Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

7.0/10
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Shintaro Kago è un pazzo. Decostruttore estremo del fumetto, così efferato da reputare il suo stesso operato come merda, attraverso una perizia tecnica incontestabile, che si rifà all'iperrealismo grafico di Otomo e Maruo, il mangaka muove una satira grottesca di grande impatto, che fa di tutto per rimanere impressa nella mente del lettore, ponendosi con grande prepotenza attraverso corpi squartati in mille pezzi, cadaveri in putrefazione, sanguinose dissezioni di ragazzine innocenti, falli che diventano carri armati, parti del corpo umano che vengono ruotate e disassemblate allo stesso modo delle facce di un cubo di Rubik... insomma, si tratta di perversioni talmente creative da essere addirittura difficili da concepire, sicché provengono dagli angoli più reconditi della mente. Attraverso uno stile personalissimo, riconoscibile con poche tavole, il mangaka punta il ditino contro la società dei consumi e il suo deperimento dei valori, attraverso un masochismo splatter che stordisce come una bastonata in testa.
Un autore con un tale gusto dell'orrido, che ama collezionare action figures di cadaveri in putrefazione e strumenti di tortura (!), come si approccerebbe alla critica del medium animato e dell'otakuzoku in generale?
"Harem End" ci dà la risposta.

Nell'opera, la furia distruttrice di Kago si concentra sull'animazione contemporanea, nella quale il genere harem è inflazionato; di fatto, "Harem End" è una decostruzione brutale del genere, che ridicolizza con sarcasmo feroce tutti i suoi stereotipi, uno alla volta, sino al prevedibilissimo mattatoio finale. Ovviamente tra i personaggi dell'opera non mancano riferimenti a ragazzine moe provenienti da "Madoka Magica", "Chūnibyō demo koi ga shitai!" e compagnia, che vengono disegnate in modo più realistico, in modo tale da farle apparire ancora più kitsch delle loro controparti originarie.

Una volta terminato l'incipit a base di harem, Kago si scaglia contro l'industria dell'animazione tutta, raffigurando gli otaku produttori e consumatori come dei necrofili che adorano personaggi di "anime" creati dal vivo con cadaveri dissanguati, che vengono impiegati nelle riprese come se fossero marionette - palese metafora che grida alla "morte dell'animazione" e all'inettitudine dei suoi personaggi-simulacri senza fare troppi complimenti. In particolare, ad essere preso a sassate è un animatore di nome Kawamori, palese riferimento allo Shoji Kawamori che nel 1982 con "Macross" diede origine all'animazione "da otaku per altri otaku": attaccando il fenomeno alla sua origine, e facendoci sopra del sarcasmo decisamente malato, Kago crea alcuni spunti di riflessione sul manierismo tipico del medium animato giapponese, constatando che molti dei suoi prodotti puzzano di cadavere, di marcio.

Decisamente esilarante per i cultori dell'artista, molto probabilmente indigesto per la maggiorparte delle persone, "Harem End", sebbene non figuri di certo tra i capolavori dell'ero-guro più underground che ci sia, si rivela una lettura potente, sopratutto per chi ama fare dell'umorismo diretto - privo di moralismi, bigottismi e leziosismi - sulla perversione indotta dall'alienazione dell'individuo postmoderno.

Per quanto concerne gli aspetti tecnici, "Harem End" non può di certo competere con "Uno scontro accidentale sulla strada per andare a scuola può portare a un bacio?" e "Fraction", nei quali la decostruzione assoluta tipica della poetica dell'autore colpiva addirittura le stesse vignette (!), che talvolta venivano svuotate completamente del loro contenuto, il quale veniva rappresentato in ciò che rimaneva della pagina (!!) e altre folli trovate in cui veniva utilizzata altresì la tecnica della metanarrazione. "Harem End" formalmente è un fumetto classico, impaginato schematicamente e disegnato senza un'eccessiva abbondanza di particolari, un divertissement sepolcrale e squisitamente malato, un modo estremo e autorale di concepire il sacrosanto otaku trolling - un diritto inderogabile dell'umanità tutta, inclusi gli stessi otaku.


