giapponese, un lusso che poche serie nel nostro paese si possono concedere.
Di ottimo livello, come al solito, il doppiaggio.
Il protagonista Takato è affidato alla dolcissima (e purtroppo poco conosciuta) Gaia Bolognesi, mentre il pacatissimo Lorenzo De Angelis si occupa di doppiare Jiangliang e una inedita, fredda e azzeccatissima Perla Liberatori presta la voce a Ruki.
Tra le vecchie conoscenze ritroviamo Maura Cenciarelli, Alessio Cigliano, Paolo Marchese, Paola Majano e Michela Alborghetti, mentre impariamo a conoscere nuove voci che approfondiremo nella successiva serie Frontier come Barbara Pitotti, Daniela Calò, Monica Gravina e Leonardo Graziano, un gioviale doppiatore che all'epoca era molto attivo nelle produzioni trasmesse in Rai e che oggi è ben celebre per i suoi lavori sulle reti Mediaset.
Per finire, zitti zitti, troviamo, nel cast di questa serie, anche grandi personalità come l'austero Oliviero Dinelli e il sornione Fabrizio Vidale, che danno un'aria di professionalità al tutto.

Digimon Tamers appassiona con la sua trama adulta e piena di misteri, coinvolge con la profondità dei suoi personaggi e con la bellezza delle sue musiche, e rappresenta senza dubbio il punto più alto raggiunto dalla serie Digimon, ma anche una metafora del passaggio dall'infanzia all'adolescenza, quando i bambini, crescendo, sono tentati di perdere i loro sogni, ma questi stessi sogni è bene che non li dimentichino anche da grandi, perchè potrebbe capitare, com'è successo a Takato, che si realizzino sul serio...


10.0/10
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Tokyo psycho killer

Sulla scia dei consensi che critica e pubblico avevano riservato ai suoi tre precedenti lungometraggi, Satoshi Kon affronta il medium televisivo raccogliendo le sue esperienze cinematografiche e trasferendole in un thriller su scala seriale, diviso in tredici capitoli magistralmente intrecciati, dal ritmo avvincente e dal linguaggio eclettico e multiforme.

La storia prende le mosse da alcuni misteriosi atti di aggressione notturni che ben presto assumono i contorni del giallo in un'aura da leggenda metropolitana alimentata dai media. L'indagine poliziesca si sviluppa in un racconto corale dove l'intero cast trova un suo peso e un suo rilievo nell'ambito di episodi monografici, fino all'epilogo catastrofico nella babelica Tokyo in preda alla psicosi collettiva. La narrazione si dirama su più livelli di percezione della realtà, mescolando elementi onirici/psicoanalitici, sociologici e mediatici in un unica dimensione narrativa.
Fra i capitoli più significativi quello dal titolo "Maromi dolce-sonno": un vero e proprio omaggio al mondo dell'animazione in cui si riflette sul bisogno di fuga dalla realtà e si critica l'iper-produttività stressante del sistema capitalistico. Molto riuscito anche l'episodio degli aspiranti suicidi dal titolo "Happy family planning", pieno di sarcasmo e caustico humour nero, in cui si mette l'accento sulla solitudine e sull'incomunicabilità.

L'autore calibra alla perfezione i meccanismi drammaturgici, i tempi della narrazione e la scansione dei capitoli e, come aveva fatto più velatamente in "Perfect blue", si sofferma a osservare analiticamente ogni aspetto del linguaggio mass-mediatico contemporaneo prendendo in esame sistematicamente l'intera rassegna dei mezzi di comunicazione, dalla TV al web passando per l'RPG, il manga e i pettegolezzi da portinaia. Gli stessi linguaggi ibridi sono usati come esempi funzionali in una miscela di soluzioni visive sempre spiazzanti. Disseminati qua e là si trovano riferimenti alla cultura tipica e tradizionale nipponica, come flash nostalgici verso un passato mitico alla ricerca di valori perduti.

Il design è meno realistico rispetto a quello dei film e si presta al clima di sperimentazione della serie con i suoi repentini cambi di registro.
L'eccezionale colonna sonora si adatta mimeticamente allo stile cangiante dei capitoli e supporta l'atmosfera da thriller enfatizzando la suspense. Così come il regista visualizza e dà forma al senso di colpa e alle fobie dei personaggi, il compositore Susumu Hirasawa riesce a rendere in musica il senso di follia latente e le alterazioni mentali attraverso sonorità schizofreniche e armonie atonali ripetute ossessivamente. Il sognante e ipnotico tema principale è un sedativo che culla lo spettatore accompagnandolo negli oscuri labirinti della psiche. Meritano una menzione le splendide sigle e gli stacchetti d'intermezzo.

