Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Quest'oggi ci dedichiamo al genere Shonen con i manga di Jojo - Stardust Crusaders e Bakuman e l'anime di Saint Seiya Omega.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


Per saperne di più continuate a leggere.


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(Nota: i dieci volumi a cui si fa riferimento sono quelli della recente riedizione.)

JOSEPH: Sei come il figlio che non avrò mai... Josuke.
JOTARO: Jotaro.
JOSEPH: Johnny.
(da "Jojo's Bizarre Adventure Abridged")

Se pensate che farsi crescere una barba metaforica richieda meno tempo e disciplina di una barba vera vi sbagliate di grosso. Al creativo e, ahimè, altamente dispersivo Hirohiko Araki ci sono volute tre serie di "Jojo" prima di passare da un gruppo di sparuti ma ostinati peletti a qualcosa che potesse cominciare a definirsi tale, e per il lettore è stato forse più difficile assistere al processo che per lui riuscirvi.

Giappone, 1989. Quando il tuo cognome da ragazza è Joestar e tuo figlio è un mezzo delinquente convinto di essere posseduto da uno spirito maligno è ora di togliersi le fette di prosciutto dagli occhi e di guardare in faccia la realtà: la tua famiglia non potrà mai essere come quella del Mulino Bianco. Ma un sogno che si è cullato per anni è difficile da abbandonare, e per questo Holly (o Seiko, come si fa chiamare da quando ha sposato il musicista Sadao Kujo), che ha ereditato la testardaggine di papà Joseph e l'intelligenza a targhe alterne di mamma Suzi, si aggrappa alla speranza che il genitore riesca a far intendere ragione al suo Jotaro, ben deciso a non lasciare la cella in cui è stato rinchiuso a seguito dell'ennesima rissa prima di aver capito cosa gli sta succedendo. Il ragazzo scoprirà che quello che credeva essere uno spirito è in realtà uno Stand, ovvero la manifestazione fisica della sua energia vitale, e che lo stesso Jospeh, già in grado di produrre le Onde Concentriche, ne possiede uno. Il risveglio di entrambi si deve al ritorno del vampiro Dio Brando, da cent'anni nemico dei Joestar e che, essendo riuscito ad impossessarsi del corpo di Jonathan, vale a dire il primo Jojo, può ora vantare un legame con la di lui progenie; legame che rischia di uccidere Holly, che non ha la forza d'animo necessaria per controllare il proprio Stand.
C'è solo un modo per salvarla: uccidere Dio, non solo per il bene dei Joestar ma anche del mondo intero. Prima, però, bisogna trovarlo e soprattutto bisogna sconfiggere i suoi numerosi sgherri. Ad accompagnare Jotaro e il nonno in questo lungo e folle viaggio dal Sol Levante all'Egitto saranno l'indovino Abdul, possessore dello Stand Magician Red, lo studente Kakyoin con il suo Hierophant Green, il francese Polnareff, dotato dello Stand spadaccino Silver Chariot, e in seguito anche il cagnolino Iggy, che controlla The Fool.

Contrapponendo al cambio di rotta, costituito dall'introduzione degli Stand, il meglio delle due serie precedenti, Araki sembra quasi invitare il lettore a fidarsi di lui ancora una volta, fornendogli abbastanza elementi familiari da ridurre al minimo l'iniziale senso di disorientamento. Una premura sensata, dal momento che stiamo parlando di una serie all'epoca pubblicata su "Weekly Shōnen Jump", il cui giovane pubblico è tenuto in estrema considerazione, e per giunta alla fine degli Anni Ottanta, con il vento in procinto di cambiare in maniera significativa per i battle manga. Per quanto tempo ancora i lettori si sarebbero accontentati di una fisicità alla "Hokuto no Ken"? Probabilmente non molto. D'altra parte anche in-universe il concetto di volontarietà dell'azione, espresso attraverso il controllo della respirazione (ricordiamo tutti la "Cura Zeppeli" per il braccio rotto di Jonathan e la maschera di Lisa Lisa, no?), sembrava in qualche modo preannunciare questo prevaricare dello spirito sul corpo. In questo modo vengono a crearsi infiniti scenari per quanto riguarda gli Stand e il modo in cui interagiscono non solo tra loro, ma eventualmente anche con l'ambiente che li circonda.