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Si è di fronte a un problema e, ahimè, è sempre lo stesso: saper riconoscere i propri limiti e giocare secondo le proprie possibilità, uno dei difetti più ricorrenti nelle serie d’animazione degli ultimi anni, tra le altre cose, in particolar modo se si prendono in analisi gli adattamenti delle light novel. Il punto essenziale sta proprio nell’adattamento, che mette sempre di fronte a un’ardua scelta: creare un prodotto fruibile in modo indipendente dall’originale o sfruttare al massimo il mezzo animato per incuriosire gli spettatori e stimolarli forzatamente all’acquisto di questo? Nell’ottica dello spettatore la prima è senz’altro la scelta più sensata, giacché un’opera monca lascerà sempre un po’ di amaro in bocca, ma le case di distribuzione ascoltano solo il portafogli, per cui prendere per i fondelli chi guarda, fargli annusare un po’ di trama per poi lasciata a mezz’aria e concludere con un nulla di fatto è ormai diventata la prassi. La bravura sta nel mascherare questo difetto, ossia nel prendersi gioco dello spettatore senza che quello se ne accorga. E in questo, “Re:Zero”, bisogna dargliene atto, è dannatamente bravo.
La parola magica in questo caso è il fanservice, ma non quello a sfondo erotico che ci si può aspettare dall’harem di turno, più quello gore e psicologico che ha fatto la fortuna di serie dall’opinabile valore intrinseco alla “Mirai Nikki” e soci. Sangue, violenza fisica e torture psicologiche, retorica spiccia, sentimenti urlati in faccia, rabbia e confessioni iperglicemiche. Un bel fritto misto di roba che all’otaku medio piace, eccome se piace. Aggiungiamoci ora il mistero - o mystery, come piace definirlo a chi vuole darsi un tono usando termini inglesi - e i cliffhanger, le scene lasciate in sospeso, gli episodi che terminano proprio sul più bello, una sorta di coito interrotto di emozioni che spezza bruscamente il piacere della visione per riprendere, quando va male, anche con un nulla di fatto nell’episodio successivo. Non dovrebbe stupire ora, prima ancora di sapere di che tratta, il perché “Re:Zero” piaccia così tanto. È lampante, l’astuzia.

Ricollegandosi alla corrente di romanzi per ragazzi in cui il protagonista è intrappolato in un mondo fantastico, la serie segue le vicende del giovane hikikomori Subaru Natsuki, catapultato senza apparenti motivi nel magico regno di Lugunica; se in un primo momento l’euforia per aver realizzato il suo grande sogno escapista prevale sullo sgomento, lasciando trasparire l’intenzione dello staff di non far prendere troppo sul serio la storia e servire un prodotto di puro e goliardico intrattenimento, con l’avanzare dell’intreccio questa viene meno, svelando e delineando la personalità del protagonista. Subaru è un inetto, testardo, ingenuo, egocentrico e spaccone, alle volte un po’ frignone, e per di più senza alcun potere magico o abilità fisica che possano essergli d’aiuto in battaglia; uno di quelli tutto fumo e niente arrosto, bravi a incantare gli sciocchi, ma non altrettanto capaci quando si tratta di passare all’azione. O perlomeno, questo vale per due terzi della serie, prima che gli autori lo trasformino magicamente in genio poliedrico capace di far pendere dalle proprie labbra le personalità più eminenti della nobiltà e dell’esercito del regno. Una dote però ce l’ha, quella della rinascita; ogni volta che muore, il protagonista riprende conoscenza in un determinato momento del passato, così, in un modo o nell’altro, attraverso parecchi tentativi, riesce a cavarsela per il rotto della cuffia e a sopravvivere in questo mondo nel quale ha deciso di ricominciare la sua anonima e vacua vita da zero. L’intento è quello di far capire, attraverso i cicli di sofferenza-morte-rinascita, che non tutti i mondi fantastici sono rose e fiori, che le persone muoiono quando vengono uccise e che nonostante i tentativi potenzialmente infiniti di Subaru, il dolore non è da sottovalutare. “Sword Art Online” ci aveva provato, con scarsissimi risultati, e “Re:Zero” rincara la dose facendo proprio del dolore il cardine di quel tipo di fanservice a cui alludevo prima. Due piccioni con una fava. A Subaru ne capitano di tutti i colori, muore in malo modo più e più volte e viene tradito ripetutamente da persone delle quali si fida. Ma, se all’inizio non sembra accusare di questo massacro, a circa metà della serie inizia il tracollo, le reazioni diventano sempre più plateali ed esagerate ed egli viene ridicolizzato sia da alcuni personaggi sia dal suo stesso atteggiamento. I cambi repentini dello stato d’animo e della psicologia, così contrastanti da risultare dissonanti tra di loro e non certo parte di un disegno lineare, ne mostrano prima il lato maniaco-vittimista, poi implodono in una catalessi tanto improbabile quanto fastidiosa, per riesplodere in forma di aggressività cieca e accidiosa follia e infine di nuovo in vittimismo e autocommiserazione a palate; in tutto questo non mancano le morti truculente, il gore fine a sé stesso, gli spargimenti di sangue e gli antagonisti tanto maligni almeno quanto stereotipati - e neanche in questo caso originali -, tutto per dare quella parvenza di maturità a un prodotto che invece risulta sempre più palesemente per ragazzini. E poi Subaru guarisce, basta una chiacchierata di quindici minuti e tutto passa, torna più forte e spavaldo di prima, furbo come non mai, con la situazione in mano e le carte giuste per salvare il regno e le sue donne. Se la mancanza di consequenzialità logica è prerogativa di questo tipo di fantasy, allora “Re:Zero” ne è il re.

