Lo ammetto: questi omaccioni così grossi, con le loro pettinature particolari e la loro divisa decisamente ridotta, mi hanno sempre lasciato alquanto perplessa. Ma invece, quando mi sono avvicinata al  mondo del Sumo per saperne un po' di più, ho scoperto un universo affascinante con una storia alle spalle lunga diversi secoli.
 

Il sumo è LO sport nazionale del Giappone e consiste in una lotta corpo a corpo fra due avversari che si affrontano con lo scopo di atterrare o estromettere l’antagonista dalla zona di combattimento detta dohyô. D'altronde la parola stessa "sumo" significa strattonarsi l’uno con l’altro e infatti lo scopo del combattimento non è colpire l’avversario, ma fargli perdere l’equilibrio.
La sfida è perciò smuovere un avversario molto grosso e non atterrarlo per sfinimento. Inoltre, quando ci si avvicina a questo sport, bisogna ricordarsi che non è solo uno sport, ma è quasi una missione: chi diventa un lottatore di sumo decide di abbracciare e condividere la filosofia del sumo, le sue regole di vita e il suo stile semplice e grezzo.
 

Il sumo ha una storia lunghissima: sembra sia addirittura nato circa 2.000 anni fa, come un semplice duello basato sulla forza fisica e due stati che sicuramente influenzarono molto il sumo giapponese furono Cina e Corea; con l'avvento dell'agricoltura, si sarebbe poi sviluppato come rituale religioso durante i matsuri per propiziare buoni raccolti. Nel VIII° secolo sotto il potere dell’Imperatore Shomu (724 - 749) i tornei di sumo iniziarono ad avere cadenze regolari e furono creati anche tornei viaggianti in tutto il Giappone per reclutare i migliori combattenti (sumobaito).
Dal XII° secolo in poi, con l'affermarsi della classe guerriera, questi combattimenti subirono un'evoluzione, diventando una vera e propria arte marziale, allenamento fondamentale per prepararsi alle battaglie in guerra.
 

Fu durante l'era Edo (1603-1868) che il sumo diventa sport agonistico e spettacolo per gli abitanti delle grandi città, diventando il primo sport professionale del Giappone, regolamentato e codificato. Durante il periodo Meiji (1868-1912), il sumo attraversò una delle epoche più buie della sua storia, bandito e disprezzato dai giapponesi, presi dalla loro corsa verso l’occidentalizzazione. Edo fu ribattezzata Tokyo, molte furono le novità nel modo di agire del governo, deciso a modernizzare il paese il più rapidamente possibile.
Nel 1884 l’imperatore, che aveva colto gli effetti negativi dell’occidentalizzazione sulla cultura nipponica, cercò di contrastarli e organizzò a tale scopo un torneo di sumo. Il suo tentativo ebbe successo e la popolarità del sumo crebbe insieme all’orgoglio nazionale, rafforzato dalla vittoria giapponese nel conflitto sino-nipponico. L’associazione di Tokyo divenne la Tokyo Sumo Association nel 1889 e da allora il sumo è fonte di orgoglio nazionale e i lottatori sono venerati da orde di fan scatenati.
 

Nella pratica odierna un incontro di sumo si svolge all'interno di una piattaforma circolare del diametro di 4,55 metri, fatta di terra battuta, delimitata da balle di fieno, detta dohyô.
Le regole sono alla fine abbastanza semplici: lo scontro ha termine quando uno dei due lottatori è spinto al di fuori del dohyô oppure se una parte del corpo che non sia la pianta del piede tocca la terra. Le prese consentite sono 82, dette kimari-te, e si dividono in 4 categorie: oshidashi (spingere), utchari (tirare), tsuridashi (sollevare) e ipponzeoi (lanciare).
 

È vietato colpire a pugno chiuso (anche se colpi di mano, palmo o sberle sono ammessi), infilare le dita negli occhi, tirare i capelli, colpire petto o stomaco e cercare di spogliare l’avversario.
Dopo aver effettuato il tachi-ai, cioè il posizionamento uno di fronte all'altro, scatta l'attacco e lo scontro durante il quale i due lottatori sfoderano le varie prese usando le loro tattiche preferite per vincere l'incontro. I combattimenti possono avere una durata variabile, da pochi secondi ad un paio di minuti.
 

I lottatori si presentano sul ring vestiti solo con il mawashi, una banda di tessuto lunga 6 metri che avvolge la vita e copre i genitali. Gli appartenenti alle categorie amatoriali o a quelle professionali di rango più basso lo indossano di colore bianco o grigio, mentre i lottatori delle prime due classi vestono mawashi di seta dai colori vivaci.
È possibile distinguere le varie categorie anche in base alla pettinatura: tutti i professionisti si fanno crescere i capelli che sono poi legati in uno chignon detto chonmage, che solo per i lottatori più bravi assume la forma di una foglia di ginkgo ed è chiamato ôichô (che vuol dire appunto grande ginkgo).
 