La sceneggiatura non esiste. O, meglio, esiste in funzione dello Stand nemico del momento, sconfitto il quale ne arriverà subito un altro e così via fino all'atteso scontro con Dio. La varietà delle forze in gioco, tuttavia, scongiura il rischio di annoiare il lettore, la cui pazienza viene ricompensata con dei combattimenti che, pur seguendo dei pattern facilmente individuabili, risultano sempre molto interessanti. L'espediente del viaggio, inoltre, conferisce al tutto una dinamicità che le due serie precedenti non avevano, sebbene già "Battle Tendency" fosse significativamente meno legnoso rispetto al suo predecessore.
Un ulteriore passo in avanti è stato fatto in merito ai fastidiosissimi inforigurgiti e alle telecronache dei vari scontri: ce ne sono ancora, ma siamo comunque ben lontani dai fasti di "Phantom Blood", dove Speedwagon - che in questa terza serie suppongo monologhi fra gli angeli - la faceva da padrone con le sue ovvietà non richieste.
Anche la comicità è diversa: se "Phantom Blood" poteva strappare delle risate involontarie e il giovane Joseph era un pagliaccio per natura, in "Stardust Crusaders" si ride principalmente perché, nonostante l'enorme pressione psicologica a cui (in teoria) sono sottoposti, per i protagonisti è perfettamente normale mettersi a fare i cretini nel bel mezzo di un combattimento, magari uccidendo la spannung con un'opinabile perla di saggezza o producendosi in siparietti a sfondo scatologico. Si respira, in altre parole, un clima forse più da gita scolastica che da missione salvataggio, ma che serie di "Jojo" sarebbe senza tamarrate? Che il lettore si rassegni: non c'è spazio per quasi nient'altro.

Quando si legge un battle shōnen si accetta, più o meno implicitamente, di dover venire incontro all'autore per quanto riguarda lo scavo introspettivo, dal momento che si tratta di un aspetto generalmente trascurato in opere di questo tipo. Ma è giusto che il lettore compia un simile sforzo, mettendosi a scandagliare la psicologia di ogni singolo personaggio come se stesse pelando una cipolla? Per quanto trovi meraviglioso che un'opera mi spinga ad indulgere con piacere in quest'attività, che può essere stancante e ben poco proficua, sono costretta ad ammettere che la risposta è no. Il problema di "Stardust Crusaders" è che, a differenza delle due serie precedenti, non punta abbastanza sull'evoluzione dei protagonisti, che ci vengono presentati già strutturati in modo tale da lasciare ben poco spazio ad un'eventuale loro crescita. Ognuno di essi si fa rubare la scena dagli altri con l'atteggiamento falsamente indulgente di chi pensa di non aver bisogno di ricorrere a simili mezzucci, ed è un bene che fra loro non vi siano esponenti del gentil sesso perché non farebbero altro che recriminare tutto il santo giorno.

In "Phantom Blood" abbiamo visto Jonathan risollevarsi dall'abisso di paura e di vergogna nel quale la convivenza con Dio l'aveva fatto sprofondare, e prepararsi con il cuore gonfio di tristezza a svolgere l'ingrato compito di liberare il mondo dalla sua minaccia. In "Battle Tendency", invece, abbiamo visto Joseph fare tesoro degli insegnamenti tanto degli amici quanto dei nemici. In "Stardust Crusaders" non accade nulla di tutto ciò: Jotaro è esattamente così come ci appare, vale a dire il classico eroe imperscrutabile con delle profondità che, per quanto intuibili, non ha alcuna intenzione di condividere con altri. Oh, e naturalmente esercita un controllo immediato e assoluto sul suo Stand, il potentissimo, accuratissimo e velocissimo Star Platinum. Constatare tutto questo può risultare oltremodo frustrante per chi sperava di vederlo maturare sotto ai propri occhi come i suoi predecessori, alla cui crescita Araki era riuscito a dare - compatibilmente con i suoi limiti di narratore - un risalto più che dignitoso e soprattutto per nulla scontato per un battle shōnen.
Ma Jotaro non è l'unico a rifuggire il Character Development come un gatto il contatto con l'acqua: al contrario, è in ottima compagnia. Joseph, avendo già compiuto il proprio percorso, è in qualche modo giustificato, ma Abdul è di una monoliticità assoluta e a dir poco irritante, mentre mi sembra che Polnareff e Kakyoin, di gran lunga gli anelli deboli della catena dal punto di vista emozionale, abbiano una percezione di sé che li rende particolarmente resistenti (quantunque, a onor del vero, non refrattari) al cambiamento. Ma possiamo aspettarci reazioni ed interazioni normali da persone che, per via dei loro poteri, conoscono a malapena il significato di questa parola, a maggior ragione se detti poteri sono l'espressione della loro spiritualità? E se sì, fino a che punto?
Ovviamente è inutile pretendere molta puntualità nella resa dei numerosi cattivi "usa-e-getta", anche se fa piacere constatare la presenza di diverse sfumature di male: fanatismo, perversione, codardia, narcisismo, avidità, disonestà, stupidità e via discorrendo. E poi c'è Dio, abietto e implacabile come sempre, che entra in gioco soltanto quando non può più evitare di sporcarsi le mani con quel sangue che costituisce la sua croce e delizia. Dapprincipio può sembrare che abbia perso lo smalto dei giorni di "Phantom Blood", ma almeno a mio modo di vedere è perché non c'è più l'esigenza di mostrare cos'è disposto a fare pur di raggiungere i suoi scopi. A che pro infatti indugiare ulteriormente sul suo "curriculum" se il solo ricordo delle sue malefatte è sufficiente a far correre un brivido lungo la schiena? Inoltre, diciamolo chiaramente: arrivato a questo punto il lettore vuole soltanto che riceva una volta per tutte la punizione che merita. Sì, insomma, che Jotaro gli faccia un mazzo tanto, per usare un'espressione che si addica di più al tenore di questo manga.