La persona alla quale Subaru decide di votare la propria esistenza è Emilia, una specie di nobile emarginata sociale che a causa della propria etnia viene discriminata e mal vista dalla popolazione; il tutto avviene per motivi di somiglianza con la Strega Invidiosa, Satella, entità magica che in tempi passati ha semi-distrutto Lugunica. La gentilezza e l’aspetto angelico della giovane mezz’elfa dai capelli d’argento riescono a far breccia nei sentimenti di Subaru, il quale, proprio come gli spettatori, la eleva a oggetto del proprio culto personale, a donna angelo latrice di salvazione, sfruttandola come ancora per andare avanti in un mondo che, se in principio percepiva come Paese dei Balocchi, ora è più una Utumno in vesti moe. Emilia però si lascia avvicinare, corteggiare e proteggere dal suo cavaliere Don Chisciotte, troppo debole e di indole ingenua, nonché impegnata con le selezioni per governare il regno, per riuscire a chiedersi cosa mai lo spinga a rischiare la vita per lei.
Anche le due cameriere della ragazza rivestono un ruolo da comprimario nella serie: due demoniette molto carine e tenere che però, in preda ai cinque minuti, possono diventare altresì aggressive e sanguinarie come la ben nota Yuno Gasai; yandere una, tsundere l’altra, la prima prosperosa e la seconda meno dotata, entrambe in abiti da maid all’occidentale, una azzurra e l’altra rosa. Due stereotipi viventi il cui livello di abuso nella cultura pop giapponese è proporzionale solo al potere di infatuazione esercitato sul pubblico maschile - e perché no, pure quello femminile in parte. Rem, quella azzurra, è l’emblema del fanservice di cui parlavo prima, un vero e proprio feticcio per otaku, quel tipo di personaggio moe che può prenderti e farti a pezzi - ma con quel visino che si ritrova come fai a dirle di no? - e che quando sorride, arrossendo e chiudendo gli occhi, riesce a intenerire anche le pietre - e di scene del genere, appunto, la serie è satura.
I personaggi che si turnano al fianco del protagonista sono molti di più, tante pedine che vengono conquistate abilmente dal fascino celato e misterioso - perché certamente non è manifesto allo spettatore - di Subaru e che avvicinandosi al finale pendono sempre di più dalle sue labbra, quasi egli fosse un messaggero degli dei sceso in terra per salvarli.

