Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Nuova finestra sul genere sentimentale con Aoi Hana - Sweet Blue Flowers, il manga Le ali di Vendemiaire e Clannad - After Story.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


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Nel panorama animato odierno è ormai sempre più raro individuare opere che dimostrino quanto delicate possano essere le emozioni senza ricorrere a forzature da soap opera, senza cadere nello scontato, senza omologarsi a un genere fisso.
Aoi Hana è senza dubbio una gemma di tale rarità. Non è soltanto uno 'shoujo ai' e niente più, ma innanzitutto il racconto di un vero e indissolubile legame d'amicizia, oltre che una rappresentazione di giovani donne dalla psicologia più che mai autentica, o una visione, forse fin troppo utopica, dell'amore, che si specchia nella vita di personaggi più che mai reali. Ed è grazie alla splendida caratterizzazione di questi ultimi che diviene poi anche più semplice esporre certi messaggi.

Si tratta infatti di figure non certo originali (vedasi le due protagoniste, l'una vivace e diretta, l'altra timida e molto riflessiva), ma dotate di qualcosa che manca spesso alla stragrande maggioranza delle proprie 'colleghe': la spontaneità, racchiusa in ogni sorriso, pianto o arrabbiatura, in ogni piccolo atteggiamento, fattore che rende sincere, mai una volta 'costruite', ognuna di queste splendide figure adolescenziali.
Ma non sono da meno i personaggi comprimari, ognuno dei quali, chi più, chi meno, contribuise a creare un'atmosfera familiare, piena di vita, pregna della sensazione di quotidianità che è possibile provare, certo, purché ci si dimentichi di quella facciata della vita che preserva ben altri grattacapi, ma che in Aoi Hana non avrebbero poi bisogno di esistere. Nessun dramma quindi, nessun intento strappalacrime, ma un chiaro messaggio di emancipazione, una storia che emoziona con leggerezza, senza trucchi.

Beh, qualche piccolo ulteriore 'accorgimento' nella riuscita di questa serie ci sarebbe, ed è costituito da una veste grafica semplicemente meravigliosa, con i suoi fondali tanto ricchi di acquerello quanto di minuziosi particolari, tinteggiati da una tavolozza che è divinamente utilizzata - ma d'altronde lo studio J.C. Staff ci aveva già deliziato con qualcosa del genere (vedi Honey and Clover, Nodame Cantabile, Loveless, Nabari) -, con il suo character design semplice e fresco, ma che non s'abbandona totalmente alla modernità (una bella prova di coraggio, nel 2009), e infine con il moderato e impeccabile innesto di computer grafica, che impreziosisce gli scenari laddove necessariamente lo richiedano. La colonna sonora si presta perfettamente ai toni leggeri delicati dell'opera, e un plauso particolare va alle sigle, che ne riprendono la dolcezza.

In definitiva, l'anime di Kenichi Kasai riesce a contraddistinguersi non tanto per i contenuti relativamente delicati, ma per come questi vengano esposti, ovvero equilibrando in essi immaginazione e immediatezza, senza poi ignorare la capacità di averlo fatto in soli undici episodi: senz'altro una piccola rosa azzurra da non lasciare appassire, come quei fiori accennati nel titolo, che soltanto negli ultimi flashback di questa esperienza riveleranno il proprio significato.



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Iniziai a leggere "Le ali di Vendemiaire" sospinto dal fascino e dall'interesse che in me avevano destato le altre due opere, ben più note, di Mohiro Kitoh (Narutaru e Bokurano) autore dall'inconfondibile stile grafico piuttosto asettico e algido, volto in funzione di una sceneggiatura affilata e crudele, che lascia la riflessione ad appannaggio del lettore, senza svolgerla a suo beneficio, aprendo così la possibilità ad una rielaborazione del tutto personale dei contenuti, i quali si connotano spesso per un cinismo e nichilismo decisamente marcati.

Questi racconti brevi superano ogni mia previsione ed aspettativa, sprofondando in una spirale di dolce esistenzialismo e malinconia, rivelandosi una sublime metafora che sfiora e lambisce con effimera eleganza molteplici aspetti e dubbi ontologici propri dell'uomo e della sua condizione nel mondo, il rapporto tra genitore e figlio, la necessità di indipendenza, il rapporto con i suoi limiti; ma col cercare di farne un elenco mi sembra quasi di fare uno sgarbo a quello che quest'opera ha significato per me, nella presunzione di poter costringere in forma e parola tale intimo flusso di sensazioni e riflessioni. Nonostante ciò cercherò di esprimere le mie considerazioni nel modo più chiaro possibile. Esordiamo dunque con una citazione che penso esplichi in modo efficace un buon punto di partenza per tentare di comprendere "Vendemiaire":