Con questo non voglio dire che il comparto psicologico di "Stardust Crusaders" sia tutto da buttar via: il quintetto dei protagonisti funziona e i vari personaggi, salvo qualche rara eccezione (vedasi la piccola rompipal... pardon, volevo dire fuggiasca) hanno più o meno tutti una loro ragion d'essere, o se non loro almeno i rispettivi Stand. Ci sarebbe però stato da fare uno sforzo in più affinché tutte le cose che, volendo, c'erano da dire risultassero evidenti anche ai lettori più interessati ai combattimenti che ai combattenti.

Tra un tributo a Tetsuo Hara, uno ad Akira Miyashita (sappiamo tutti chi è il tuo consulente d'immagine, Jotaro) e un pensierino o due per la Capcom, il tratto di Araki si fa pian pianino più sicuro, personale e ordinato, anche se le sue idee in materia di anatomia e di prospettiva rimangono confuse. Merita inoltre una menzione speciale lo stile surreale del fumetto magico di Boingo, davvero molto differente da quello grezzo a cui siamo abituati, e che personalmente ho adorato.

Alla luce di tutto questo rimuginare su un manga dai contenuti tutto sommato così elementari, cercando di ignorare il più possibile la vocina che per tutto questo tempo ha sussurrato al mio orecchio "Ma chi te lo fa fare?", il mio voto a "Stardust Crusaders" sarebbe un otto e mezzo, ma ritengo che l'innovazione costituita dagli Stand valga bene un arrotondamento all'insù. Bon, fine dello sproloquio, andate pure in pace. E guardatevi l'Abridged Series tratta dagli OAV.



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ATTENZIONE: La recensione tratta solo la prima parte dell'anime; la valutazione riguarda gli episodi dall'1 fino al 51

Masami Kurumada è un furbone, ma questo lo sapevamo già.

Come oramai noto anche alle pietre, l'autore del celeberrimo Saint Seiya decise, a quasi dieci anni di distanza dalla fine della sua opera magna, di rilanciare il brand con la pubblicazione nel 2003 di ben due spin off: Saint Seiya Episode G e Saint Seiya: The Lost Canvas. Entrambi ebbero un discreto successo, che portò anche, nel caso della seconda, alla realizzazione di una serie animata. Sulla scia di questo successo la Toei Animation ha pensato bene di lanciare una serie nuova di zecca, quasi del tutto dislocata da quella originale e che porta lo spettatore quasi venti anni avanti nel tempo. Stiamo parlando ovviamente di Saint Seiya Omega.
Nato per avvicinare il marchio alle nuove generazioni, Saint Seiya Omega si avvale fin da subito di un cast di produzione degno di nota, fra cui i già noti Yoshihiko Umakoshi (Cassehern Sins, Fullmetal Alchemist) e Reiko Yoshida (K-On!), responsabili rispettivamente di character design e sceneggiatura. Avendo avuto carta bianca da parte dello stesso Kurumada, gli autori di questa nuova serie decidono, saggiamente, di gettarsi alle spalle quasi tutto ciò che rappresentava il vecchio universo narrativo, mantenendo attivi solo i personaggi di Athena e Seiya (ora nelle vesti del Gold Saint di Sagittario). Ma andiamo con ordine.

