Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Per l'appuntamento di oggi abbiamo scelto dei titoli che sono stati o vengono trasmessi sulle televisioni italiane. Nel caso, Tokyo Magnitude 8.0, Claymore (la cui messa in onda è appena iniziata sul canale satellitare Man-ga) e Michiko e Hatchin.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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Tokyo Magnitude ha tradito le mie aspettative.
Le tante recensioni positive e i commenti letti in giro per il sito mi avevano spinto a cercare e seguire questo anime, che onestamente già mi aveva incuriosito al momento della sua pubblicazione giapponese. Più alte sono le aspettative, più grande è la delusione quando ci si rende conto che si sta visionando un prodotto che non ti riesce a prendere e che, anzi, ti annoia.

Come si più chiaramente evincere dal titolo l'anime è ambientato in una Tokyo inaspettatamente devastata da un potente cataclisma. La storia, in qualche modo profetica visto quanto accaduto un anno dopo la sua trasmissione nel mondo reale, si concentra sue due ragazzini, una bambina e il suo fratellino, che in mezzo al caos scatenatosi cercano di tornare a casa dai propri genitori.

Secondo quanto è annunciato all'inizio di ogni episodio l'anime propone una visione documentata e realistica di come la città di Tokyo reagirebbe ad un cataclisma di simili proporzioni, e ammetto che questo aspetto è ben proposto e risulta molto interessante. A livello informativo Tokyo Magnitude si dimostra un prodotto valido, sfortunatamente non è un documentario, opzione che visto il risultato finale sicuramente rimpiango. Il suo principale problema, per quel che mi riguarda, è che elegge a suoi protagonisti una irritante e viziata ragazzina e il suo ben più maturo fratellino e li segue durante la ricerca della loro casa, mentre passano di fianco, schivando per un pelo, una serie di ulteriori sciagure. Per rendere più partecipe lo spettatore gli sceneggiatori decidono di forzare un po' la mano e staccare con il realismo della ricostruzione, inoltre per caricarlo emotivamente optano per una serie di spettacolari e drammatici eventi che vanno a minare la credibilità del titolo. Come se non bastasse puntano su un finale dalle lacrime facili, ma in fin dei conti già il fatto di aver scelto due bambini come protagonisti era indicativo del fatto che si era scelta la strada più ovvia, quella che poteva provocare maggiore emotività e compassione nello spettatore.

Non sono uno che ha difficoltà ad emozionarsi: Una Tomba per le Lucciole mi fece scendere copiose lacrime, anche di recente Anohana non mi ha lasciato indifferente, sebbene fossero di sapore ben più dolce, mentre Tokyo Magnitude non è riuscito a scalfirmi. Colpa credo del fatto che è piuttosto lineare e prevedibile, avevo già intuito dove voleva arrivare. Inoltre, la scelta di voler emozionare lo spettatore a tutti i costi, si è rivelata per quel che mi riguarda controproducente, inducendomi a guardarlo in modo distaccato.

Tecnicamente si attesta su livelli buoni, mentre sicuramente quello che ho più apprezzato di Tokyo Magnitude sono le due sigle, molto carine.

Riassumendo, questo anime per quel che riguarda è stata una delusione: l'ho trovato forzatamente drammatico, poco spontaneo, troppo pilotato e paradossalmente, nel suo realismo, proprio per questi motivi irrealistico.