Esistono due grandi classi di lottatori, suddivise a loro volta in varie divisioni e a seconda del risultato dei combattimenti, si può essere promossi o degradati di categoria.
Il livello più alto è definito yokozuna e rappresenta, con la sua integrità d’animo e la sua forza, lo spirito stesso del sumo. È l’unico lottatore che non può essere degradato di categoria, ma nel momento in cui non sia più all’altezza del ruolo che ricopre, deve decidere di ritarsi o perlomeno è questo quello che gli appassionati si aspettano.
 

Durante un incontro, vi sono diversi gesti che si ripetono secondo un rituale non scritto. Fra i più famosi c'è lo shiko che consiste nell’alzare la gamba quasi verticalmente e poi sbatterla a terra facendo rumore col piede; in questo modo si mandano via dal dohyô gli spiriti cattivi e si inimidisce l'avversario. Stesso scopo ha il forte colpo autoinflitto sulla coscia, simbolo di consapevolezza di forza.
 

Altro gesto che si può vedere spesso è il lancio del sale: posto in un angolo del ring, è usato sia come gesto scaramantico contro la possibilità di farsi male, sia per disturbare. Infatti il lottatore può per 4 minuti massimo, andare alla postazione di combattimento, ma poi cambiare idea, alzarsi, prendere il sale, lanciarlo con enfasi e togliere così la concentrazione all’avversario.
Infine il vincitore dell'incontro riceve un premio in denaro: all'atto del ritiro, prima di prendere i soldi in mano, fa il gesto di tagliare l'aria con le mani, come se dividesse il premio in tre parti. Questo gesto rappresenta il voler porgere parte della vittoria alla trinità Shinto, che ha dato al vincitore la forza e la fortuna per vincere.
 

Figura fondamentale è poi l'arbitro (gyoji): è colui che sale per primo sul ring e da qui annuncia i lottatori urlando i loro nomi ad alta voce senza usare alcun microfono. Il tono è estremamente solenne con suoni particolari e esaltanti. Una volta posizionato all'interno del ring con i lottatori, l'arbitro li incita a combattere, continuando a urlare in modo ripetitivo.
All'esterno del dohyô vi sono poi altri 4 giudici che aiutano l’arbitro nella scelta del vincitore perché un combattimento non può finire con un pareggio e quindi nel dubbio l'incontro deve essere ripetuto. Questi giudici indossano un kimono nero tradizionale e sono scelti tra ex-lottatori rimasti nell'ambiente come insegnanti o allenatori.
I gyoji invece indossano un kimono più vistoso e caratteristico e sono oraganizzati gerarchicamente in funzione della loro anzianità e capacità di giudizio. Per distinguerli, bisogna porre attenzione alle calzature (più i piedi sono coperti, più l'arbitro è di alto rango) e al ventaglio che a seconda del colore definisce, come i gradi di un'uniforme, il livello, dal più importante al minore. Arrivare al livello più alto è complesso e faticoso e spesso possono farlo solo quelli con un arbitro famoso in famiglia.
 

Durante l'anno sono disputati 6 tornei: a gennaio, maggio e settembre sono tenuti a Tokyo, presso il Kokugikan, a marzo a Osaka, a luglio a Nagoya e a novembre a Fukuoka. Tutti sono trasmessi dalla NHK, l'emittente statale nipponica, sia per radio che in televisione.
Da notare che al momento molti lottatori sono di origine straniera, la maggior parte infatti proviene dalla Mongolia. Tutti però devono frequentare le heya, cioè le scuole di sumo; di solito i talent scout girano per i licei per scoprire giovani adatti alla lotta e li invitano a trasferirsi nella loro scuola.
 

Tutte le spese per il loro mantenimento sono a carico del capo della scuola che a tutti gli effetti diventa una sorta di secondo padre.
Una delle prime regole che si imparano in un heya è che nessuno ti insegna nulla se non te lo meriti; non esiste un vero e proprio maestro di sumo, ma si impara grazie ai consigli degli altri lottatori più esperti. I lottatori più giovani sono quelli che si occupano anche di preparare i pasti e il piatto tipico che si gusta nelle scuole di sumo è il chanko-nabe, una sorta di minestrone iper proteico la cui ricetta varia a seconda della scuola e di chi supervisiona gli atleti.


Uno dei redattori di Animeclick, il nostro Kotaro, durante il suo soggiorno in Giappone, ha avuto la fortuna di poter assistere agli allenamenti di alcuni lottatori e di poter scambiare qualche parola con loro: se ve lo siete perso, andate subito a leggere qui!

Fra di voi c'è qualche appassionato di sumo? Avete mai assistito ad un incontro? .

Fonti consultate:
Nippon
Sumo