Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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"Cara dolce Kyoko" ("Maison Ikkoku" nell'originale) è senza dubbio uno dei massimi classici dell'animazione giapponese degli anni '80. Con alle spalle un manga di una purezza poetica e una forza emotiva senza paragoni - a parte forse pochissime eccezioni -, questa serie animata di novantasei episodi merita il massimo dei voti per svariati motivi.

A partire semplicemente dalla colonna sonora, contenente fra gli altri i brani "Sayonara no Dessan" e "Begin the Night" (entrambi interpretati da Picasso), fino ad arrivare al rendimento dell'aspetto psicologico dei personaggi. L'anime non si presenta né come troppo lungo e diluito né come troppo corto, è adatto principalmente a un pubblico di giovani adulti senza cadere nell'ecchi (come succede troppo spesso in questi casi), anzi mantenendo quella poesia fatta principalmente di sguardi e parole non dette che portano avanti la serie senza però portare a momenti morti o rallentamenti fastidiosi nella trama. I disegni originali sicuramente non sono i migliori per quanto riguarda la carriera di Rumiko Takahashi, ma l'espressività è garantita: basta uno sguardo e si può comprendere come si senta la bella Kyoko. Pur trattandosi di una commedia demenziale in perfetto "stile Takahashi", anche gli elementi drammatici e i momenti poco idilliaci si fanno sentire e vedere spesso, aumentando rispettivamente per rilevanza e numero mano a mano che ci si avvicina all'episodio conclusivo. La colorazione è quella tipica dell'animazione nipponica degli '80, niente di più e niente di meno.

Nonostante la drammaticità a volte esasperante del rapporto fra i personaggi protagonisti, l'umore generale dell'opera non rischia quasi mai di essere addirittura tragico, ciò grazie agli interventi demenziali e spesso del tutto fuori luogo dei coinquilini dei primi, la cui perspicacia e incapacità di stare al proprio posto si riveleranno però importanti in più di un'occasione per far procedere (e per complicare continuamente) la trama, voce narrante della quale è lo stesso Godai.

"Cara dolce Kyoko" ha dalla sua anche l'assenza di cliché di qualsivoglia genere: si nota con piacere l'assenza del tipico personaggio femminile anime schiavo delle proprie "pulsioni emotive" verso un personaggio maschile, il quale - del tutto felicemente - non ha nulla da offrire per conquistare la donna amata e quindi, molto umanamente, si perde dietro tante distrazioni che semplicemente lo portano a ferire sé stesso in un percorso di continui alti e bassi di cui si costituisce questo che potrebbe essere tranquillamente definito come anime "di formazione", nonostante l'età più avanzata dei personaggi rispetto allo standard dei romanzi dello stesso tipo.
E' la stessa Kyoko, la donna amata, a donare a Godai ciò che poi lui imparerà ad offrire: un sé stesso finalmente adulto e libero da quegli elementi di puerilità che si porta dietro da un passato di studente non troppo diligente, popolare, impegnato, serio. Godai è infatti presentato inizialmente come una sottospecie esilarante e imbranata del tipico inetto novecentesco che barcolla fra i propri sporadici aneliti coraggiosi e l'abbandono delle proprie ennesime "risoluzioni". Se non fosse per Kyoko, Godai non scoprirebbe veramente l'amore, mai; è Kyoko a pretendere qualcosa che vada al di là della semplice attrazione e del semplice innamoramento, è lei che decide di non cedere alle lusinghe di quello che ai suoi occhi è ancora un ragazzino scapestrato che non sa neanche interpretare le proprie emozioni, nonché più impegnato a giocare con sé stesso al gioco dell' "ennesimo nuovo me". Kyoko è la guida verso la scoperta di ciò di cui è veramente fatto l'amore: l'amore è fiducia, l'amore è calmo, l'amore costruisce e non si lascia travolgere da passione, attrazione, fretta; l'amore di Kyoko cresce piano piano... e nonostante quello dell'ancora immaturo Godai faticherà per incontrarsi con quello, divenendo maturo con molta più fatica, ma imparando così ad essere docile, dolce, calmo, costruttore e non schiavo.