7.0/10
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Non è un caso che da molti sia stato definito gratuitamente il 'Berserk al femminile', e che il paragone possa anche starci, ma per grandi linee, ovviamente. "Claymore", nato da un'idea di Norihiro Yagi, presenta certi elementi in comune con la più blasonata opera di Miura: non solo l'immaginaria ambientazione di tipo medievale e le tonnellate di teste e arti mozzati, ma soprattutto, se teniamo conto dei rispettivi adattamenti animati, l'onere di non potere concludersi in simbiosi con una versione cartacea ancora in prosecuzione. In questo confronto ha 'la meglio' "Claymore", che fornisce un epilogo - seppure ipotizzabile e un po' indebolito - molto più 'ciclico' e meno frettoloso. Ma perfino l'incipit è strutturato in una maniera che ricorda vagamente il racconto in flashback della crescita di Gatsu e della sua formazione di guerriero, rispecchiatasi in quella di Claire, l'affascinante eroina di questa storia. Insieme alle altre presenze femminili dall'aurea chioma che formano il gruppo delle Claymore, porterà avanti, per conto di un'organizzazione misteriosa, il rischioso compito di eliminare le mostruose creature chiamate Yoma, il cui sangue scorre nelle guerriere stesse, alla pari di quello umano.
Ma un intento vendicativo spingerà la ragazza ad andare spesso e volentieri oltre i propri limiti, affrontando più e più volte ogni sorta di orrore, che vedrà coinvolti mostri ancor più potenti, i Risvegliati.

Senza dubbio "Claymore" è una di quelle opere che dal punto di vista narrativo può regalare tante soddisfazioni, ma che, sfortunatamente, non riesce a nascondere difetti che possono minare in parte l'intrattenimento offerto. La sceneggiatura è altalenante: munita di buoni colpi di scena ma anche di pessimi cliché (come gli immancabili 'salvataggi di vita in extremis'). Dal lato tecnico, ciò che non convince affatto è la regia, già molto prevedibile dopo qualche episodio: lo si nota specialmente nelle scene di combattimento - pertanto molto frequentemente -, spesso 'gonfiate' da accorgimenti mediocri che non abbelliscono affatto lo svolgimento degli scontri ma peggio ancora ne rivelano la staticità di fondo; le tecniche di ripresa vengono inoltre adoperate molto male, al livello di certi anime di seconda categoria. La colonna sonora è abbastanza variegata, ma non sempre incisiva nel giusto modo.
Nel complesso è la magnifica storyline, pur non brillando per originalità di situazioni, a garantire ore di visione ininterrotta, grazie a un ritmo narrativo incalzante e un folto insieme di personaggi dotati di grande carisma e mai relegati a ruoli secondari.



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Spesso mi diverto a stroncare anime e manga che la vulgata spaccia per capolavori mentre invece sono solo la moda del momento, nell'attesa che il tempo faccia il suo dovere e releghi queste sole clamorose al loro vero posto, il dimenticatoio. Stavolta invece mi prendo la responsabilità di riscoprire un anime ingiustamente sottovalutato, ma che invece io trovo un piccolo capolavoro.
"Michiko e Hatchin" è una serie di 22 episodi del 2008, prodotta dalla Manglobe, che parla delle avventure di Hatchiko, una bambina orfana sfruttata a mai dire dalla famiglia adottiva. Il suo sogno è fuggire da quella prigione senza sbarre e un giorno, nella maniera più rocambolesca possibile, questo diventerà realtà. Infatti verrà rapita dalla galeotta evasa dal carcere Michiko Malandro. Dopo che Michiko avrà scoperto che la piccola è la figlia del suo ex compagno Hiroshi Moreno, partiranno alla sua ricerca per tutto il paese.

Vedendo quest'anime non si può fare a meno di ritornare con la memoria a un illustrissimo predecessore, "Cowboy Bebop". Gli elementi in comune sono moltissimi: un'elevatissima cura dei dettagli visivi, un taglio estremamente cinematografico dell'opera e la presenza di citazioni a impreziosire il tutto - come non notare che uno dei protagonisti, Satoshi Batista, somiglia moltissimo al gangter di City of God, Zè Pequeno?. Troviamo personaggi cinici e controversi, e una colonna sonora splendida, di Shinichiro Watanabe, che, se in Cowboy Bebop era il regista, qui è il produttore della colonna sonora realizzata dall'artista brasiliano Kassin.
Tuttavia c'è una differenza sostanziale tra i due anime, ed è secondo me il motivo per cui "Michiko e Hatchin" non ha avuto tutto l'enorme seguito dell'anime del 1998. "Cowboy Bebop" è una serie ironica venata di tristezza; "Michiko e Hatchin" invece è una serie triste venata di ironia. D'altronde come potrebbe essere altrimenti? Per quanto il racconto sia picaresco e gustosamente sempre sopra le righe, l'ambiente in cui si muovono i personaggi e le loro vicende sono decisamente drammatici. Michiko è cresciuta in un orfanotrofio dove la direttrice vendeva i bambini per mettere su un po' di soldi. Per lei la strada della delinquenza non è stata una scelta, era proprio l'unico mestiere possibile da intraprendere uscita dall'istituto. Hatchin invece è la figlia adottiva di un pastore evangelista che l'ha presa con sé solo per intascare il sussidio statale e risparmiare i soldi della colf. Attorno a loro si muovono criminali da strapazzo, gang di bambini, prostitute, improvvisati guaritori, veggenti da quattro soldi e per quanto l'aura attorno a questi caratteri non sia mai di vittimismo o denuncia, ma sia esagerata e miticizzante, rimane sempre l'amaro in bocca quando li si vede muovere in scena. Senza poi contare lo sfondo in cui si dipana la trama.

