Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Per l'appuntamento di oggi abbiamo scelto dei titoli che sono stati o vengono trasmessi sulle televisioni italiane. Nel caso, Tokyo Magnitude 8.0, Claymore (la cui messa in onda è appena iniziata sul canale satellitare Man-ga) e Michiko e Hatchin.
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
Per l'appuntamento di oggi abbiamo scelto dei titoli che sono stati o vengono trasmessi sulle televisioni italiane. Nel caso, Tokyo Magnitude 8.0, Claymore (la cui messa in onda è appena iniziata sul canale satellitare Man-ga) e Michiko e Hatchin.
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
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Tokyo Magnitude 8.0
5.0/10
Tokyo Magnitude ha tradito le mie aspettative.
Le tante recensioni positive e i commenti letti in giro per il sito mi avevano spinto a cercare e seguire questo anime, che onestamente già mi aveva incuriosito al momento della sua pubblicazione giapponese. Più alte sono le aspettative, più grande è la delusione quando ci si rende conto che si sta visionando un prodotto che non ti riesce a prendere e che, anzi, ti annoia.
Come si più chiaramente evincere dal titolo l'anime è ambientato in una Tokyo inaspettatamente devastata da un potente cataclisma. La storia, in qualche modo profetica visto quanto accaduto un anno dopo la sua trasmissione nel mondo reale, si concentra sue due ragazzini, una bambina e il suo fratellino, che in mezzo al caos scatenatosi cercano di tornare a casa dai propri genitori.
Secondo quanto è annunciato all'inizio di ogni episodio l'anime propone una visione documentata e realistica di come la città di Tokyo reagirebbe ad un cataclisma di simili proporzioni, e ammetto che questo aspetto è ben proposto e risulta molto interessante. A livello informativo Tokyo Magnitude si dimostra un prodotto valido, sfortunatamente non è un documentario, opzione che visto il risultato finale sicuramente rimpiango. Il suo principale problema, per quel che mi riguarda, è che elegge a suoi protagonisti una irritante e viziata ragazzina e il suo ben più maturo fratellino e li segue durante la ricerca della loro casa, mentre passano di fianco, schivando per un pelo, una serie di ulteriori sciagure. Per rendere più partecipe lo spettatore gli sceneggiatori decidono di forzare un po' la mano e staccare con il realismo della ricostruzione, inoltre per caricarlo emotivamente optano per una serie di spettacolari e drammatici eventi che vanno a minare la credibilità del titolo. Come se non bastasse puntano su un finale dalle lacrime facili, ma in fin dei conti già il fatto di aver scelto due bambini come protagonisti era indicativo del fatto che si era scelta la strada più ovvia, quella che poteva provocare maggiore emotività e compassione nello spettatore.
Non sono uno che ha difficoltà ad emozionarsi: Una Tomba per le Lucciole mi fece scendere copiose lacrime, anche di recente Anohana non mi ha lasciato indifferente, sebbene fossero di sapore ben più dolce, mentre Tokyo Magnitude non è riuscito a scalfirmi. Colpa credo del fatto che è piuttosto lineare e prevedibile, avevo già intuito dove voleva arrivare. Inoltre, la scelta di voler emozionare lo spettatore a tutti i costi, si è rivelata per quel che mi riguarda controproducente, inducendomi a guardarlo in modo distaccato.
Tecnicamente si attesta su livelli buoni, mentre sicuramente quello che ho più apprezzato di Tokyo Magnitude sono le due sigle, molto carine.
Riassumendo, questo anime per quel che riguarda è stata una delusione: l'ho trovato forzatamente drammatico, poco spontaneo, troppo pilotato e paradossalmente, nel suo realismo, proprio per questi motivi irrealistico.
Le tante recensioni positive e i commenti letti in giro per il sito mi avevano spinto a cercare e seguire questo anime, che onestamente già mi aveva incuriosito al momento della sua pubblicazione giapponese. Più alte sono le aspettative, più grande è la delusione quando ci si rende conto che si sta visionando un prodotto che non ti riesce a prendere e che, anzi, ti annoia.
Come si più chiaramente evincere dal titolo l'anime è ambientato in una Tokyo inaspettatamente devastata da un potente cataclisma. La storia, in qualche modo profetica visto quanto accaduto un anno dopo la sua trasmissione nel mondo reale, si concentra sue due ragazzini, una bambina e il suo fratellino, che in mezzo al caos scatenatosi cercano di tornare a casa dai propri genitori.
Secondo quanto è annunciato all'inizio di ogni episodio l'anime propone una visione documentata e realistica di come la città di Tokyo reagirebbe ad un cataclisma di simili proporzioni, e ammetto che questo aspetto è ben proposto e risulta molto interessante. A livello informativo Tokyo Magnitude si dimostra un prodotto valido, sfortunatamente non è un documentario, opzione che visto il risultato finale sicuramente rimpiango. Il suo principale problema, per quel che mi riguarda, è che elegge a suoi protagonisti una irritante e viziata ragazzina e il suo ben più maturo fratellino e li segue durante la ricerca della loro casa, mentre passano di fianco, schivando per un pelo, una serie di ulteriori sciagure. Per rendere più partecipe lo spettatore gli sceneggiatori decidono di forzare un po' la mano e staccare con il realismo della ricostruzione, inoltre per caricarlo emotivamente optano per una serie di spettacolari e drammatici eventi che vanno a minare la credibilità del titolo. Come se non bastasse puntano su un finale dalle lacrime facili, ma in fin dei conti già il fatto di aver scelto due bambini come protagonisti era indicativo del fatto che si era scelta la strada più ovvia, quella che poteva provocare maggiore emotività e compassione nello spettatore.
