Le serie live-action Netflix generalmente non sono la crème de la crème della produzione audiovisiva, intente a raccattare le più disparate nicchie di mercato senza in realtà riuscire ad aggregare un vero pubblico specifico, però possiamo dire che quelle poche volte in cui davvero si impegnano in ambito d'animazione, i risultati li ottengono eccome.
E' il caso di Blue Eye Samurai, arrivato sulla piattaforma lo scorso 3 novembre e accolto quasi subito con grandi ovazioni dalla critica, quasi come se si meravigliassero che un cartone animato potesse essere nei fatti un ottimo prodotto. E Blue Eye Samurai lo è.
 
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La serie è stata creata da Michael Green, uno sceneggiatore che ha prestato la sua penna a molteplici prodotti: tra i lungometraggi vogliamo dimenticare Lanterna Verde del 2011, e preferiamo ricordare Logan (per il quale ha ricevuto una candidatura agli Oscar nel 2018) e Blade Runner 2049, entrambi film che hanno avuto un ampio successo di critica per la maturità con cui sono stati concepiti e sceneggiati. Non si limita però a questo il parco produttivo di Green, infatti lo vediamo anche all'opera su un formato più ridotto, quello delle serie televisive: è stato infatti uno degli sceneggiatori di Smallville, Heroes e American Gods.
Insomma, uno veterano che ha avuto a che fare con vari ambiti dell'audiovisivo live action e abituato a muoversi sui tempi lunghi.
In proposito, la prima stagione (perché ne arriverà una seconda) di Blue Eye Samurai si dipana per otto episodi di lunghezza variabile ma più o meno tutti attorno all'ora. L'impiego di tempo è importante, considerando l'abitudine al consumo di contenuti audiovisivi "snack" (cosette da qualche minuto o secondo, come le storie Instagram o i TikTok) o quella ai cartoni animati seriali a cui il pubblico è abituato, basti pensare agli anime che viaggiano sui 20 minuti abbondanti.

Il secondo nome che si trova dietro la scrittura di Blue Eye Samurai è quello di Amber Noizumi, sulla carta moglie di Green ma per quanto ci riguarda vera fonte di ispirazione di questo titolo. La serie infatti nasce con l'intento di raccontare l'esperienza, vissuta dalla creatrice, di essere di etnia mista  ovvero per metà giapponese e per metà americana.La coppia aveva in realtà in mente la propria stessa figlia, la quale è stata scelta, non a caso, per doppiare la versione giovane della protagonista, la vendicatrice, guerriera, ronin, demone Mizu.
 
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Siamo nel Giappone del 17esimo secolo. Il paese nel periodo Edo ha chiuso i confini e si è chiuso al resto del mondo. Ovviamente però il mercato nero non si è fatto fermare dalle frontiere sbarrate. In questo contesto cresce Mizu, orfana di madre giapponese. Mizu vuole vendicarsi del padre, uno dei quattro uomini occidentali presenti nell'arcipelago che non hanno lasciato il paese: lei non sa chi sia il padre per cui ucciderli tutti e quattro porrà fine a qualsiasi dubbio. Per poter compiere la sua missione Mizu deve viaggiare molto e per chi, come lei, è di etnia mista, non c'è vita facile; soprattutto visto che i geni del padre sono ben visibili sul suo corpo: pelle diafana e occhi blu. In un Giappone che considera i tratti occidentali come forieri di sventura e maledetti, la guerriera è costretta a mascherare i tratti e il suo genere per non essere perseguitata in quanto straniera.

La trama non è delle più originali, si tratta di un personaggio marginalizzato in viaggio per ottenere la tanto desiderata vendetta. Il suo cammino di rivalsa viene osteggiato e fiancheggiato da numerosi personaggi che condividono con lei lo stesso status di persone al limite dell'accettabile: dal suo maestro Eiji, un fabbro cieco che riesce a sentire il metallo con il solo udito; Ringo, un cuoco che ama il suo lavoro e vorrebbe diventare un abile samurai ma nessuno lo vorrebbe come apprendista dal momento che è nato senza mani. I personaggi non si limitano a persone ordinarie, del "popolo", perché il destino di Mizu si intreccia anche con quello di Taigen e Akemi, due nobili innamorati che il padre di lei non vuole far sposare perché Taigen non è di nobile retaggio.
 
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Di Blue Eye Samurai è davvero pregevole come i personaggi si muovano insieme alle tematiche e alla trama della serie che risulta costruita come una botte di ferro: temi, tempi, narrazioni, tutto s'intreccia, si richiama, viene completato e danza lungo il sentiero di vendetta percorso dalla katana di Mizu. Quella di Green e Noizumi è una di quelle serie che se viste una seconda volta possono sorprendere lo spettatore con l'accuratezza e l'acume delle esche narrative che in maniera coerente e omogenea affastellano la scrittura della serie: l'incendio, il ferro della lama, la sciarpa. Tutti elementi non casuali, come il proverbiale chiodo piantato sulla scenografia di un palco teatrale: se qualcuno l'ha messo è perché più tardi servirà a qualcosa. Appenderci un cappello? Ammazzarci qualcuno? Pulirsi la terra dalle unghie? Chi lo sa, ma a qualcosa servirà. 

Su una struttura così omogenea si scontrano i temi della discrepanza, molto cari alla narrativa contemporanea. Ogni personaggio ha qualcosa che lo rende marginale, Mizu in primis; è da quella impurità che tutti i personaggi traggono la loro forza, nel bene e nel male.