Il luogo dove è ambientato "Michiko e Hatchin" è un non precisato paese dell'America Latina, ma dove tutto riconduce a credere di essere in Brasile. Essendo però la serie prima di tutto una cronaca di poveri diavoli, certo non vedremo bellezze in topless, carnevali o favolose spiagge. Spesso e volentieri vedremo le nostre eroine ospiti in squallidi hotel, perse fra i vicoli di sporche favelas, bloccate in qualche villaggio polveroso dell'altopiano. Insomma, non si poteva introdurre simili argomenti e ambientazioni senza un uso sapiente del ritmo di narrazione, che certo non poteva essere quello sincopato di "Cowboy Bebop". Qui tutto è molto più lento e dilatato, e, anche se non mancano i momenti di azione matta e disperata, sono decisamente di più i momenti riflessivi e malinconici, cosa che lo rende molto meno fruibile. Anzi, a dire la verità, è proprio questo l'unico difetto dell'anime, ovvero che certe volte tira troppo la corda alla narrazione e diventa inutilmente lento. Si ha l'impressione che certi episodi siano stati messi solo come puro riempitivo e che alcuni di quegli stessi filler abbiano ben poco da offrire allo spettatore in termini di sviluppo della trama o d'intrattenimento in sé.

Forse però la serie televisiva lunga non era la giusta collocazione per un anime così maturo. Vedendolo pensavo spesso che con un numero minore di episodi a disposizione quest'anime sarebbe diventato praticamente perfetto, o meglio ancora, un film cinematografico avrebbe permesso alla trama di spiccare definitivamente il volo.
Per il resto "Michiko e Hatchin" è un signor anime che nonostante la facciata ironica e scanzonata mi ha teneramente commossa. Il rapporto filiale che si viene a creare tra le due protagoniste è una delle cose meglio scritte e autentiche che io abbia mai visto. Non ci sono melensaggini o facili ricorsi a tutti gli stereotipi narrativi del caso. Hatchin non è affatto la solita orfanella dei meisaku in odor di santità: è indisponente, dispettosa, testarda oltre ogni limite del buon senso. Michiko poi è il pessimo elemento per eccellenza. Veste in maniera a dir poco discinta, fuma e beve senza ritegno davanti alla bambina, è sboccata, non esita ad alzare le mani sulla sua piccola compagna di viaggio per tenerla a bada, se deve ottenere qualcosa sa bene che fa sempre prima a rubarla. Tuttavia Hatchin ha trovato in Michiko la madre che non ha mai avuto e Michiko ha trovato in Hatchin l'anima che in tanti anni di crimini non le era mai servita a nulla, finché il fortissimo rapporto che tra le due nascerà troverà il miglior compimento possibile nel meraviglioso e toccante finale.

Dal punto di vita tecnico "Michiko e Hatchin" non ha nulla da farsi rimproverare: sfondi reali maniacalmente trasposti su disegno, animazioni perfette, un character design particolarissimo e al tempo stesso evocativo e accattivante, nonché estremamente "cool". Menzione speciale va alle musiche, molto sofisticate e particolari.
Assolutamente da riscoprire.