Non sono uno che ha difficoltà ad emozionarsi: Una Tomba per le Lucciole mi fece scendere copiose lacrime, anche di recente Anohana non mi ha lasciato indifferente, sebbene fossero di sapore ben più dolce, mentre Tokyo Magnitude non è riuscito a scalfirmi. Colpa credo del fatto che è piuttosto lineare e prevedibile, avevo già intuito dove voleva arrivare. Inoltre, la scelta di voler emozionare lo spettatore a tutti i costi, si è rivelata per quel che mi riguarda controproducente, inducendomi a guardarlo in modo distaccato.
Tecnicamente si attesta su livelli buoni, mentre sicuramente quello che ho più apprezzato di Tokyo Magnitude sono le due sigle, molto carine.
Riassumendo, questo anime per quel che riguarda è stata una delusione: l'ho trovato forzatamente drammatico, poco spontaneo, troppo pilotato e paradossalmente, nel suo realismo, proprio per questi motivi irrealistico.
Claymore
7.0/10
Recensione di Metaldevilgear
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Non è un caso che da molti sia stato definito gratuitamente il 'Berserk al femminile', e che il paragone possa anche starci, ma per grandi linee, ovviamente. "Claymore", nato da un'idea di Norihiro Yagi, presenta certi elementi in comune con la più blasonata opera di Miura: non solo l'immaginaria ambientazione di tipo medievale e le tonnellate di teste e arti mozzati, ma soprattutto, se teniamo conto dei rispettivi adattamenti animati, l'onere di non potere concludersi in simbiosi con una versione cartacea ancora in prosecuzione. In questo confronto ha 'la meglio' "Claymore", che fornisce un epilogo - seppure ipotizzabile e un po' indebolito - molto più 'ciclico' e meno frettoloso. Ma perfino l'incipit è strutturato in una maniera che ricorda vagamente il racconto in flashback della crescita di Gatsu e della sua formazione di guerriero, rispecchiatasi in quella di Claire, l'affascinante eroina di questa storia. Insieme alle altre presenze femminili dall'aurea chioma che formano il gruppo delle Claymore, porterà avanti, per conto di un'organizzazione misteriosa, il rischioso compito di eliminare le mostruose creature chiamate Yoma, il cui sangue scorre nelle guerriere stesse, alla pari di quello umano.
Ma un intento vendicativo spingerà la ragazza ad andare spesso e volentieri oltre i propri limiti, affrontando più e più volte ogni sorta di orrore, che vedrà coinvolti mostri ancor più potenti, i Risvegliati.
Senza dubbio "Claymore" è una di quelle opere che dal punto di vista narrativo può regalare tante soddisfazioni, ma che, sfortunatamente, non riesce a nascondere difetti che possono minare in parte l'intrattenimento offerto. La sceneggiatura è altalenante: munita di buoni colpi di scena ma anche di pessimi cliché (come gli immancabili 'salvataggi di vita in extremis'). Dal lato tecnico, ciò che non convince affatto è la regia, già molto prevedibile dopo qualche episodio: lo si nota specialmente nelle scene di combattimento - pertanto molto frequentemente -, spesso 'gonfiate' da accorgimenti mediocri che non abbelliscono affatto lo svolgimento degli scontri ma peggio ancora ne rivelano la staticità di fondo; le tecniche di ripresa vengono inoltre adoperate molto male, al livello di certi anime di seconda categoria. La colonna sonora è abbastanza variegata, ma non sempre incisiva nel giusto modo.
Nel complesso è la magnifica storyline, pur non brillando per originalità di situazioni, a garantire ore di visione ininterrotta, grazie a un ritmo narrativo incalzante e un folto insieme di personaggi dotati di grande carisma e mai relegati a ruoli secondari.
Ma un intento vendicativo spingerà la ragazza ad andare spesso e volentieri oltre i propri limiti, affrontando più e più volte ogni sorta di orrore, che vedrà coinvolti mostri ancor più potenti, i Risvegliati.
Senza dubbio "Claymore" è una di quelle opere che dal punto di vista narrativo può regalare tante soddisfazioni, ma che, sfortunatamente, non riesce a nascondere difetti che possono minare in parte l'intrattenimento offerto. La sceneggiatura è altalenante: munita di buoni colpi di scena ma anche di pessimi cliché (come gli immancabili 'salvataggi di vita in extremis'). Dal lato tecnico, ciò che non convince affatto è la regia, già molto prevedibile dopo qualche episodio: lo si nota specialmente nelle scene di combattimento - pertanto molto frequentemente -, spesso 'gonfiate' da accorgimenti mediocri che non abbelliscono affatto lo svolgimento degli scontri ma peggio ancora ne rivelano la staticità di fondo; le tecniche di ripresa vengono inoltre adoperate molto male, al livello di certi anime di seconda categoria. La colonna sonora è abbastanza variegata, ma non sempre incisiva nel giusto modo.
Nel complesso è la magnifica storyline, pur non brillando per originalità di situazioni, a garantire ore di visione ininterrotta, grazie a un ritmo narrativo incalzante e un folto insieme di personaggi dotati di grande carisma e mai relegati a ruoli secondari.
Michiko e Hatchin
9.0/10
Spesso mi diverto a stroncare anime e manga che la vulgata spaccia per capolavori mentre invece sono solo la moda del momento, nell'attesa che il tempo faccia il suo dovere e releghi queste sole clamorose al loro vero posto, il dimenticatoio. Stavolta invece mi prendo la responsabilità di riscoprire un anime ingiustamente sottovalutato, ma che invece io trovo un piccolo capolavoro.
"Michiko e Hatchin" è una serie di 22 episodi del 2008, prodotta dalla Manglobe, che parla delle avventure di Hatchiko, una bambina orfana sfruttata a mai dire dalla famiglia adottiva. Il suo sogno è fuggire da quella prigione senza sbarre e un giorno, nella maniera più rocambolesca possibile, questo diventerà realtà. Infatti verrà rapita dalla galeotta evasa dal carcere Michiko Malandro. Dopo che Michiko avrà scoperto che la piccola è la figlia del suo ex compagno Hiroshi Moreno, partiranno alla sua ricerca per tutto il paese.