Ambientato in un futuro imprecisato, le vicende ruotano attorno alla figura di Kouga (o Kōga, che dir si voglia), futuro Bronze Saint allevato dalla stessa dea Athena e dal passato avvolto nel mistero. Al fine di divenire il nuovo Saint di Pegaso, Kouga viene mandato a Palestra (?), un enorme complesso dove i giovani Saint si allenano per conquistare di diritto l'armatura a loro predestinata. Qui Kouga farà conoscenza e amicizia con altri ragazzi, fra cui Souma del Leone Minore, Yuna dell'Aquila e Ryuhou del Dragone (quest'ultimo, fra l'altro, figlio naturale di Shiryu). Un pericolo però minaccia la pace sulla Terra: il ritorno sulla Terra del dio Mars e il suo diabolico piano per conquistare il mondo.

Fin da subito si nota una certa volontà da parte della produzione di voler dare un taglio netto alla serie madre, con alcuni espedienti narrativi che hanno fatto storcere non di poco il naso ai puristi della serie. Parliamo ovviamente dell'introduzione degli elementi - sette per la precisione: fuoco, terra, aria, acqua, fulmine (?), luce (?!) e tenebra (?!?) - e del nuovo design delle Cloths, seguito a ruota dal nuovo sistema per evocarle (cristalli... chi di noi non ha subito pensato alle svariate maghe e maghette tanto care al pubblico nipponico? Suvvia, siate sinceri!). Fatto il dovuto preambolo, la serie può essere strutturata sommariamente in due grossi blocchi narrativi, che vanno rispettivamente dall'episodio 1 al 26 e dal 27 al 51. La prima parte tratta le vicende inerenti alla nuova Athena, una giovane ragazza di nome Aria legata a Kouga per via delle loro origini, e della conquista della Terra da parte di Mars; la seconda mostrerà la battaglia per sconfiggere il dio della guerra e sventare il suo piano per la creazione di un nuovo mondo.
In entrambi i blocchi le animazioni e le musiche (curate dal bravissimo, quanto ispirato, Toshihiko Sahashi) sono le uniche cose che mantengono una certa costanza e qualità, a differenza della regia e della sceneggiatura, che, a conti fatti, sono il vero punto debole di questa nuova serie.
Partiamo dal presupposto che Saint Seiya a modo suo ha sempre avuto una certa fedeltà a quello che era il mito greco e che, senza grossi stravolgimenti, riusciva a ripercorrere le sue vicende in modo coerente. In Saint Seiya Omega questo non succede e anche piccoli dettagli, come il nome di Ares ingiustificatamente tramutato in Mars, stonano e rendono il risultato finale abbastanza grottesco e posticcio. Stesso dicasi per quelle fastidiose puntate filler che hanno la pretesa di risultare comiche, ma che di comico non hanno un bel niente. Di tanto in tanto fanno una comparsa anche alcuni personaggi del passato, ma è troppo poco per salvare ben ventisei episodi che, fatta eccezione per i momenti cruciali della storia, navigano nella mediocrità più totale.
Ben diversa è la caratura della seconda parte, che vede la nascita di un nuovo Santuario e lo scontro con i nuovi Gold Saints ora al servizio del dio Mars (non vado nello specifico per evitare spoiler). Sorvolando sulla banalità del riproporre l'attraversamento delle dodici case (fantasia portami via), questo secondo blocco narrativo ha la fortuna di non avere fastidiosi filler e, nonostante la pessima regia, riesce a mantenere un certo ritmo negli eventi. Ciò che viene meno è la caratterizzazione dei personaggi, troppo ridondanti, tutti con la spasmodica necessità di raccontare le proprie storie – banalissime, fra le altre cose - e tutti liquidati con troppa fretta con combattimenti al limite del ridicolo. Questo non solo per i nuovi Gold Saints, ma anche per i due co-protagonisti che andranno ad aggiungersi al quartetto sopracitato (Haruto del Lupo, ovvero il ninja de no' altri, e Eden di Orione, figlio naturale della nuova incarnazione di Mars). Una fretta narrativa che va a ledere il fattore caratteristico e vincente dell'intera saga, nonché degli shonen: la crescita. I Bronze Saints difatti arrivano troppo velocemente al settimo senso e privano lo spettatore di quel clima di sacrificio estremo e del fattore "miracolo" che aveva caratterizzato i precedenti protagonisti della serie, Seiya in primis. Il finale merita una considerazione a parte, in quanto l'idea di un'entità nascosta da un'altra è sì avvincente, ma come tutto il resto della serie viene sviluppata con troppa fretta, privando di nuovo lo spettatore di suspense.