"Le ali esistono in nome della rivolta e della libertà, sono una sfida a Dio una sorta di liberazione dall'incanto che lega alla terra"

È appunto l'ambizione al volo, uno dei temi di fondo che accomuna questi brevi racconti. Essa viene intesa come tensione verso la libertà, verso qualcosa di elevato, di effimero, nata dal desiderio di svincolarsi dalle catene che ci imprigionano e limitano in una spietata contingenza. Questo topos si scorge anche nelle altre riflessioni e ne da una importante chiave interpretativa.
Molteplici sono i limiti che imprigionano l'uomo, il quale è portato naturalmente a crescere e a tentare, spesso invano, di spezzarli, di affermare la propria individualità in cerca di una raison d'etre per giustificare la propria esistenza. Le ali, dunque, parrebbero simboleggiare un effimera speranza da inseguire, il sogno di una "rivoluzione" contro quei vincoli imposti all'essere umano da Dio, dai genitori, dal mondo e da se stesso.

Le bambole alate sono una metafora; marionette il cui creatore (che può prendere il nome di dio ma anche di uomo) ne determina le possibilità; nonostante siano dotate di libero arbitrio e di una volontà propria, non sono libere. In nessun modo possono svincolarsi da tale atavica stretta, se non con l'unico atto che permette loro di affermare la propria volontà in assoluta indipendenza, ovvero scegliere per se stesse di porre fine alla propria esistenza, il suicidio inteso come ultimo ed estremo atto di affermazione assoluta della volontà di liberazione. Esso viene inteso, tuttavia, anche in un aspetto leggermente diverso: viene infatti messo in relazione col "sacrificio di sé", elevandolo a scelta con un fine quasi più nobile, che conferisce un significato, uno scopo, all'esistenza. Mediante il sacrificio della propria vita, facendone un dono in funzione della salvezza altrui, anche una marionetta inutile, creata per mero capriccio, può dare uno scopo alla sua esistenza, far sì che essa non sia stata vana. Rinunciare alla volontà di vivere per vivere, realizzare se stessi nella morte, forse l'unica scelta del tutto libera.
(riferimento al racconto: "la cremazione di Vendemiaire")

Ma torniamo un attimo indietro, una metafora, dicevamo, una metafora appunto, che si giostra su due diversi piani: l'uno metafisico e l'altro psicologico, rispettivamente il rapporto con l'assoluto e il rapporto con il genitore.
Il primo lambisce con delicatezza il concetto di libertà e libero arbitrio, di ambizione e di desiderio, la realtà si rivela immensamente spietata e crudele, sembrerebbe precludere ogni speranza in questo mondo, ed in effetti è così, ma vi sarà sempre nella volontà la potenzialità della scelta. L'unico modo per cercare di "spiccare il volo" è la presa di coscienza di tali catene e accettarle o cercare di spezzarle, anche se ciò si palesa come una mera illusione, poiché in qualcosa si deve pur credere. Ad esempio attraverso l'ingegno, proiezione della nostra volontà, dei nostri desideri ed ambizioni nella realtà; strumento che permette di librarci metaforicamente (e non) nel cielo, seppur artificialmente, mediante mezzi a noi estranei. Anche il crescere e maturare costituiscono un pericoloso allontanarsi dalla "protezione divina"(o materna se vogliamo, ma questo si vedrà più avanti) uno sfidare la sorte: "quando voliamo siamo soli", e dobbiamo bastare a noi stessi, palese metafora della crescita e del diventare adulti, dell'allontanarsi da quel guscio che è il nostro mondo. Quella guadagnata non sarà forse vera libertà, d'altronde davvero potrebbe esistere tale chimera? Ma sarà pur sempre il frutto di una nostra scelta consapevole.

Il desiderio, e soprattutto la necessità, di una presa di coscienza si percepiscono non solo nella loro dimensione astratta e metafisica ma, altresì, nel rapporto che intercorre tra genitore e figlio. I genitori infatti tendono ad imporre la propria volontà sulla prole, per far sì che essa diventi strumento atto a soddisfare la loro felicità, desideri, aspettative. Cercano dunque di plasmare i figli come vogliono e perciò prevaricano inconsciamente sulla volontà degli stessi, che rimangono attaccati alla figura del padre e della madre e non riescono a sfuggirvi o, al contrario, non vedono l'ora di poter fuggire a tali pressioni. La necessità dell'indipendenza, in ogni caso, è inevitabile e per raggiungerla il figlio non può che crescere, staccandosi dai genitori, "uccidendo" simbolicamente la figura materna per penetrare il mondo adulto, fuggendo dalla forma che il genitore vuole imporgli, fuggendo dalla protezione confortevole del grembo materno. Questa ribellione avviene in una dimensione interiore, grazie ad una maturazione dovuta allo scontrarsi con la dura realtà, al disincanto.