Vedendo quest'anime non si può fare a meno di ritornare con la memoria a un illustrissimo predecessore, "Cowboy Bebop". Gli elementi in comune sono moltissimi: un'elevatissima cura dei dettagli visivi, un taglio estremamente cinematografico dell'opera e la presenza di citazioni a impreziosire il tutto - come non notare che uno dei protagonisti, Satoshi Batista, somiglia moltissimo al gangter di City of God, Zè Pequeno?. Troviamo personaggi cinici e controversi, e una colonna sonora splendida, di Shinichiro Watanabe, che, se in Cowboy Bebop era il regista, qui è il produttore della colonna sonora realizzata dall'artista brasiliano Kassin.
Tuttavia c'è una differenza sostanziale tra i due anime, ed è secondo me il motivo per cui "Michiko e Hatchin" non ha avuto tutto l'enorme seguito dell'anime del 1998. "Cowboy Bebop" è una serie ironica venata di tristezza; "Michiko e Hatchin" invece è una serie triste venata di ironia. D'altronde come potrebbe essere altrimenti? Per quanto il racconto sia picaresco e gustosamente sempre sopra le righe, l'ambiente in cui si muovono i personaggi e le loro vicende sono decisamente drammatici. Michiko è cresciuta in un orfanotrofio dove la direttrice vendeva i bambini per mettere su un po' di soldi. Per lei la strada della delinquenza non è stata una scelta, era proprio l'unico mestiere possibile da intraprendere uscita dall'istituto. Hatchin invece è la figlia adottiva di un pastore evangelista che l'ha presa con sé solo per intascare il sussidio statale e risparmiare i soldi della colf. Attorno a loro si muovono criminali da strapazzo, gang di bambini, prostitute, improvvisati guaritori, veggenti da quattro soldi e per quanto l'aura attorno a questi caratteri non sia mai di vittimismo o denuncia, ma sia esagerata e miticizzante, rimane sempre l'amaro in bocca quando li si vede muovere in scena. Senza poi contare lo sfondo in cui si dipana la trama.
Il luogo dove è ambientato "Michiko e Hatchin" è un non precisato paese dell'America Latina, ma dove tutto riconduce a credere di essere in Brasile. Essendo però la serie prima di tutto una cronaca di poveri diavoli, certo non vedremo bellezze in topless, carnevali o favolose spiagge. Spesso e volentieri vedremo le nostre eroine ospiti in squallidi hotel, perse fra i vicoli di sporche favelas, bloccate in qualche villaggio polveroso dell'altopiano. Insomma, non si poteva introdurre simili argomenti e ambientazioni senza un uso sapiente del ritmo di narrazione, che certo non poteva essere quello sincopato di "Cowboy Bebop". Qui tutto è molto più lento e dilatato, e, anche se non mancano i momenti di azione matta e disperata, sono decisamente di più i momenti riflessivi e malinconici, cosa che lo rende molto meno fruibile. Anzi, a dire la verità, è proprio questo l'unico difetto dell'anime, ovvero che certe volte tira troppo la corda alla narrazione e diventa inutilmente lento. Si ha l'impressione che certi episodi siano stati messi solo come puro riempitivo e che alcuni di quegli stessi filler abbiano ben poco da offrire allo spettatore in termini di sviluppo della trama o d'intrattenimento in sé.
Forse però la serie televisiva lunga non era la giusta collocazione per un anime così maturo. Vedendolo pensavo spesso che con un numero minore di episodi a disposizione quest'anime sarebbe diventato praticamente perfetto, o meglio ancora, un film cinematografico avrebbe permesso alla trama di spiccare definitivamente il volo.
Per il resto "Michiko e Hatchin" è un signor anime che nonostante la facciata ironica e scanzonata mi ha teneramente commossa. Il rapporto filiale che si viene a creare tra le due protagoniste è una delle cose meglio scritte e autentiche che io abbia mai visto. Non ci sono melensaggini o facili ricorsi a tutti gli stereotipi narrativi del caso. Hatchin non è affatto la solita orfanella dei meisaku in odor di santità: è indisponente, dispettosa, testarda oltre ogni limite del buon senso. Michiko poi è il pessimo elemento per eccellenza. Veste in maniera a dir poco discinta, fuma e beve senza ritegno davanti alla bambina, è sboccata, non esita ad alzare le mani sulla sua piccola compagna di viaggio per tenerla a bada, se deve ottenere qualcosa sa bene che fa sempre prima a rubarla. Tuttavia Hatchin ha trovato in Michiko la madre che non ha mai avuto e Michiko ha trovato in Hatchin l'anima che in tanti anni di crimini non le era mai servita a nulla, finché il fortissimo rapporto che tra le due nascerà troverà il miglior compimento possibile nel meraviglioso e toccante finale.
Dal punto di vita tecnico "Michiko e Hatchin" non ha nulla da farsi rimproverare: sfondi reali maniacalmente trasposti su disegno, animazioni perfette, un character design particolarissimo e al tempo stesso evocativo e accattivante, nonché estremamente "cool". Menzione speciale va alle musiche, molto sofisticate e particolari.
Assolutamente da riscoprire.
"Michiko e Hatchin" è una serie di 22 episodi del 2008, prodotta dalla Manglobe, che parla delle avventure di Hatchiko, una bambina orfana sfruttata a mai dire dalla famiglia adottiva. Il suo sogno è fuggire da quella prigione senza sbarre e un giorno, nella maniera più rocambolesca possibile, questo diventerà realtà. Infatti verrà rapita dalla galeotta evasa dal carcere Michiko Malandro. Dopo che Michiko avrà scoperto che la piccola è la figlia del suo ex compagno Hiroshi Moreno, partiranno alla sua ricerca per tutto il paese.