Quali conclusioni possiamo trarre dunque da questa prima parte di Saint Seiya Omega? Tutto e nulla, a conti fatti. Ci troviamo indubbiamente dinanzi a un lavoro tecnicamente valido, che si avvale di ottime animazioni, forse le uniche sul mercato capaci di non far rimpiangere quel mostro sacro che portava il nome di Shingo Araki, accompagnate da una colonna sonora veramente superba; ciò non basta però a fare una altrettanto buona serie, se poi la cosa più importante, ovvero la narrazione, viene meno. Il costante senso di superficialità e fretta non permette di far godere allo spettatore le nuove idee e relega il tutto nel limbo della "commercialata". Un peccato, visto che con un po' più di attenzione ora staremmo parlando di una serie più che buona, ma allo stato attuale delle cose a stento si raggiunge la sufficienza. Occasione sprecata.



9.0/10
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Questo fumetto è stato veramente una rivelazione. Posso considerarmi un veterano dei manga, dato che ho iniziato a leggerli nel 1994 e possiedo migliaia di volumetti, ma il duo Tsugumi Ohba e Takeshi Obata, che mi aveva già impressionato con l'ottimo Death Note, pare avere davvero qualcosa di nuovo da dire nello sterminato mondo dei manga. Le tematiche che toccano sono originali e il modo con cui snodano le trame sono a tratti veramente geniali.
Devo confessare che mi sono avvicinato a Death Note e a Bakuman per l'accattivante veste grafica dei volumetti, dalle copertine ai disegni, ma su Bakuman ho avuto parecchie esitazioni, perché mi sembrava che la tematica scelta, ovvero la narrazione di come si scrive un manga, seppur interessante, fosse estremamente statica e priva di possibilità di renderla avvincente, soprattutto se la si mette in confronto con Death Note, il precedente successo degli autori.

Devo invece riconoscere di essermi estremamente sbagliato, perché in questo manga non solo non mancano suspance ed emozioni, ma si apprezzano citazioni di altri manga e ci si avvince nel trovare i protagonisti immersi in un mondo che per un lettore di manga navigato come me ha un nonsochè di familiare, ritrovando citati come colleghi di Mashiro e Takagi (i protagonisti di Bakuman) gli autori delle storie più famose di Shonen Jump, come Eiichiro Oda, il creatore di One Piece! E che sorpresa, quando nel corso di una festa della rivista su cui pubblicano i due protagonisti compare il signor Torishima, il redattore di Shonen Jump che ha dato spunto ad Akira Toriyama per creare il dottor Mashirito, uno dei personaggi di Dottor Slump & Arale! Mashiro e Takagi si stupiscono ed emozionano alla pari del lettore, che comincia a sentirsi "di casa" in un mondo che non può non incuriosire un appassionato storico di manga.
In Bakuman non mancano nemmeno spunti di forte comicità, grazie a personaggi come Niizuma e Hiramaru, e momenti più romantici o toccanti grazie alla splendida caratterizzazione dei personaggi.
La cosa che più ho apprezzato in Bakuman, però, è il fatto che permetta davvero al lettore di interpretare meglio i manga che legge, perché si capisce meglio cosa spinga un autore a modificare una trama, ad inserire nuovi personaggi, a risolvere una sottotrama magari non troppo felice. La lettura di Bakuman trasmette inoltre nuovo entusiasmo nel valutare il volume iniziale di un nuovo fumetto, mettendo in atto dei metri di giudizio più consapevoli di quello che sta dietro alla pubblicazione in tankobon di un manga che parte spesso da episodi pilota autoconclusivi corretti e ricorretti per essere resi adatti alla pubblicazione di una serie su una rivista!
Forse un lettore di manga più giovane di me potrebbe apprezzare Bakuman meno di quanto possa fare io, ma assegno comunque un 9, lasciando aperta la riserva di voler verificare come gli autori abbiano intenzione di sviluppare e concludere la storia prima di assegnare a pieno merito un bel 10.