Resta però il problema di fondo, di Emilia si sa poco o nulla, il suo passato è un mistero, i suoi veri obbiettivi anche, per non parlare del famiglio che porta sempre con sé, e le altre candidate al trono non godono di una sorte migliore, ovviamente, nessuna caratterizzata a dovere. Fanno tutte quelle due o tre comparse ciascuna, nelle quali sembra che debbano essere di chissà quale importanza ai fini della trama, e alla fine scompaiono lasciando il tempo che trovano; solo Crusch ottiene una caratterizzazione comportamentale decente, ma di un background neanche l’ombra. Di Betelgeuse poi è meglio non parlare, avrebbe fatto almeno ridere come caratterizzazione, se non fosse tanto grottesco nel suo masticarsi le dita. A salvarsi sono le due maid, Rem e Ram, e in parte il maggiordomo Wilhelm, se si prendono per buone quelle due o tre sequenze di flashback inserite stocasticamente nel bel mezzo di una battaglia. E poi c’è Subaru, di cui si ignora davvero tutto e che tuttavia riesce, nel suo essere congerie di sentimenti opposti e cozzanti, a passare per capolavoro di realismo psicologico agli occhi dei più.

Arriviamo al dunque: di per sé non è una brutta base quella di “Re:Zero”, per quanto in buona parte abusata e già vista più volte altrove, ma ciò che delude è come essa non venga sfruttata appieno per ridursi a mero sponsor per la serie di light novel. I misteri che avvolgono i personaggi e i retroscena di tutte le vicende che coinvolgono Subaru e il mondo in cui si trova non solo non vengono svelati, ma la carne al fuoco aumenta sempre di più. Sarà anche stata una trasposizione fedelissima, ma, se alla fine di una serie la trama viene lasciata così penzolante e le informazioni che lo spettatore può raccogliere sulla storia di protagonista, coprotagonisti, antagonista e personaggi secondari sono più o meno equivalenti a zero, allora la qualità dell’adattamento diventa davvero scarsa.
Però il fine ultimo è stato raggiunto, WHITE FOX è riuscita a creare un prodotto che ha provocato una crisi mistica in molti e che ha intrattenuto discretamente per più di metà serie anche chi riconosca tutti i difetti attribuibili alla serie stessa; graficamente sempre piacevole, ottimamente impacchettato, potremmo dire, con combattimenti e duelli frequenti che riescono a tenere alta la tensione. Quello che invece non va è la sceneggiatura, troppo semplicistica, e non sarebbe un grosso problema, se non venissero dedicati interi episodi a dialoghi inconsistenti e ridondanti tra i vari personaggi. Insomma, per ogni cosa buona che fa, “Re:Zero” sembra volersi tirare apposta la zappa sui piedi, partendo indubbiamente bene e decidendo poi di ballare sul filo della sufficienza per più di metà serie; sono stato in dubbio se concedergliela o no, se confidare che tutti i misteri e gli interrogativi che vedono la luce nella serie - e che già di per sé, restando irrisolti, condizionano parecchio il prodotto - trovino effettivamente una soluzione logica nella web novel originale, ma lo scetticismo alla fine ha prevalso e, seppur di poco, ho optato per l’insufficienza. Si sa, la speranza è l’ultima a morire, per cui mi accodo a chi sarebbe curioso di scoprire le nuove disavventure di Subaru e compagnia, se non altro per capire se l’autore dei romanzi, con l’avanzare della trama, qualche mistero intende svelarlo o si è proprio preso deliberatamente gioco dello spettatore per tutti e venticinque gli episodi.


8.0/10
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Per la regia di Take Masaharu, al suo secondo film in concorso al Far East Film Festival 17, un'avvincente storia che getta un appassionato sguardo sui retroscena delle produzioni tokusatsu, con un calibrato gioco di film nel film in cui non mancano momenti toccanti. Come in "100 Yen Love" il regista nipponico ci regala un altro stupendo ritratto umano alla disperata ricerca di riscatto.