Vedendo quest'anime non si può fare a meno di ritornare con la memoria a un illustrissimo predecessore, "Cowboy Bebop". Gli elementi in comune sono moltissimi: un'elevatissima cura dei dettagli visivi, un taglio estremamente cinematografico dell'opera e la presenza di citazioni a impreziosire il tutto - come non notare che uno dei protagonisti, Satoshi Batista, somiglia moltissimo al gangter di City of God, Zè Pequeno?. Troviamo personaggi cinici e controversi, e una colonna sonora splendida, di Shinichiro Watanabe, che, se in Cowboy Bebop era il regista, qui è il produttore della colonna sonora realizzata dall'artista brasiliano Kassin.
Tuttavia c'è una differenza sostanziale tra i due anime, ed è secondo me il motivo per cui "Michiko e Hatchin" non ha avuto tutto l'enorme seguito dell'anime del 1998. "Cowboy Bebop" è una serie ironica venata di tristezza; "Michiko e Hatchin" invece è una serie triste venata di ironia. D'altronde come potrebbe essere altrimenti? Per quanto il racconto sia picaresco e gustosamente sempre sopra le righe, l'ambiente in cui si muovono i personaggi e le loro vicende sono decisamente drammatici. Michiko è cresciuta in un orfanotrofio dove la direttrice vendeva i bambini per mettere su un po' di soldi. Per lei la strada della delinquenza non è stata una scelta, era proprio l'unico mestiere possibile da intraprendere uscita dall'istituto. Hatchin invece è la figlia adottiva di un pastore evangelista che l'ha presa con sé solo per intascare il sussidio statale e risparmiare i soldi della colf. Attorno a loro si muovono criminali da strapazzo, gang di bambini, prostitute, improvvisati guaritori, veggenti da quattro soldi e per quanto l'aura attorno a questi caratteri non sia mai di vittimismo o denuncia, ma sia esagerata e miticizzante, rimane sempre l'amaro in bocca quando li si vede muovere in scena. Senza poi contare lo sfondo in cui si dipana la trama.
Il luogo dove è ambientato "Michiko e Hatchin" è un non precisato paese dell'America Latina, ma dove tutto riconduce a credere di essere in Brasile. Essendo però la serie prima di tutto una cronaca di poveri diavoli, certo non vedremo bellezze in topless, carnevali o favolose spiagge. Spesso e volentieri vedremo le nostre eroine ospiti in squallidi hotel, perse fra i vicoli di sporche favelas, bloccate in qualche villaggio polveroso dell'altopiano. Insomma, non si poteva introdurre simili argomenti e ambientazioni senza un uso sapiente del ritmo di narrazione, che certo non poteva essere quello sincopato di "Cowboy Bebop". Qui tutto è molto più lento e dilatato, e, anche se non mancano i momenti di azione matta e disperata, sono decisamente di più i momenti riflessivi e malinconici, cosa che lo rende molto meno fruibile. Anzi, a dire la verità, è proprio questo l'unico difetto dell'anime, ovvero che certe volte tira troppo la corda alla narrazione e diventa inutilmente lento. Si ha l'impressione che certi episodi siano stati messi solo come puro riempitivo e che alcuni di quegli stessi filler abbiano ben poco da offrire allo spettatore in termini di sviluppo della trama o d'intrattenimento in sé.
Forse però la serie televisiva lunga non era la giusta collocazione per un anime così maturo. Vedendolo pensavo spesso che con un numero minore di episodi a disposizione quest'anime sarebbe diventato praticamente perfetto, o meglio ancora, un film cinematografico avrebbe permesso alla trama di spiccare definitivamente il volo.
Per il resto "Michiko e Hatchin" è un signor anime che nonostante la facciata ironica e scanzonata mi ha teneramente commossa. Il rapporto filiale che si viene a creare tra le due protagoniste è una delle cose meglio scritte e autentiche che io abbia mai visto. Non ci sono melensaggini o facili ricorsi a tutti gli stereotipi narrativi del caso. Hatchin non è affatto la solita orfanella dei meisaku in odor di santità: è indisponente, dispettosa, testarda oltre ogni limite del buon senso. Michiko poi è il pessimo elemento per eccellenza. Veste in maniera a dir poco discinta, fuma e beve senza ritegno davanti alla bambina, è sboccata, non esita ad alzare le mani sulla sua piccola compagna di viaggio per tenerla a bada, se deve ottenere qualcosa sa bene che fa sempre prima a rubarla. Tuttavia Hatchin ha trovato in Michiko la madre che non ha mai avuto e Michiko ha trovato in Hatchin l'anima che in tanti anni di crimini non le era mai servita a nulla, finché il fortissimo rapporto che tra le due nascerà troverà il miglior compimento possibile nel meraviglioso e toccante finale.
Dal punto di vita tecnico "Michiko e Hatchin" non ha nulla da farsi rimproverare: sfondi reali maniacalmente trasposti su disegno, animazioni perfette, un character design particolarissimo e al tempo stesso evocativo e accattivante, nonché estremamente "cool". Menzione speciale va alle musiche, molto sofisticate e particolari.
Assolutamente da riscoprire.
In realtà sono fermamente convinto che un sito debba avere entrambe le anime: si è accennato alle recensioni di Limbes e non vorrei essere frainteso, non è il mio un attacco al suo modo di recensire, che è legittimo, ritengo abbia uno stile unico e sono sicuro sia amato da una fetta di utenza. Limbes IMHO recensisce molto bene.