Brillante e originale, "Paranoia Agent" è un'opera di valore indiscusso, si presta a svariate chiavi di lettura (sociologica, metalinguistica, psicoanalitica) e propone non solo d'intrattenere ma anche di stimolare la riflessione con una pungente critica della società contemporanea giapponese.
Satoshi Kon cambia il medium ma non la sua classe cristallina.


8.0/10
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Nel 1998 tre membri dello staff Sunrise, il produttore Masahiko Minami e i chara designer Hiroshi Osaka e Toshihiro Kawamoto, all'indomani della conclusione di "Cowboy Bebop" decidono di staccarsi dallo studio per fondarne uno loro. Nasce BONES, che nel decennio appena passato si farà conoscere prepotentemente grazie a opere di alto profilo tecnico e narrativo - "Fullmetal Alchemist", "Darker than Black" e "Xam'd", tanto per dirne qualcuno. Non divaghiamo. Nei primissimi anni di vita, ricordiamolo, BONES ha legato il suo nome a prosiegui di opere Sunrise, co-producendo i film di Escaflowne e Cowboy Bebop, e trasponendo in animazione alcuni manga, ma è solo con "RahXephon" che arriverà alla sua prima opera originale, trovando un cult che per molti, moltissimi sarà salutato come il più originale, riuscito mecha degli anni '10 del nuovo secolo.

"RahXephon" appartiene pienamente alla nouvelle vague intellettualoide nata con Evangelion e Utena, non deve stupire che Anno ne sia quasi il ghost writer, amico intimo del regista Yutaka Izubuchi, a cui darà spesso suggerimenti, in privato, sul come mandarlo avanti. Izubuchi d'altro canto ha messo molto di suo nell'opera, imprimendo in essa una poetica che ben si nota derivare dai suoi mirabolanti trascorsi lavorativi in Sunrise e Headgear, mecha designer talentuoso (disegnatore dei robot più realistici mai visti in animazione, gli Ingram di Patlabor e i TA di Gasaraki), spesso a stretto contatto con Ryousuke Takahashi, con Mamoru Oshii e con Yoshiyuki Tomino. Proprio da quest'ultimo eredita un tratto fondamentale della sua visione di mondo, il tema principale di "RahXephon": la comprensione e l'amore come ricette della felicità, in questo caso incarnate dal potere segreto del mecha protagonista.

Bisogna comunque notare che il punto di riferimento principale di Izubuchi, più che Evangelion - e i punti di contatto con il cult dell'amico Anno sono innegabili: lo spunto di partenza, le famigerate introspezioni psicologiche, personalità che ricalcano le varie Misato, Rei, Ritsuko, ecc. - è un'antica serie televisiva diretta da Tomino, il semi-sconosciuto "Raideen", primo robot divino mai visto in animazione che qui rivive, attraverso richiami iconici, mecha design e omaggi vari, nel gigantesco e angelico RahXephon, l'incognito suono divino (Rah sta per Ra, la divinità egizia del sole; X incognita; Phon un suono), che avrà il compito di armonizzare le anime del mondo con la musica.

In "RahXephon" Izubuchi ci narra le vicissitudini di Ayato Kamina, ragazzino che vive, nel 2012, dentro una Tokyo chiusa da un'ampolla energetica che rallenta lo scorrere del tempo, creata dagli invasori multi-dimensionali Mu per isolarla dalla vera realtà terrestre con cui sono in guerra. Avrà modo finalmente di uscirne, scoprendo di essere l'unico essere vivente in grado di pilotare l'enigmatico e potente RahXephon. Costretto dai militari a collaborare con loro nell'affrontare le frequenti incursioni di mecha nemici (i Dolem), cercherà di capire qual è il suo ruolo nel mondo, perché il maggiore Haruka Shitow è innamorata da tempo di lui, e com'è che si ritrova sangue Mu nelle vene.

Occasione per regalarci una storia spiccatamente "tominiana" in regia e dialoghi, dove la partenza è lenta e criptica, i mecha (ma non sarebbe neanche giusto chiamarli così, essendo golem - proprio quelli di tradizione ebraica - fatti d'argilla) contano quasi zero e i combattimenti si risolvono in sequenze cortissime aridamente coreografate, ma sopratutto dove l'interesse risiede nella bellezza della trama e nelle iterazioni tra personaggi. Si nota di sicuro un gran lavoro di script in "RahXephon", dato da un invidiabile staff all-star di sceneggiatori (Yoji Enokido, Ichirou Ohkouchi, Chiaki J. Konaka), che presuppone però anche impegno da parte dello spettatore per non perdersi le sfumature di una vicenda estremamente complessa.