Qui lo shounen ha parecchio da insegnare allo shoujo, e per tempistica e per realisticità. Nell'amore ci vuole pazienza, e così ce ne vuole nel lento procedere di questa a volte apparentemente bloccata storia d'amore della Takahashi, per cui l’elemento della lentezza nel risolversi dell’intreccio è sicuramente un punto a favore e nient’altro.

"Cara dolce Kyoko" è un anime che si fa apprezzare senza difficoltà anche da coloro che non sono grandi ammiratori delle altre serie animate realizzate partendo da un'opera della stessa manga-ka; persino quanti non amano il sottogenere del demenziale tipico delle sue opere potranno apprezzare la delicatezza, la poesia e i tempi naturali di questo capolavoro, che ad oggi costituisce uno dei punti d'onore della produzione giapponese nel campo dell'animazione, unendo i consumatori più famelici al pubblico occasionale in un unico e sincero plauso alla regia, alla colonna sonora e alla trama in sé.

Se ci sono elementi da criticare o aspetti meno positivi/piacevoli?
Uno sicuramente sì, ma non è un motivo sufficiente per abbassare anche di un solo punto il voto finale di dieci su dieci: i personaggi di sostegno che sono i coinquilini di casa Ikkoku possono risultare un po' fastidiosi qui e là perché onnipresenti nella loro insistenza e caparbietà.

Un suggerimento: è un anime da gustare piano; non fatevi prendere dal binge-watching in questo caso, perdereste una parte importante della bellezza poetica di questa serie.

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"Young Black Jack" non è un manga semplice di cui parlare.
Si inquadra come un prequel della serie di Tezuka, ed è composto da una serie di archi narrativi più o meno scollegati tra loro che raccontano di vari periodi della difficile vita di Kuroo Hazama, passando dalle origini delle sue cicatrici, agli anni dell'università, fino al Vietnam e così via.

Quello che ne emerge è un manga composto da vari archi, alcuni più interessanti e altri molto, ma molto, più pesanti.
In linea generale però, l'atmosfera rimane sempre la stessa: cupa, drammatica, talmente dura che è difficile da sopportare, un susseguirsi di eventi spietati e dolorosi, per Hazama e per gli altri.
Alle parti strettamente mediche, a volte molto cruente, si unisce una trama non sempre facile da seguire o interessante, cruda e che non lascia alcuno spiraglio a ogni forma di speranza.
Amalgamando questi elementi viene fuori un manga duro, che però non è sempre raccontato come meriterebbe.

"Young Black Jack" è infarcito di riferimenti a altri personaggi di Tezuka, che faranno felici gli appassionati di questo grande autore, ma la sceneggiatura è vuota, troppo frammentaria e non coerente e accattivante come potrebbe essere, al punto da far sembrare le sofferenze dei personaggi del tutto gratuite.

L' unico lato sicuramente positivo del manga sono i disegni, eccezionali dal punto di vista dell' anatomia e del resto: il disegno di Ookuma è pulito, bello, limpido, energico, ma la disposizione delle tavole non è sempre accattivante e alla lunga risulta opprimente e monotona. Peccato. Troppi neri e troppi pochi retini, il che rende l' atmosfera del manga ancora più raggelante e ostica.

L' edizione italiana della Star Comics arriva con una sovraccoperta e prosegue in modo lento ma regolare.

In conclusione, "Young Black Jack" è un manga difficile, che tutte le volte mi fa dubitare se comprare il volume successivo o meno, visto che siamo passati da volumi pesanti e cruenti ad altri soporiferi ma ugualmente cruenti.
Forse se la storia fosse narrata in linea retta, se ci fosse un chiaro filo conduttore, se ci fosse qualcosa che non facesse divagare continuamente lo sceneggiatore, ne varrebbe la pena.
Non so neanche se potrebbe soddisfare un vero appassionato dell' opera originale, probabilmente no.
E continuare a comprarlo solo per i disegni, arrivata al quinto volume, dopo una serie di capitoli disastrosi, inizia a sembrare una follia.