Quello che tuttavia volevo sottolineare e che c'è anche chi ama uno stile molto diverso, che trovo ugualmente legittimo e di pari dignità. Ogni utente cerca il tipo di recensione più vicino al suo modo di vivere il suo hobby.
Le opinioni assolute non riesco ad amarle
Questa volta dovrò defilarmi davvero, visto che sto partendo per una trasferta di lavoro che sarà impegnativa.
Ciao
Tacchan
:Q______
Lo devo provare!
Sto prendendo in seria considerazione l'idea di istituire una Ais Tax apposta per micheles: se avessi un euro per tutte le volte che mi cita a quest'ora sarei ricca
E' molto semplice, Franz, la seconda. Si cambia, si matura. La stasi è morte.
Permettimi di dissentire Limbes, il linguaggio, l'animazione, qualsiasi forma di comunicazione nasce per trasmettere un'informazione o un'emozione.
Horus, già dall'inizio poni il distinguo tra informazione ed emozione. Ora vorrei capire se la tua scissione è retorica o sostanziale. Perché più avanti, nel tuo post, le due cose sembrano collimare quando parli di autori e delle loro intenzioni nel generare effetti. Ecco, in quel punto in realtà, invece di ricongiungere i due termini e relativi significati, andrebbe introdotta un'altra discriminate, ovvero cosa vuole l'autore.
Tu dài per assodato che, nel processo comunicativo, l'intenzione di partenza sia la trasmissione di qualcosa a qualcuno, e posso darti ragione in linea di massima. Tuttavia, se scendiamo nel campo di un linguaggio nel particolare, e se tale linguaggio è l'arte - anche il cinema e, di conseguenza, l'animazione sono arte (la settima, per la precisione) -, molte regole possono saltare dall'interno.
Tieni ben presente che la creazione artistica non è né comunicazione pubblicitaria né orazione conviviale. Se non si ha ben chiaro quest'assunto, si finisce in fallo, assimilando manifestazioni che, differendo nelle loro finalità ultime, differiscono anche a monte nella produzione di senso.
Se infatti lo scopo di un pubblicitario è, in primis, l'instaurarsi di una relazione tra il messaggio e il ricevente - di che tipo sia la relazione è argomento troppo vasto e comunque fuori tema rispetto alla nostra discussione -, quello di un artista può anche essere opposto.
Mediare un rapporto tra le proprie idee e una platea non è un suo imperativo categorico. Egli può formalizzare un'informazione volutamente ambigua; può disinteressarsi in toto della comunicazione concentrandosi soltanto sullo strumento di comunicazione - vedi Michael Mann -; e può anche generare un'informazione in parte o del tutto accessibile soltanto a lui stesso, ignorando le esigenze di qualunque ipotetico destinatario. Citando Oscar Wilde: "Il vero artista non si preoccupa minimamente del pubblico. Per lui il pubblico non esiste".
Se non si tiene bene a mente tale concetto, si potrebbe finire per credere, come Tacchan, che Tenshi no Tamago sia un bidone solo perché non si riesce a decifrarne il significato e/o perché non se ne riceve sazio epidermico, stimolo emozionale, empatia eccetera.
Com'è ovvio, Tenshi no Tamago non è stato concepito pensando a Tacchan, ai suoi conoscenti o a un pubblico giapponese X. E' un film fatto da Oshii per se stesso e per tutti coloro i quali sono disposti a rinunciare al proprio ego di spettatori in funzione di un flusso d'immagini irriducibile nella sua polisemia.
In verità l'arte è un linguaggio piuttosto anomalo perché, a differenza di altri campi comunicativi in cui il mittente dovrebbe sforzarsi di essere comprensibile, lì è il fruitore del prodotto artistico a doversi sforzare, a seconda dei casi, per comprenderlo. D'altronde le creazioni di un artista non sono equiparabili a dei manuali d'istruzioni, che fanno dell'immediata intelligibilità la loro raison d'être.
Riformulando più correttamente la tua domanda finale, chi decide dove e come muovere le possibilità di un medium se non l'artista?
Leggo che è nata una discussione sul rapporto tra l'intenzione dell'autore e l'emozione trasferita allo spettatore. Ho letto con grande attenzione l'ultimo commento di Lymbes e devo dire che probabilmente ha ragione, ma solo in parte. Condivido che l'idea di arte rivolta allo spettatore sia un'attività commerciale e non arte vera e propria. Vanno infatti aggiunti, a mio avviso alcuni paletti.
E' senz'altro sbagliato dire che un opera d'arte è una schifezza solo perchè non la si capisce, anche se si può correttamente darne un opinione negativa (in fondo il fatto che non la si capisca non vuol dire che l'opera sia bella o brutta ma solo che non la si è capita; e questo se è ininfluente sul suo valore universale lo è sul suo valore soggettivo). Inoltre direi che l'intenzione dell'autore diventa un problema se non fornisce elementi per chi voglia correttamente decifrarla; non è necessario che tutti ci riescano ma qualcuno deve essere necessariamente in grado di interpretarlo sennò si è in presenza di u semplice scarabocchio che magari ha valore solo per l'autore (traducendo: allora siam capaci tutti a creare opere d'arte). Quindi la capacità d'interpretazione è importante anche se non assoluta; lo stesso Oscar Wilde ci ha fornito tantissimi elementi per interpretare il suo pensiero.
In più c'è il caso: opere create con una certa intenzione che si trasformano in tutt'altro. Non è mica detto che il risultato, seppur diverso dalle intenzioni dell'autore, sia scadente. Non volendo avrebbe potuto creare qualcosa di interpretabile in mille modi diversi che finisca per far svolgere allo spettatore un ruolo creativo, atto ad associare significati all'opera che nemmeno l'autore, pur rappresentandoli, aveva colto. In questo caso l'arte si dissocia dall'artista; ma resta sempre arte.