Si tranquillizzi chi teme un immane nonsense come in Evangelion; "RahXephon" ha una sua chiarezza. Parliamo comunque di una trama corposa e dalle mille ramificazioni, che inizia lentamente come un remake di Evangelion con spruzzate di Megazone 23 (la realtà fasulla in cui vivono Ayato e i suoi amici), prosegue scomodando organizzazioni governative, doppiogiochisti, visioni oniriche, omaggi all'arte e civiltà precolombiane/fantastiche - si fa riferimento allo stato immaginario di Mu evocato da James Churchward nei suoi scritti -, per poi chiudersi in psicanalisi e misticismo con un finale corposo di avvenimenti, assolutamente comprensibile, ma che richiede notevoli capacità di astrazione e intuito per rispondere a diversi punti interrogativi insoluti: (de)merito della sceneggiatura cervellotica, ma anche dal vero e proprio modo di dirigere "tominiano" adottato da Izubuchi, dove ogni scena è corta ma necessaria e i dialoghi, perfetti, sono mirati e calcolati al millimetro. C'è una facciata di ermetismo, insomma, voluta da Izubuchi per trasmettere il senso di estraneità di Ayato alla vicenda e (probabilmente) dovuta all'apporto non accreditato di Anno, ma con la dovuta attenzione lo scoglio si può superare.

Un vero peccato però è la bassa empatia che si instaura con i personaggi, problema che avviene spesso con storie complesse come questa. Si divorano gli episodi per la curiosità sul come si evolverà la storia, per merito dell'ottimo storyboard e della gestione ottimale del cast, ma tutto è così "perfettino" e preciso che non c'è stato modo di creare intermezzi, anche leggeri o avulsi dalla trama, con cui dare introspezione ai protagonisti. Sono sempre in prima linea nel racconto e le loro reazioni psicologiche indubbiamente realistiche, ma non mi sono mai sentito emotivamente coinvolto dalle loro vicissitudini, non ho provato particolare tristezza per la loro eventuale morte. Sembra che il gran numero di sceneggiatori, tutti a esprimere il loro tocco nei singoli episodi, sia stato addirittura un male, perché ha fatto perdere di vista a Izubuchi la profondità del racconto e la necessità di caratterizzarne meglio gli attori. La fine della serie lascerà dentro appagamento per l'eleganza autoriale con cui è resa una gran bella storia, ma anche potenziale frustrazione per le potenzialità non pienamente sfruttate.

Dal punto di vista squisitamente sensitivo, invece, "RahXephon" è di uno stilismo raramente eguagliato. Se inizialmente si storce il naso per la presenza della nota compositrice Yoko Konno solamente nell'opening, la magnifica "Hemisphere", la sua collega Ichiko Hashimoto non ne fa rimpiangere l'assenza confezionando una colonna sonora eterea che, abbracciando composizioni al pianoforte, jazz sperimentale e ambient, dà lirismo e impulso a una storia che vede la musica sia come "arma" d'offesa dei mecha sia come strumento del RahXephon per armonizzare il mondo; non è un caso che Ayato e la sua "gemella" Quon, i piloti, sono i suoi "Strumentisti". Raffinato è anche il chara design, elegante ed espressivo nella sua realistica semplicità e nei colori saturi, e così come i riferimenti alla corrente artistica surrealista, con riferimenti visivi che vivono nel quadro di Ayato e nelle sequenze visionarie del suo subconscio.

Per i rimpianti sull'empatia mancata con i personaggi non riesco, come hanno fatto in molti, a vedere "RahXephon" come un capolavoro dell'animazione, ma la sua potenza narrativa non può essere messa in discussione, così come la sapienza con cui mescola, in un intreccio arzigogolato, robot, dramma, fantascienza, "fantarcheologia" e intermezzi psicologici/visionari senza svaccare e traducendo il tutto in una elegante, memorabile storia d'amore: sinonimi tutti di grande autorialità e fiducia nei propri mezzi. Ma sopratutto, e questo è il suo merito più grande, "RahXephon" dà fama e risalto al suo creatore Yutaka Izubuchi, dietro le quinte del successo di moltissime serie cult, ma mai così conosciuto e apprezzato come in questo caso. Il titolo è l'occasione di portare alla luce, finalmente, le sue indubbie doti registiche e narrative, che si ripeteranno, con alti livelli, in "Skull Man".


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Ci sono sport in cui il confine tra competere per sé e competere per il raggiungimento di un obiettivo condiviso è più labile che in altri. Il ciclismo è uno di questi: fai parte di una squadra, ma al tempo stesso non sei la squadra. Quale che sia il tuo ruolo, quali che siano le direttive a cui devi sottostare rimani pur sempre un atleta, e un atleta si sente realizzato solo quando vince. Nessuno vuole vivere una vita da gregario, nessuno vuole vedere vanificati i propri sforzi; avere successo equivale a costringere il mondo a riconoscere la tua esistenza, e se il mondo crede in te, tu stesso ci crederai un po' di più. La semplicità con cui "Melanzane - Estate in Andalusia" affronta questa tematica, peraltro calandola in un contesto non meno complesso, non potrà non conquistare anche chi, come me, non segue questa particolare disciplina sportiva, che pure un tempo faceva sognare l'Italia intera.

