Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.


9.0/10
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"Elfenlied", letteralmente tradotto "Canzone degli elfi", è originariamente un poema tedesco scritto da Eduard Mörike, da cui è stata in seguito adattata una canzone dal famoso compositore austriaco Hugo Wolf. Ed è proprio da quella canzone che, all'alba dell'ormai lontano 2002, l'allora semi-sconosciuto Lynn Okamoto traeva ispirazione per la sua prima opera, appunto intitolata "Elfen Lied". Concepito originariamente per essere un lavoro breve di due o tre volumi, l'opera si è poi trasformata, grazie all'enorme successo riscosso, in una ben più corposa raccolta composta da dodici numeri, portata anche in Italia da Planet Manga fra l'ottobre del 2012 e l'agosto del 2014.

La storia inizia nei sotterranei di una base segreta dove vengono effettuati esperimenti sui Diclonius, particolari esseri dalla forma umanoide, che, grazie ad un ulteriore sviluppo di una parte del loro cervello, sono in grado di generare dal loro corpo i cosiddetti "vettori", mani invisibili dalla lunghezza variabile dotate di un enorme potere distruttivo. Lucy è una Diclonius che, in seguito ad una distrazione del personale addetto alla sua sorveglianza, riesce a fuggire dalla base, causando caos e panico generale. Dopo una serie di sballottamenti, la ragazza si ritrova senza memoria su una spiaggia, dove farà la conoscenza di Kouta, un giovane studente universitario appena trasferitosi nel paese. Una trama semplice ma di grande effetto, ricca di atmosfere cupe, misteriose e ansiogene, intervallate da brevi momenti di svago. Forse sono questi ultimi, o per meglio dire il loro abuso, l'unica nota stridente di un'opera monumentale quale "Elfen Lied".

Apparentemente un poco studiato insieme di vari generi, quali ecchi, splatter, horror, commedia, sentimentale ed altri ancora, in realtà una piccola opera d'arte, macchiata solamente da una non sempre proficua ridistribuzione di questi, e da uno stile grafico inizialmente grezzo ed incurante delle proporzioni. Una storia che nella sua semplicità riesce a coinvolgere il lettore sin dalle prime battute, scaraventandolo in una realtà che vede contrapporsi, in segreto, il genere umano contro i Diclonius, considerati uno stadio evoluto dell'homo sapiens. Ed è proprio l'evoluzionismo il principale tema che Lynn Okamoto decide di trattare in "Elfen Lied", gli attriti che si possono venire a creare fra due specie diverse, seppur fra loro estremamente simili. Altra nota positiva è sicuramente la caratterizzazione dei personaggi. Nel corposo gruppo di protagonisti principali, non vi è un solo elemento che goda di una personalità ordinaria.

Vari sono i disturbi della personalità che affliggono le loro vite, a partire da Kouta, che cancella involontariamente una parte dei suoi ricordi per difendersi dal dolore, sino a Lucy, costretta a convivere con diverse personalità che a seconda del momento prendono il sopravvento. Altro personaggio palesemente complessato è Nana, che ritrova nel suo finto padre la figura della salvezza, sviluppando nei suoi confronti un attaccamento morboso e ossessivo. Questi ed altri ancora sono i principali attori che recitano nell'universo di "Elfen Lied", e costituiscono sicuramente una premessa interessante. In conclusione, "Elfen Lied" è un manga crudo e violento, ricco di mistero e colpi di scena che sapranno catturare il lettore sin dai primi capitoli. Un'opera nella quale anche i momenti di gioia e di vita quotidiana assumeranno delle strane sembianze, conservando quella sensazione di malinconia che contraddistingue il prodotto. Un'opera diversa ed originale, ed anche per questo, estremamente consigliata.


4.0/10
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Nejima Yukari, il protagonista di “Koi to Uso”, è la personificazione del motivo per cui il sistema di governo di “Koi to Uso” è giusto e legittimo. Immaginate che il Giappone viva un periodo storico di crisi demografica, con sempre meno giovani a sostenere l’economia e sempre più anziani a frenarne la crescita. Un momento, serve davvero immaginarlo? Forse non è uno sforzo necessario, se si pensa che la diminuzione delle nascite è un fenomeno iniziato, dati alla mano, circa cinquant’anni fa e che oggigiorno è più che mai attuale. Incombe sul Paese del Sol Levante lo spettro di una popolazione sempre meno numerosa e sempre più anziana, incapace di alimentare l’economia e colpevole di inerzia nell’inesorabile, per quanto evidente, processo che sta relegando il Paese a un ruolo sempre più marginale nell’economia mondiale. Il motivo di questo preludio ridondante è che il sistema di governo citato all’inizio, quello di “Koi to Uso”, ha trovato la soluzione a questa piaga sociale.