In linea con ciò, anche l'arte è nata come forma di comunicazione e sotto tale aspetto essa è prosperata. La vogliamo privare di tale finalità, bene? Ma una macchina che non aspira a muoversi cos'è? Un condensato di tecnica fine a se stesso. Dici che gli autori non tengono alla comunicazione? Eppure per lavoro mi sono casualmente confrontato con un regista la cui prima preoccupazione non è stata chiedermi se la regia fosse impeccabile (ahimè ne capisco ben poco), ma quella di farmi un interrogatorio sull'emozioni trasmesse dalle scene, sulla capacità di esse di farmi immedesimare nei personaggi, nel provare odio o amore.
In questo contesto, la citazione di Oscar Wilde è sostanzialmente irrilevante, poiché è una frase avulsa dal contesto in cui è stata proferita che, attenendoci agli ordinari canoni dell'ermeneutica può riferirsi a concetti ben distanti da quelli che tu sostieni, tanto che, a mio avviso, l'interpretazione più realistica risiede nella pacifica teoria secondo cui l'autore deve narrare la sua storia e non quella che presumibilmente vorrebbero sentire gli spettatori.
L'arte sarà un linguaggio peculiare, ma, come ti ripeto (e di ciò non hai fornito prova contraria), essa è necessariamente subordinata al suo fine, perché apparitene ad un genus e, come dovresti ben sapere, se la specie può presentare date caratteristiche che la distinguono dalle altre, essa non può non presentare i caratteri essenziali dell'insieme di appartenenza. Tanto è vero ciò, che tu stesso nel definire Tenshi no Tamago altro non hai fatto che trasporre in linguaggio elevato le tue emozioni. Quel filtro soggettivo che tanto ripudi lo puoi esprimere in termini semplice o ricercati, ma sempre tale rimane, e ciò che eleva ai tuoi occhi Tenshi no Tamago non è certo la mera tecnica in se, ma le emozioni che dalla sua visione hai provato (" un flusso d'immagini irriducibile nella sua polisemia" è ad esempio una frase di natura fortemente soggettiva, che mal si accosta ai meri canoni oggettivi che tu invochi).
In altre parole, l'arte come forma di comunicazione ha lo scopo di trasmettere emozioni o indurre reazioni e tu stesso di fatto, sebbene in forma aulica, sulla base di esse giudichi.
Non è una frase estrapolata da un testo più ampio, ma un aforisma a sé stante, non ha alcun contesto.
Se poi ne vogliamo fare un'ermeneutica realistica, dobbiamo tenere in considerazione il disprezzo di Wilde, più volte manifestato, per il gusto comune in generale, e per quello inglese del suo tempo in particolare. Se ne deducono, con buona fedeltà alle idee dello stesso Wilde, delle conclusioni ben diverse da quella che tu hai prospettato. O forse, traendo le tue considerazioni, dimentichi che Wilde era il massimo vate dell'estetismo e dell'edonismo, con tutto ciò che ne consegue?
Ciò per dire che non puoi ridurre il pensiero o l'operato di un artista secondo tuo comodo o in funzione delle tue prospettive. Né sviare su strade collaterali il punto topico della questione.
Difatti non ho affermato che l'arte, quale medium linguistico, non abbia un fine, ma che tale fine, e i modi in cui perseguirlo, siano discrezione dell'artista, e il tuo aneddoto conferma e non nega tale affermazioni. Ne consegue che, se l'arte sia uno strumento e non un fine, è sempre l'artista a deciderlo. Ti ricordo infatti che, a differenza degli esempi di comunicazione da te citati, l'arte non ha alcuno scopo pratico, e proprio alla luce di tale anomalia si svincola, volenti o nolenti, dalla subordinazione ai caratteri del genus da te posta quale condicio sine qua non. Parlavo appunto di anomalia, o se vuoi di aberrazione, e non di peculiarità specifica rispetto ad altre forme linguistiche.
"In verità l'arte è un linguaggio piuttosto anomalo perché, a differenza di altri campi comunicativi in cui il mittente dovrebbe sforzarsi di essere comprensibile, lì è il fruitore del prodotto artistico a doversi sforzare, a seconda dei casi, per comprenderlo."
Verissimo. Spesso nell'arte non esiste un'unica interpretazione. A volte l'artista stesso si limita a dare la sua interpretazione, non rivendicandola però come "ufficiale" , ma preferendo che ognuno trovi la sua.
Tuttavia una comunicazione avviene sempre, tra l'artista e il fruitore. E come ha detto npepataecozz, dal momento che l'artista fa della sua arte il suo lavoro, tale arte è rivolta non più esclusivamente a se stesso, ma diventa patrimonio del genere umano. Questo non vuol dire che la sua arte debba diventare scontata o banale.
L'arte è piena di opere dalle svariate interpretazioni, dal significato apparentemente incomprensibile, di non-sense. Eppure sono universalmente riconosciute opere d'arte. Statisticamente sarebbe impossibile visto che per me autore quell'opera ha un senso preciso, e di sicuro non è lo stesso per un altro.
Ci dev'essere quindi qualcosa che riesce a trasmettere diverse sensazioni in diverse persone, tali da provocare emozioni simili.
L'artista ha la capacità di comunicare con il pubblico, e di trasmettere delle sensazioni, che non sono necessariamente le stesse. Anzi direi che questo è quasi impossibile.
Il tutto viene poi ovviamente filtrato dalla sensibilità d'animo della persona o dai suoi gusti personali: a te quest'opera piace, a me no. A te trasmette qualcosa, a me no. Impossibile che qualcosa piaccia indiscriminatamente a tutti.