Wataru Honjo ("Toshiaki Karasawa", "20th Century Boys", "Oba: L'ultimo samurai") è un grande fan di Bruce Lee nonché uno stuntman leggendario nell'ambiente delle produzioni televisive di genere tokusatsu, con i suoi venticinque anni di carriera alle spalle in cui ha vestito i panni dell'eroe mascherato protagonista della popolare serie Dragon Four. Fra gli addetti ai lavori è molto considerato e rispettato, ed è il presidente di un club di arti marziali, ma è pressoché sconosciuto al grande pubblico, dal momento che ha sempre lavorato come controfigura o col volto celato dalla maschera. Quando Dragon Four viene riadattato per il cinema, si affaccia per Honjo la possibilità di spiccare il grande salto con un ruolo senza maschera, ma purtroppo la produzione affida il personaggio al giovanissimo Ryo Ichinose ("Sota Fukushi", "Library Wars", "As God Will"), già idolo delle teenager e ben intenzionato a far rotta verso Hollywood. Al nostro eroe nascosto non resta che indossare il suo costume per fare da controfigura al ragazzo. Inoltre gli viene richiesto di insegnare al novellino i segreti del mestiere, così Honjo, nonostante il carattere presuntuoso e arrogante di Ryo, non solo si impegna seriamente a istruirlo nella dura disciplina delle arti marziali, ma gli impartisce lezioni di umiltà, oltre che di tecniche di combattimento. Lontano dalle luci della ribalta, i due hanno delle questioni personali da affrontare, Ryo infatti deve badare ai suoi due fratelli minori dopo che la madre li ha abbandonati (scopriremo in seguito che il suo desiderio di andare a Hollywood è dettato proprio dal desiderio di ricongiungersi con sua madre fuggita in America). Anche Wataru dal canto suo ha dei problemi irrisolti con cui fare i conti: ha il rispetto di tutti i suoi colleghi, ma non ha mai realizzato il suo sogno di essere il protagonista in film di arti marziali come il suo eroe Bruce Lee, è un uomo che non è mai cresciuto davvero, allontanato dalla moglie a cui tiene ancora molto, è molto affettuoso con sua figlia adolescente. La faccenda si complica nel momento in cui, pur di consentire a Ryo di fare il suo primo film hollywoodiano, Honjo accetta di girare al posto suo una pericolosissima sequenza action, senza cavi né protezioni, che, secondo le intenzioni del regista Stanley Chen (interpretato dal vero regista coreano Lee Joon-ik), sarebbe la più grande scena d'azione mai girata.

Buddy movie, arti marziali, meta-cinema, commedia e melodramma si mescolano in "Unsung Hero" di Take Masaharu, conosciuto anche come "In The Hero": è una dichiarazione d'amore per il cinema e per tutti quelli che sono coinvolti nella produzione di un film, ma soprattutto per la figura dello stuntman come condizione esistenziale, figura eroica e nascosta dalle luci della ribalta, pronta ad assumersi tutti i rischi come un amante folle della settima arte e cinefilo patologico, disposto a sacrificare la propria vita per un film o addirittura per una singola sequenza. Il regista ci porta dietro le quinte, e con affetto descrive la vita quotidiana di questi artisti e il loro lavoro sul set, per rivelarci i trucchi di una magia che è sì finta, ma anche terribilmente romantica. Tra situazioni comiche, coreografie rutilanti, sguardi critici verso l'industria cinematografica e momenti ricchi di pathos, il film salta allegramente da un registro all'altro, per passare dalla coralità della vita sul set allo scandagliare il privato dei due protagonisti. Al loro fianco un assortito clan di attori caratteristi, fra i quali spicca Susumu Terajima ("Casshern", "Air Doll", "Helter Skelter") in un divertente e autoironico cambio di sesso come suite actor, dovendo recitare nel ruolo di un personaggio femminile mascherato in rosa, mentre una collega donna interpreta un personaggio maschile per il fisique du role. Fra gli altri attori si possono menzionare: il collega stuntman Tomoka Kurotani ("Samurai Resurrection", "Shinobi", "Honcho Azumi"), la figlia Hana Sugisaki ("Madame Marmalade no Ijo na Nazo", "Humanoid Monster Bem") e la ex moglie Emi Wakui ("Robo-G").