Il progresso scientifico in campo genetico pare aver permesso agli scienziati di individuare il livello di compatibilità tra persone di sesso opposto e combinare i matrimoni secondo tale criterio, di modo che le coppie così formate da un lato godano di una vita sentimentale appagante e dall’altro contribuiscano a debellare il problema del calo delle nascite. Ciò avviene grazie anche a una campagna di educazione sessuale efficace, operata a tappeto su tutte le scuole, in diverse tappe della crescita dell’individuo, e che sdogana il sesso, argomento tabù per eccellenza, riconoscendolo contemporaneamente come fonte di piacere e, soprattutto, come mezzo necessario per procreare e contribuire alla crescita del Paese. Il termine ultimo per l’assegnazione di un partner, procedura che avviene tramite la comunicazione sia digitale sia per iscritto di nome e informazioni di questi da parte del governo, è il raggiungimento dei sedici anni di età. È questo il motivo che spinge Yukari, liceale dall’aspetto anonimo e dal carattere scialbo, a dichiararsi alla ragazza di cui è innamorato dalle elementari, giusto il giorno prima del suo sedicesimo compleanno, prima che il suo destino lo separi definitivamente da lei e dall’amore che prova da anni nei suoi confronti. Inaspettatamente, non solo la bella Takasaki Misaki ricambia i sentimenti del giovane, ma sul telefono del ragazzo arriva un’email dal governo che riporta proprio il nome di Misaki come partner per lui selezionato. In quello stesso istante, tuttavia, due agenti del Ministero del Lavoro, della Salute e del Welfare vengono apposta a consegnargli la lettera. Il nome del partner, tuttavia, non è Takasaki Misaki, ma Sanada Lilina, e, contemporaneamente, dal telefono di Yukari sparisce il nome di Misaki.

L’intreccio si esplica quindi in due momenti, spesso interdigitati, che si spartiscono in modo più o meno uguale la scena: l’evoluzione del rapporto tra i tre protagonisti da una parte e dall’altra la descrizione - senza approfondirne le dinamiche interne e senza motivare alcun che - dell’iter che le coppie selezionate dal governo devono seguire per poter godere in futuro di una vita sentimentale che si svolga correttamente - leggasi proliferare - e che sia appagante per entrambi. Per quanto il protagonista si disperi e si senta privato dei propri sentimenti, c’è da dire che il sistema ideato dal governo sembra comunque funzionare. I genitori di Yukari mostrano un notevole affiatamento, lo stesso si può dire di quelli di Lilina e persino di un amico di Yukari, fidanzato solo di recente. Il problema delle nascite, neanche a dirlo, è risolto. Gli unici a sentirsi a disagio in una società che impone, senza dare la minima spiegazione, il partner con cui condividere la propria esistenza sembrano essere Yukari, Misaki e Lilina. Perché la storia, in qualche modo, dovrà pure andare avanti, o no?