Ma solo il fatto che un'opera d'arte possa piacere a 10 persone, aldilà della tecnica o dei colori, è qualcosa di strabiliante. Perché è molto più facile che a tutte e 10 le persone piaccia un Caravaggio piuttosto che un Kandinskij, dove i parametri di valutazione non sono certo il beldisegno o la rappresentazione realistica.
Bella la rece di Hallmay. Le altre due un (bel) po' meno.
Complimenti comunque a tutti.
Può essere, ma tu ometti di considerare che nulla di quello che hai detto implica che Wilde non volesse trasmettere alcunché con le sue opere. Da cosa inferisci, infatti, tale dato? Dal fatto che Wilde odiava i gusti dei suoi contemporanei? L'unica conclusione che puoi legittimamente trarre da ciò, semmai, è che Wilde avesse l'intento di criticare i gusti che detestava, ma non certo che non volesse indurre reazioni nel suo pubblico. Era un amante dell'estetismo? Tu stesso cerchi di sublimare la tua espressione con un linguaggio ricercato a fini estetici (e lo faccio anche io per ovvi motivi), nondimeno mi guardo bene dal dire che con esso tu non voglia esprimere alcunché, né suppongo sia disposto a farlo tu.
Ti ricordo infatti che, a differenza degli esempi di comunicazione da te citati, l'arte non ha alcuno scopo pratico
Non ha alcuno scopo pratico? L'arte non è forse nata prima del linguaggio scritto per comunicare? Il linguaggio scritto non è forse una semplificazione del gesto artistico per consentire una comunicazione più immediata? Molti dei linguaggi ancora in uso non presentano forse simboli che rappresentano null'altro che la mera stilizzazione di immagini vere?
Possiamo dar per buono quello che affermi, nondimeno la tua frase è la negazione senza se e senza ma della genesi dell'arte e della sua evoluzione.
Parimenti, dici che che l'arte si svincola dalle caratteristiche del suo genus di appartenenza, ma non è forse ciò una contraddizione in termini? Come può un elemento parte di un dato insieme collocarsi al di fuori di esso? Converrai che quanto affermi si colloca al di fuori di ogni logica, e non certo di una mera condizione sine qua non da me stabilita.
E d'altronde, a conclusione di quanto detto, tu stesso cadi in aperta contraddizione quando affermi che " è il fruitore del prodotto artistico a doversi sforzare, a seconda dei casi, per comprenderlo", e ciò poiché l'attività ermeneutica è per definizione soggettiva, in quanto necessariamente ancorata al punto di vista del soggetto.
Se da una parte quindi rinneghi quel che tu chiami "il filtro soggettivo", dall'altro lo postuli contemporaneamente come necessario al fine di comprendere l'opera nel suo complesso, creando nel tuo ragionamento un contrasto insanabile che ne determina l'insostenibilità.
Infine, quel mio esempio da cui tu erroneamente inferisci un sostegno alla tua tesi, è semmai la dimostrazione concreta di come un'artista sia naturalmente teso al raggiungimento di un fino coincidente con la capacità di suscitare emozioni in chi ammira la propria opera, né potrebbe esser diversamente, poiché in sua assenza egli potrebbe mantener per se il proprio lavoro, rimirandolo e nutrendo il proprio ego nella sua contemplazione. Eppure neanche Wilde è arrivato a fare ciò.
Per quanto mi riguarda ho tratto molto da quasi tutti gli interventi e a questo punto sono abbastanza vicino alla posizione radicale di Limbes, che da studioso e critico d'arte dispone dei mezzi per discernere e interpretare un'opera in modo analitico e oggettivo, e non posso che prenderne atto in fase di approfondimento nella materia.
Credo che l'aforisma di Oscar Wilde riassuma bene la sua linea di pensiero. Aggiungerei che lo stesso Wilde si ispirava al pensiero del romanziere francese Téophile Gautier e alla sua espressione "art pour l'art" secondo cui lo scopo primario di un'opera è la bellezza, il valore estetico, in pratica l'arte fine a se stessa.
Ma nel corso della storia dell'arte non si può negare la validità di altre correnti che si distaccano da questa linea estrema, che può essere considerata sterile o autoreferenziale, per affermare un'arte "impegnata" piuttosto che un'arte popolare, leggera, di evasione etc...
E' illuminante anche la distinzione di micheles tra recensione e saggio critico.
Si è resa troppo astratta e difficilmente avrà qualche risvolto pratico di qualche utilità.
Il vero artista sicuramente non pensa all'utenza di Animeclick.it quando crea la propria opera, io mentre recensisco penso proprio ed esclusivamente ad essa. L'introduzone delle recensioni utente, molto tempo fa, la feci proprio per aiutare l'utente a scegliere e pertanto, tutti i miei sforzi, si concentrano in quello.
Infine la linea proposta da Limbes è applicabile solo ad una determinata tipologia di prodotti: molti titoli rimarrebbero senza recensioni, in quanto voglio vederti recensire un ecchi, un hentai o comunque un prodotto progettato seguendo meramente finalità commerciali. Quale sia i prodotto sul sito c'è una scheda, l'utente merita di avere delle recensioni per poterlo valutare.
Lo spirito con cui ho fondato e portato avanti il sito è sempre stato quello di offrire uno strumento utile per l'appassionato medio nel quale, fortunatamente, mi riconosco.
Ciao
Tacchan
Scrivo troppe e-mail, ormai non riesco a fare altrimenti
Ciao
Tacchan
Edit: ehm, come dire, a quanto pare ho commesso un madornale errore, dopo un anno ho scoperto che Limbes, oltre ad essere donna, ha studiato all'Accademia delle Belle Arti, insomma c'ero andato vicino io pensavo fosse un'evoluzione di un informatico
Comunque ha ragione Tacchan, siamo andati troppo oltre . L'impostazione attuale delle recensioni, può essere condivisibile o meno, ma a me sinceramente piace, e non le scambierei per saggi critici, perché, senza tanti giri di parole, dopo due righe non avrei più voglia di leggere
Riassumendo, questo anime per quel che riguarda è stata una delusione: l'ho trovato forzatamente drammatico, poco spontaneo, troppo pilotato e paradossalmente, nel suo realismo, proprio per questi motivi irrealistico.
