Lucca Comics & Games 2025: La nostra intervista a John Romero

Il padre della serie DOOM tra ricordi, sfide e futuro del game design

di DannyK

A Lucca Comics & Games 2025, abbiamo avuto l’occasione di incontrare personalmente John Romero, leggenda vivente del videogioco e co-creatore di titoli che hanno definito un’epoca quali DOOM, Wolfenstein 3D e Quake. In un colloquio diretto e senza filtri, Romero ha ripercorso con lucidità e passione il proprio cammino, dalle origini pionieristiche alla scena indipendente contemporanea, riflettendo su fallimenti, lezioni apprese e futuro della creatività digitale.

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Consigli al giovane John Romero

Alla domanda - che sarebbe dovuta essere l'ultima ma con la quale ho voluto invece aprire - su quale consiglio darebbe al sé stesso degli esordi, Romero sorride con una punta d’ironia. «Non portare mai a bordo soci con cui non hai già lavorato bene», dice senza esitazione. Un principio maturato sul campo, dopo esperienze difficili che hanno segnato la sua carriera tanto quanto i successi. Ricorda con tono amaro-universale i giorni in cui la sua famiglia si trasferì in Inghilterra e il computer su cui stava programmando fu spedito via per mesi. «Ho dovuto scrivere il codice a mano su carta, calcolare numeri e digitare linee per capire se funzionavano. Non è stato divertente», racconta. Un aneddoto che restituisce l’immagine di un giovane autodidatta ostinato, capace di trasformare gli ostacoli in formazione.

L’era dell’assembly e la nascita del design moderno

Negli anni Ottanta, programmare significava conoscere ogni singolo bit del linguaggio macchina. «In assembly persino sommare due numeri richiedeva diverse istruzioni», spiega Romero. «Questa attenzione maniacale ai dettagli lasciava poco spazio al game design vero e proprio.» Cita Wizardry e Ultima come esempi di visione ampia dentro vincoli tecnici soffocanti: mondi immaginati con risorse minime. Per lui, sviluppare allora significava combattere costantemente contro i limiti. Oggi, con strumenti come Unreal Engine, la sfida si è ribaltata: «Non è più la tecnica a frenarti, ma la tua capacità di avere idee.»

Dai fallimenti ai nuovi inizi

Romero non elude i momenti difficili. Il caso Daikatana resta la ferita più visibile, ma anche la più istruttiva. «Ogni fallimento porta con sé lezioni preziose», ammette. Da quell’esperienza ha imparato a non disperdere energie, a mantenere i team più snelli e a non farsi travolgere dalle aspettative degli investitori. «Se non rischi, non cresci. Ma devi imparare a capire quando cambiare direzione.»

L’intelligenza artificiale: strumento, non creatrice

Sul tema dell’intelligenza artificiale, Romero — con qualche suggerimento offscreen da parte della moglie e collaboratrice Brenda — è pragmatico. Ne riconosce il potenziale come supporto tecnico, ma ne ridimensiona l’aura creativa. «L’AI può accelerare il lavoro, liberandoti dalla parte noiosa: scrivere codice, ottimizzare asset, testare bug. Ma non può inventare qualcosa di veramente nuovo. La scintilla creativa resta umana.» Una presa di posizione netta, che risuona come monito in un’epoca in cui molti sviluppatori sognano un’automazione totale del processo creativo.

La scena indie e il futuro del videogioco

L’entusiasmo di Romero si accende quando parla della scena indipendente. Vede negli sviluppatori indie il cuore pulsante dell’innovazione. «Piccoli team che fanno grandi giochi. È lì che nascono le idee più fresche.» Cita esempi come Oceanhorn — “lo spirito di Zelda reimmaginato con dedizione artigianale” — e Seance of Black Manor, titoli che dimostrano come la passione e la qualità possano prevalere sulla quantità di risorse. «Il divertimento non nasce dalle grafiche, ma da come ti senti mentre giochi. Il gameplay è tutto.»

 
L’incontro con John Romero non è solo una conversazione con uno dei padri del first-person shooter: è un viaggio dentro la mentalità di chi ha costruito un linguaggio da zero e continua, decenni dopo, a interrogarsi sul suo futuro. Dalle righe di codice scritte su carta alla potenza dei motori 3D di oggi, Romero resta fedele a una verità semplice: i videogiochi sono — e devono restare — un atto di immaginazione umana. Vi lasciamo al video integrale dell'intervista.





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