Forse bisognerebbe lasciare stare le manovre di marketing e andare a rileggersi l'opera originale di Osamu Tezuka.

5.0/10
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Inizio a mal sopportare gli anime in cui la presenza di personaggi femminili carini, ammiccanti o pucchosi è predominante, ancor più quelli in cui la loro caratterizzazione è altamente legata ai clichè del mondo del fandom. Nonostante la serie mi sia stata consigliata da amici, che me ne hanno parlato bene, mi bastava un giro su AnimeClick per capire che GATE è un titolo dal quale sarei dovuto stare lontano. Perlomeno avrei potuto dare maggior peso alla sigla iniziale, che urlava in ogni sequenza “non guardarmi, non sono per te”. Invece no, stoicamente l’ho iniziato e dopo un paio di episodi ne ero anche entusiasta: bella idea, molte potenzialità, ambientazione interessante, intrigante l’attenzione messa sulla politica di entrambi i mondi. Ma poi, ad un cero punto, sono arrivate l’elfa, la gothic lolita e la maghetta, solo l’avanguardia di quello che mi sarebbe aspettato dopo.

Il protagonista di GATE è un otaku che ha deciso di arruolarsi nelle Forze di Autodifesa giapponesi, in modo da potere avere finanze sufficienti per coltivare il proprio hobby. Durante una convention a cui teneva particolarmente succede un evento inaspettato: si apre un portale dal quale escono creature che attaccano i cittadini, facendo diverse vittime. Nonostante i draghi, gli orchi e i troll è presto chiaro come le armi giapponesi abbiano un impatto non sostenibile da una civiltà che, magia a parte, ha una tecnologia arretrata. Gli invasori sono in breve sterminati e il Giappone si trova ora con un portale aperto verso un nuovo mondo. Il nostro protagonista, distintosi per avere salvato diversi civili, viene scelto per partire in una missione di esplorazione. Dall’altra parte intanto non vedono di buon occhio gli invasori giapponesi, il Re manda un enorme esercito ad accoglierli, che fa la stessa identica fine di quello spedito in Giappone. Calmatesi le acque, arriva il momento di mettere fine ai massacri e viene scelta una delegazione delle Forze di Autodifesa, comandata dal nostro protagonista.

GATE parte da una buona idea e da un ottimo incipit: l’invasione è stata gestita in modo intelligente, sia da una parte che dall’altra. Mi è piaciuto che si sia accennato agli altri stati mondiali, tutti pronti a capire cosa stesse accadendo e bramosi di mettere le mani su nuove risorse preziose. Interessante anche come il re del nuovo mondo abbia sfruttato quanto avvenuto per liberarsi di alcuni possibili contestatori interni, rafforzando il suo potere. I problemi arrivano dopo 3 o 4 episodi, quando i primi personaggi femminili si aggregano al gruppo ed è evidente da subito come l’attenzione della trama si sposti su di loro, tralasciando l’interessante mondo che ci era appena stato introdotto. L’ambientazione perde lentamente di mordente, al gruppetto si aggrega una loli e una principessa guerriera con il suo esercito al femminile. Quest’ultima sembra poter essere la persona adatta a porre fine all’inutile conflitto, se non fosse che il viaggio di delegazione in Giappone diventa un pretesto per cazzeggiare, fare shopping e una gita alle terme. Immaginatevi in pratica un gruppetto composto dal nostro protagonista, una gothic lolita, una maghetta, un’elfa e un altro paio di ragazze dagli abiti stravaganti in giro per Shibuya e Akihabara, tra negozi di abbigliamento, librerie e alle terme. Come se non bastasse, gli sceneggiatori si sono sentiti in dovere di introdurre, a completare il quadro di ragazze, una ex moglie, una fumettista mezza svampita. Il tutto sminuisce e rende ridicole le trame delle altre nazioni mondiali, che sfociano in combattimenti veramente al limite del ridicolo.