Il male in Blue Eye Samurai è un concetto molto interessante perché la protagonista lo incarna in maniera neutra. Il cammino di vendetta di Mizu rafforza il suo essere un demone, un incubo ad occhi aperti per chiunque abbia la sfortuna di dover incrociare la sua katana impura e demoniaca, ma anche per chiunque abbia modo di incrociare il suo sguardo di un blu innaturale, vedere la sua pelle pallida come quella dei demoni, della onryo, il demone nipponico della vendetta rappresentato con il volto cinereo e aberrante di una donna.
Mizu non ha paura di versare del sangue e il suo percorso sarà inondato dal liquido rosso.
Lo spettatore si vede dinnanzi una protagonista che incarna queste caratteristiche demoniache, è davvero pronta a tutto per poter coronare la sua missione. Lei ucciderà quei quattro uomini bianchi a qualsiasi costo, qualsiasi.
Ci sono momenti in cui un personaggio in cerca di vendetta ma dalla volontà scheggiata dalle emozioni avrebbe agito in maniera diversa rispetto a Mizu, che bilancia bene vantaggi e svantaggi di ogni sua azione e decide pensando sempre a ciò che le farà raggiungere il suo scopo.
 


D'altro canto c'è il personaggio di Akemi che salta da un ruolo all'altro quando meglio le conviene. Il suo carattere forte e ribelle all'occorrenza diventa ciò che gli altri si aspettano da lei, una fanciulla indifesa e sottomessa. Persegue i suoi obiettivi dicendo alle persone ciò che vogliono sentirsi dire, agendo come vorrebbero agisca, quando i suoi obiettivi sono ben diversi e ben più grandi. Akemi è contraltare di Mizu, che è riflesso della sua stessa katana: fredda, silente, impura. E questo è un rapporto scalare, perché dalle piccole azioni e vicende dei protagonisti si vengono a scoprire diatribe e faide tra famiglie, clan, fino ad arrivare al Giappone intero.
Quindi, soltanto delinenando queste tre figure si può capire come funzionino i fili che uniscono gli elementi di Blue Eye Samurai
Eh sì, è scritto bene.

Si parla di una serie che è in grado anche di dare il benvenuto a più tipi di pubblico confezionando otto episodi figli dell'ibridismo riuscito tra la cultura occidentale e orientale: il soggetto rappresenta una storia ambientata in Giappone ma con un'accuratezza storica veramente molto alta. Sicuramente Amber Noizumi ha contribuito a supervisionare l'aderenza culturale generale della serie, soprattutto quella esperienziale. La produzione d'altronde si è anche affidata a specialisti del periodo Edo in modo tale da essere il più veritieri possibili nelle rappresentazioni: addirittura i personaggi sono stati delineati stilisticamente per ricordare le bambole Bunraku (che compaiono direttamente nell'episodio 5).
 

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Anche da un punto di vista dell'immaginario, Blue Eye Samurai gioca sui livelli del "già visto" nell'ottica di rimanere in una confort zone per lo spettatore, riprendendo la cinematografia nota al pubblico occidentale che si è occupata di rappresentare il Giappone da esterno. La serie infatti pullula di citazioni a Kill Bill di Tarantino alla cui trama strizza molto l'occhio, oppure ai film di samurai (chanbara) che in America sono stati molto popolari al tramontare del secolo scorso. La serie li riprende tematicamente ma anche visivamente, rendendosi conto di doversi scontrare con un pubblico avvezzo forse agli anime, e forse anche ai film di cui sopra. 

Dagli anime e dalla cinematografia giapponese, Blue Eye Samurai abbraccia le "visuals", le immagini sceniche, iconiche, le scene memorabili e visive, quell'essere "extra" tipico degli anime ma ben contestualizzato in una sequenza radicata nel jidaigeki (il drama storico, per capirci) e nella storia con la S maiuscola. Anche tecnicamente Blue Spirit Studios, realtà folle francese dalla grande capacità di adattamento e sperimentazione, diventa fondamentale per la buona riuscita della serie: ve lo ricordate l'episodio di Agent Carter-Captain America di Marvel's What if...? è stato realizzato da loro nella medesima tecnica. Ma sempre loro è La mia vita da zucchina, film in stop-motion con la sceneggiatura di Celine Sciamma. Registicamente la serie, come detto, si prende il tempo di contestualizzare Mizu e i personaggi nell'ambiente, dando vita a bellissime inquadrature e riprese. Blue Spirit Studios mette a punto una grafica 3D che si nasconde dietro un 2D luminoso, e che rende ulteriormente omogeneo il discorso di Blue Eye Samurai; prende un character design che ricorda quello degli anime e lo assottiglia, lo riempie di spigoli e sbavature, più vicino allo stile occidentale. Inoltre fa andare indietro nel tempo la grafica dell'animazione ri-imponendo i contorni colorati, come prima dell'avvento della fotocopiatrice nel processo di animazione 2D (dal momento in poi i bordi dei disegni sono diventati tutti tassativamente neri).
 
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In sostanza, Blue Eye Samurai è una serie dalla narrazione fluida, fortemente coerente che segue personaggi il cui percorso è una danza di emozioni. Si racconta usando la doppia natura della serie, occidentale e orientale, a suo vantaggio: sia nel creare la storia che nel rappresentarla visivamente. Uno dei migliori prodotti animati dell'anno scorso, sicuramente tra i migliori portati da Netflix.