Un atleta incapace di gestire lo stress è un atleta finito, un po' come un attore che si lasci sopraffare dalla paura del palcoscenico. Tuttavia è praticamente impossibile non provare alcuna emozione nei riguardi della cosiddetta gara di casa, perché fallire proprio dove tutto ha avuto inizio sarebbe troppo doloroso.
L'idea di dover attraversare il suo odiato paese natale non sorride a Pepe, ruota di scorta obtorto collo di una squadra che difficilmente gli rinnoverà il contratto, anche perché quello stesso giorno suo fratello Ángel convolerà a nozze con quella che, in origine, era la sua ragazza. Gli ordini di scuderia prevedono che si limiti a spianare la strada al proprio compagno per permettergli di vincere, ma quando per uno scherzo del destino si ritroverà ad essere lui l'uomo da battere dovrà dar fondo a tutte le sue riserve - fisiche e non - per dimostrare agli sponsor e a se stesso di non essere ancora arrivato al capolinea.

La storia scorre su due binari complementari: il primo segue Pepe ad una ravvicinata ma rispettosa distanza, mentre il secondo ci racconta di lui dal punto di vista di familiari e compaesani, che gli augurano con tutto il cuore di riuscire a diventare un grande ciclista. Per far sì che queste due prospettive si incastrino ad arte è necessario ricorrere di tanto in tanto ad un pizzico di esposizione (altrimenti detta "info-rigurgito" nel caso di un suo sconsiderato utilizzo), sia di carattere tecnico che di carattere puramente narrativo, ma nulla di così invasivo da minare in maniera significativa la godibilità dell'intreccio, perfetto nella sua studiata ma tutt'altro che legnosa essenzialità.

Un altro punto forte dell'opera è senza dubbio l'introspezione psicologica dei personaggi. La perenne insoddisfazione di Pepe è perfettamente comprensibile per lo spettatore, che tuttavia spera che prima o poi si accorga di quanto Ángel, Carmen e tutto il suo paese nutrano per lui un affetto sincero - affetto che il ragazzo, troppo preso dalle sue vicissitudini professionali, certamente subodora ma non riesce ad apprezzare né ad ammettere di ricambiare. E poi c'è l'Andalusia stessa, terra bellissima e capricciosa che forse gli ha fatto il regalo più bello di tutti: no, non le melanzane del titolo, bensì il sacro fuoco dell'ambizione, della voglia di spingersi laddove nessuno - perlomeno di sua conoscenza - ha mai osato anche solo sognare di arrivare.

Anche il comparto tecnico non delude: sono convinta che ogni paese abbia una sua aura cromatica, e quella di "Melanzane" corrisponde esattamente a quella che associo e assocerò sempre alla Spagna. È stato il primo aspetto che mi è saltato all'occhio e di cui, probabilmente, conserverò il ricordo più accurato. Il character design sa forse di già visto, ma al tempo stesso riesce a trasmettere un'idea di simpatica familiarità che va meravigliosamente a braccetto con la "straordinaria ordinarietà" dei personaggi: oserei dire di essere rimasta intenerita da particolari come gli occhiali da vista di Pepe, così come ho apprezzato molto la bellezza per nulla aggressiva di Carmen e del suo semplicissimo vestito da sposa.
Animazioni e regia sono piacevolmente discrete, non nel senso di mediocri, bensì che lasciano respirare la storia proprio come ci si aspetta che facciano. Buono anche il sonoro, con delle musiche decisamente d'atmosfera (del resto non approfittare in tal senso della ricchezza folkloristica del setting sarebbe stato da sciocchi) e un doppiaggio italiano che, oltre a conferire la giusta espressività ai personaggi, si sforza persino di non martoriare la fonetica spagnola, complice forse il fatto che il cosiddetto seseo, ovvero la tendenza a pronunciare le c e le zeta dolci come se fossero delle esse, è proprio originario dell'Andalusia. Ma attenzione: questa deformazione linguistica, così comune nei paesi dell'America Latina, in patria è considerata sinonimo di ignoranza, un po' come succede nello stesso Giappone in cui, a causa del loro particolarissimo dialetto, gli abitanti della città di Osaka hanno la nomea non essere granché intelligenti.

Quale che sia sia la vostra posizione nei confronti del ciclismo, quindi, se vi avanzano quarantacinque minuti di tempo provate a dare un'occhiata a questo mediometraggio. Non lo considererei un vero spokon, perciò escludo che possa convertire chicchessia a questo sport, ma è certamente in grado di intrattenere.