Arrancando con mosci espedienti narrativi e qualche cliffhanger di troppo, la sceneggiatura esibisce e ribadisce, episodio dopo episodio, tutta la manchevolezza e l’inconsistenza proprie di una storia che già in partenza ha tutto scritto e poco da dire. Neanche il fanservice fatto di baci e situazioni piccanti riesce a distogliere l’attenzione dal peccato di pretensione di cui lo staff si macchia. Le riflessioni più interessanti, paradossalmente, non sono quelle banali e ripetitive sull’amore e sul goffo triangolo amoroso che si va formando, ma vertono sull’ambientazione in sé e per sé, senza necessariamente tirare in ballo i protagonisti. Ora però non vorrei essere frainteso: ciò che ho trovato veramente interessante, a dispetto di quanto forse qualcuno stia credendo, non è come il sistema abbia deciso di sopperire alla carenza di nascite, ma il modo in cui una discreta fetta di utenza abbia avvicinato, probabilmente con leggerezza, il termine “distopico” a un tale sistema. Dal momento che “Koi to Uso” non mi pare preveda o rappresenti e descriva un futuro in cui, in modo contrario e opposto alle tendenze avvertite nel presente, si prefigurino situazioni, sviluppi, assetti politici e sociali altamente negativi e avversi alla popolazione, non riesco a trattenere un sorriso ogniqualvolta mi imbatta in paragoni stridenti che chiamano in causa Orwell o Asimov; probabilmente, chi discute, lo fa senza aver letto con un minimo di attenzione alcun testo dei due. La soluzione trovata dal governo, invece, pare essere vincente per gli stessi motivi spiegati in precedenza e il fatto che un paio di adolescenti non la veda di buon occhio non è certo un motivo valido per condannarla, a maggior ragione se del suddetto sistema, appunto, si sa poco o nulla. Se ne conoscono i risultati nel lungo periodo, però, e quelli vanno tutti a suo favore. E, pur volendo stendere un velo pietoso sul finale, penso che l’evoluzione dei sentimenti di Yukari vada solo a confermare questo mio pensiero. Tuttavia, questo aspetto “distopico”, per così dire, è proprio ciò che mi ha spinto a terminare una serie che ha talmente poco da dire e che lo dice talmente male, da meritare di essere ricordata solo come monito di ciò che un anime non dovrebbe essere.

Se la composizione della serie e l’adattamento possono non brillare forse a causa della materia prima scadente, il character designer si deve essere evidentemente impegnato per non essere da meno. Gli occhi e i visi deformi a primo impatto risultano grotteschi e rappresentano forse il primo vero scoglio per chi decida di approcciare l’opera; questo non perché, pur essendo il manga originale pubblicato su una rivista shounen, lo stile strizzi non poco l’occhio agli shoujo manga, quanto per la piattezza disarmante e la mancanza di proporzioni che, ahimè, rimangono una costante per tutta la durata della serie. Le espressioni facciali dei personaggi possono tranquillamente essere ridotte a tre: indifferenza, arrossamento, pianto; eccezion fatta per qualche saltuaria combinazione delle tre sopra citate, altro non si vede. Le animazioni pure sono spesso legnose e poco precise, lo stesso vale per i fondali, approssimativi, e la regia, scialba almeno quanto il protagonista. Insomma, il tempo speso per visionare “Koi to Uso” non tornerà indietro, ma ogni tanto anche una ciofeca è necessaria per ricordare quanto sia buono un caffè fatto come Dio comanda.


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Che in America "Voltron" goda di un'ottima reputazione e venga riverito come un idolo quasi come "Goldrake" e "Mazinga" da noi, lo sanno tutti. Ma, per amor del cielo, avevano già provato a dargli un seguito con quell'aborto di "Voltron Force" (non contenti di avere irrimediabilmente storpiato l'originale del '81). Stavolta però si ha l'impressione che si faccia sul serio, dal momento che per mettere in cantiere questo reboot si sono mossi giganti come Netflix e Dreamworks.

I cinque leoni robot sono stati generati e animati con l'ausilio della migliore piattaforma CGI disponibile sul mercato, nonché da programmatori (definirli artisti mi sembra un eufemismo bello e buono) con i cosiddetti attributi. Il problema è uno solo. In alcuni casi si ha la percezione visiva che siano cangianti modellini di metallo lanciati contro sfondi bidimensionali colorati a mano. Dopotutto, lo stacco tra le tecniche tradizionali e le immagini generate dal computer è ancora notevole. Nutro un forse infondato timore che i prossimi robottoni che vedremo, indipendentemente dalla nazionalità di provenienza, si muoveranno tutti allo stesso modo, velocissimi e perfetti, quantunque con movenze artificiose e legate (si vede lontano miglia e miglia che sono state calcolate, copiate e incollate per mezzo di postazioni Silicon Graphics). I personaggi mostrano visi angolosi, alcuni perfettamente rettangolari e altri dalle appuntitissime sagome triangolari, senza alcuna ombreggiatura, cosicché il tutto risuona un po' come una caricatura dei classici stereotipi degli anime anni ottanta (oddio, sempre meglio di alcuni recenti remake "Made in Japan", moeizzati o dalle tendenze bishojo).