Da questo punto in poi la serie precipita in una voragine dalla quale non ha alcuna possibilità di uscire, nonostante qualche tentativo di abbozzare un minimo di trama: quello che faticosamente si prova a mettere insieme viene mandato in frantumi da situazioni che prediligono maggiormente il lato sociale dei personaggi, con atteggiamenti e comportamenti che di rado appaiono come naturali e privi di esigenze di sceneggiatura. Detta semplice: o i personaggi sono degli idioti o altrimenti alcune scelte e uscite non si spiegano. Ancor più non si capisce l’atteggiamento del Giappone e delle altre nazioni, che sembrano dispostissimi a sopportare il clima di cazzeggio e perdita di tempo che vige nella Regione Speciale, mentre poco prima erano disposti a promuovere sparatorie in pieno centro a Tokyo. Ancora nell’altro mondo il Re, o chi per lui, dopo aver perso decine di migliaia di uomini senza provocare una perdita, ancora tratta con il Giappone, alleato tra l’altro ad una semidivinità, come se avesse davvero potere di trattativa. In pratica, tutta la parte di ambientazione è farraginosa, confuso e non sostenibile. C’è ovviamente un antagonista, ma è talmente privo di carisma e poco sostenibile che non riesce a suscitare reale interesse per le vicende narrate. Vengono anche presentati dei complotti, ma la differenza tra le forze in gioco è così netta che l’unica vera minaccia di tutta la serie si è dimostrata un drago di fuoco.

Il vero motore degli eventi sembra essere il voler compiacere questa o quella ragazza, oppure il voler creare situazioni in cui si può mostrare quanto sono fighe le Forze di Autodifesa giapponesi. Questo è l’altro elemento che mi ha infastidito: le Forze di Autodifesa hanno una tecnologia e un addestramento chiaramente su altri livello rispetto ai locali, quando devono combattere si tratta di massacrare un nemico palesemente inferiore. Quando devono confrontarsi con situazioni più tranquille viene messa grande enfasi su quanto tengano ai cittadini giapponesi e sul loro impegno nel dare soccorso a chi ne ha bisogno. Si ha l’impressione di trovarsi davanti ad uno spot delle forze di autodifesa, con discorsi che fanno leva sul patriottismo e sulla nobiltà del militari. Nel complesso si compone un quadro di eccessivo buonismo, intervallato da momenti in cui allegramente si massacrano migliaia di inermi soldati nemici senza battere ciglio.

Dal quarto episodio in poi ho trovato difficoltà a trovare momenti in grado di convincermi e, pure il finale, chiude le vicende in modo troppo frettoloso, offrendo una ridicolo “boss finale” e lasciando alcune questioni aperte per un possibile seguito. C’è tuttavia una scena che mi ha colpito e che è emblematica, ovvero quella in cui vengono mostrate le coppie che si sono formate tra le ragazze locali e gli ufficiali dell’esercito. Ovviamente non è incluso in queste il nostro protagonista, che ha già una gothic lolita che se lo vuole fare, una maghetta che lo considera già suo marito, una elfa che lo considera come figura paterna e sulla terra una ex moglie che ha costantemente bisogno di lui.

GATE è un titolo trascurabile, fa parte di quella categoria di serie tratte da light novel neo fantasy, tanto di moda, ma non riesce ad offrire un intreccio capace di attrarre l’interesse di coloro che non si lasciano traviare da qualche ammiccamento sentimentale e dalle belle ragazze offerte. Offre elementi harem, categoria che però non si azzarda a calcare fino in fondo, cercando di camuffarla con altro, nascondendosi dietro a temi come la guerra e l’esercito. Eppure, se togliamo ad una serie una sceneggiatura scritta in modo adeguato e dei personaggi con una caratterizzazione psicologica interessante, che rimane? Un comparto grafico e sonoro di buon livello? Per quel che mi riguarda non è abbastanza.