La recensione di Tacchan mi ha fatto riflettere, soprattutto nel finale.
Sebbene la motivazione di un giudizio così basso riassunta nella conclusione sia sensata e magari anche condivisibile, io sospetto che quello sia solo una causa un problema più a monte della forzatura emozionale.
Facendo un passo indietro, su cosa si basano i paragoni con Anohana e Una Tomba per le Lucciole? Sulla forzatura emozionale che tali opere susciterebbero nello spettatore? E su cosa basiamo un eventuale giudizio critico? Forse sulla 'genuinità' che quella risposta emozionale non sia pilotata da facili artifici melodrammatici, ma scaturiscano dalla drammaticità dell'opera stessa. Ora, fra i tre citati, qual'è lo spettacolo meno genuino e più pilotato? Tokyo Magnitude? No. E' Anohana, ma nel recensore persino quello ha avuto più effatto di Tokyo Magnitude. Gli eventi di Tokyo Magnitude sono certamente drammatici, ma sono fatti apposta così per suscitare empatia, oppure sono parte di un format molto comune del genere catastrofico di cui l'anime fa parte? L'anime era stato fatto con la premessa di un estremo realismo, che un evento cardine nell'anime, davvero troppo forzato ha vanificato. In questo caso, Tokyo Magnitude, non ha suscitato empatia perché già prima di presentare gli eventi drammatici, aveva distrutto il rapporto di sospensione di credulità che ogni spettacolo deve assicurare allo spettatore per non sembrare falso. Quindi, no non si tratta di scarso coinvolgimento o forzatura emotiva, l'anime è davvero drammatico ed emotivamente coinvolgente, e non costruito ad arte per esserlo, ma un solo particolare mal trattato nella trama ha distrutto tutto!
Infatti, prendendo per buone le tue affermazioni, le manifestazioni artistiche sarebbero dovute decadere nel momento in cui prese piede la scrittura - in qualunque forma la vogliamo intendere -, essendo, secondo la tua opinione, la prima una forma primordiale e poco immediata della seconda. Il fatto che ciò non si sia verificato deve farti riflettere sulla radicale differenza di fine tra i due modi in cui utilizzare uno stesso medium, laddove la figurazione artistica, innanzitutto, soddisfa esigenze estetiche - alle quali possono come non possono associarsi altre istanze -, mentre quella illustrativa persegue finalità di uso pratico. E spero di non doverti spiegare la differenza tra scopo estetico e scopo pratico, ovvero tra la Salomè di Moreau e il manuale d'istruzioni di un i-phone.
A poco servono i cavilli dialettici - che non mi soffermo a smontare per non diluire ulteriormente il brodo - per ribaltare a proprio appannaggio discussioni in cui si commettono errori di fondo esplicitati da frasi quali: Non ha alcuno scopo pratico? L'arte non è forse nata prima del linguaggio scritto per comunicare?
L'arte rupestre è la prima attestazione figurativa lasciata dall'uomo. Essendo inerente a un periodo preistorico, non vi è possibilità di accertare, attraverso documenti, per quale motivo quelle immagini siano state dipinte nelle pareti delle caverne. Tuttavia secondo le ipotesi più accreditate quelle figure si limitavano a replicare il dato reale - cavalli, bisonti eccetera - per puro spirito mimetico-creativo, senza speculazioni (meta)linguistiche che, considerando il contesto (proto)culturale paleolitico, risultano mere illazioni.
In proposito, sono stati effettuati degli studi sul parallelismo tra l'evoluzione dell'arte figurativa e l'evoluzione dell'abilità figurativa nelle diverse fasi di crescita dei bambini. Ed è sorprendente notare come, in entrambi i casi, la prima fase sia dettata dallo sviluppo della padronanza del gesto tecnico, la seconda si muova verso la mimesi delle forme osservate nell'ambiente e in seguito, strada facendo, si giunga alla strutturazione di uno spazio rappresentativo coerente rispetto agli schemi percettivi, in continuo divenire, del soggetto.
Alla luce di ciò, non è difficile comprendere come l'arte rupestre rappresenti, prima di tutto, un allenamento manuale e, secondariamente, un atto di puro stupore creativo come può essere quello di un bambino alle prese con un foglio e delle matite colorate.
Chiudo qui il discorso e chiedo venia per essermi preso un ultimo diritto di replica. Ben inteso che non era e non è mia intenzione indicare la "via del recensore" a nessuno. Si stava speculando per puro gusto dialettico su altro rispetto alle recensioni, pensavo fosse chiaro.
La bambina non è una bambina qualsiasi, ma una viziata e insopportabile. Il fratellino, anche lui, ha una maturità incredibile per l'età. Già dopo 10 minuti ho capito quale sarebbe stato il percorso emotivo della sorella.
I disastri sfiorano per un pelo i due ragazzini, le persona hanno comunque caratterizazioni di convenienza.
Il tutto mi è sempre sembrato molto forzato e prevedibile.
Ahohana è un prodotto diverso, non ha nulla da spartire con un'opera come Tokyo Magnitude. Insomma, parla di un fantasma, le premesse sono altre e quindi non posso lamentarmi certo del fatto che risulti non credibile. Ed è indubbiamente anche pieno di forzature, ma l'ho apprezzato per altri motivi. Ma la recensione l'ho scritta anche per Anohana, sulla mia scheda se volete
Ciao,
Tacchan
Ottima recensione, dunque, anche perché veramente molto ben argomentata! Complimenti!
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