Siamo dunque, noi, come marionette? Giocattoli di un dio tiranno? La nostra libertà, le nostre certezze di cui andiamo fieri e che ci confortano, sono davvero tali? O si rivelano solo mere illusioni, fragili ed effimere tanto che basta un alito di vento per farle crollare miseramente in pezzi? Risulta lapalissiano come emerga da queste considerazioni una visione cinica e drammatica della vita, nella quale sono presenti sofferenze e dolore, spesse catene che ci costringono in una direzione spesso distante da quella che noi desideriamo. Non siamo liberi, le nostre ali, come quelle di Vendemiaire, non possono volare.

Arduo è immaginare a quale target possa essere destinato un tale titolo. Personalmente mi sento di consigliarlo solo a chi ha saputo apprezzare Narutaru e Bokurano, il loro cinismo e violenza psicologica. Non posso assicurarvi che la lettura di questo fumetto vi trasmetta lo stesso che ha trasmesso a me, ma non penso vi possa lasciare indifferenti. Data la natura del racconto breve, non è certo agevole condensare simili riflessioni in si scarso spazio, per questo la sceneggiatura è coadiuvata da simbolismi di vario genere, che permettono di veicolare le informazioni con maggiore libertà ma minore immediatezza. Voto: 9



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Fresco della visione di "Clannad", e consapevole che la maggior parte delle volte i sequel non sono all'altezza degli originali, mi domandavo preoccupato cosa avrebbe potuto offrirmi ancora questo "After Story", senza che mi fossero guastate le piacevoli impressioni della prima serie.
Beh, dopo i primi episodi, eccezion fatta per una veste grafica migliorata - cosa di per sé già notevole -, la risposta sarebbe stata: "Niente".
Lo schema narrativo pressoché identico a quello di "Clannad", che si sviluppa su archi narrativi incentrati su specifici personaggi (in questo caso i problemi comportamentali di Youhei, il passato misterioso di Misae e la guerra fra bande cittadine), non aggiunge molto a quanto già visto: un piacevole diversivo in cui si alternano, come al solito, scenette divertenti e momenti di pathos, il tutto amalgamato da un onnipresente elemento magico.

Dopo questo convenzionale avvio giunge però improvviso, intorno alla nona puntata, un inaspettato cambio di rotta che, di primo acchito, lascia alquanto allibiti: abbandonata bruscamente la leggerezza della commedia adolescenziale, la storia inizia a prendere le fattezze di un romanzo di formazione, molto più realistico e molto meno spensierato.
I ritmi blandi degli anni del liceo lasciano spazio al susseguirsi serrato degli avvenimenti che segnano le tappe fondamentali della vita di un uomo, in cui prendono corpo le decisioni più importanti, legate ad affetti personali, famiglia e lavoro, in un crescendo di emozioni e colpi di scena che si concludono magistralmente con la solennità di una tragedia classica.
Raramente mi è capitato di sentirmi così partecipe della gioia e della sofferenza del protagonista di un anime, ma vi assicuro che certi momenti, enfatizzati da un accompagnamento musicale indovinatissimo e da una regia senza sbavature, sono così struggenti da non riuscire a trattenere le lacrime.
Impossibile non farsi trasportare dalla descrizione senza fronzoli dell'intimità tra Nagisa e Tomoya nella condivisione di un progetto comune, dal tratteggio delicato dell'infanzia di Ushio, dalla generosità di Sanae e Akio, dalla disperazione e dalla catarsi di Tomoya.
Sublime, direbbe Kant, un capolavoro di fronte al quale si rimescolano nell'animo ammirazione e soggezione.

Il punto più controverso resta però la questione riguardante il finale, principale pomo della discordia tra estimatori e denigratori della serie. Personalmente, mi trovo dalla parte di chi non l'ha apprezzato appieno: pur dovendo ammettere che non è assolutamente campato in aria, e che ha una sua collocazione logica all'interno dell'intera saga di "Clannad", resto convinto che, se l'"After Story" fosse finito una puntata prima, sarebbe diventato una pietra miliare dell'animazione.
Con gran rammarico, il finale scelto riesce invece a soffocare in gola la girandola di emozioni che fino a quel momento erano state elargite a piene mani, solo per dare una conclusione meno spiazzante - e più commerciabile - all'intera vicenda.

Solo per questo motivo - e me ne dispiace - non posso assegnare il massimo dei voti a "Clannad - After Story", nonostante rimanga una di quelle serie che non smetterò mai di amare, e che mi sento di consigliare calorosamente a tutti.