Scordatevi drammaticità, scene cruente, perdite famigliari ed epiloghi struggenti da tragedie greche. I dialoghi sono simili alla versione "ripulita" che ci siamo sciroppati in fase adolescenziale: cioè linguaggio estremamente edulcorato, loquacità tipica dei roboanti action-movie con sketch a ripetizione, e protagonisti e comprimari sempre pronti a mostrarsi imbarazzati con tanto di gocciolona che scende (cliché tipico dei manga moderni). Come in tutti i cartoon concepiti nel continente patria del puritanesimo più radicalizzato (eccetto quelli satirici, dove tutto è permesso), per non urtare la sensibilità dei bimbi sono state bandite impiccagioni, ferite di armi bianche, battute a sfondo razziale (è ammessa solo qualche lieve escoriazione); vengono a meno le morti violente; rimosse le atrocità commesse sugli schiavi; cancellati particolari ritenuti scabrosi e simboli religiosi; vietato parlare di sesso, droghe o altri vizi capitali; aboliti termini come ammazzare, trucidare, avvelenare eccetera (i network statunitensi hanno guarnigioni di controllori che passano in rassegna ogni singolo fotogramma per non incappare in fugaci scene di nudo o messaggi subliminali che possono ledere la mente del bambino; per questo tutti i principali studios si sono affidati negli anni ai noti psychological consultant, oggi chiamati con l'appellativo meno inquietante di screenplay revisionist, ma il sugo non cambia). Shiro, Kate, Lance, Pidge, Hunk quindi non ricorrono mai a linguaggi scurrili, non bevono, non fumano, non vanno a caccia, insomma non fanno altro che difendere strenuamente l'universo dagli attacchi alieni (precisiamo: robot, non cyborg o mostri bio-organici, quindi niente squartamenti o sangue a fiumi). Per finire completiamo l'opera con le interpretazioni dei cinque giovani cadetti piuttosto debolucce, ma che riprendono in maniera abbastanza fedele le personalità dei singoli piloti (con alcuni flashback inediti sul loro passato). L'unico a mantenere una parvenza di orgoglio e un briciolo di serietà rimane Takashi "Shiro" Shirogane.

L'amenità, già dal primo episodio, tra frecciatine sarcastiche, linguaggi coloriti e battute in slang da cowboy, prende il sopravvento; ma in tutta sincerità Hunk che rutta a ruota libera non si può proprio sentire. Bello il restyling di Sendak, più simile a un furry che a un rettile squamoso, a dire il vero; ma Allura di Althea in formato elfico e dalla carnagione medio-orientale (chi ha detto Urd?) mi ha lasciato attonito, sarà stato un ripiego per non far sparire del tutto le poetiche fantasy, le quali hanno lasciato il posto a una più convenzionale sci-fi. Il ponderato consigliere Coram, pure lui con orecchie a punta, è diventato una macchietta schizoide e iperattiva succube della principessa, quest'ultima molto più risoluta e meno ingenua e piagnucolosa della controparte giappo.

Com'è ovvio che fosse, del resto la quasi totalità della produzione seriale U.S.A. viene fatta in Asia, della parte realizzativa 2D - compresi storyboard e prop design - se ne è occupato uno studio di Seoul tra i più quotati. Proprio quella sciagurata manovalanza che all'epoca disseminava intere serie TV di disegni discutibili e inguardabili, ora ha raggiunto, se non superato, i livelli qualitativi nipponici. Si dovrebbe parlare di anime coreani a tutti gli effetti, visti gli ultimi lavori di Dadashow e di Studio MWP. E non è nemmeno da escludere a priori che tra i registi della nuova generazione ci sia qualcuno che abbia iniziato dal rango di intercalatore proprio in "Golion".

Dopo essere sbarcato sulle TV di mezzo mondo, per quanto riguarda il nostro Paese, dovrebbe approdare su uno dei tanti famigerati canali tematici per bambini teledipendenti (si vocifera K2). Ottima scelta se così fosse, perché lì è il suo habitat ideale, tra una puntata di "Alvinnnn!" e una di "A Tutto Reality!".

Giudizio finale: non del tutto sufficiente, il che non vuol dire bocciatura senza mezzi termini; le animazioni si mantengono apprezzabili e fluide per tutta la durata della prima stagione; sarebbe bastato uno sforzicino in più per riportare in auge un genere dimenticato ormai da tempo.