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“Kanashimi no Belladonna” è un esercizio di stile che può rivelarsi tanto efficace quanto disturbante, in base all’esigenze del fruitore. Che visivamente l’opera sia quanto di più avanguardisticamente artistico mente umana potesse concepire lo si capisce da subito. L’immensurabile estro creativo di Eiichi Yamamoto si agita tra le sinuose forme di una donna depredata della sua verginità, tra gemiti soffocati e badiali forme falliche. La cromatura è un mosaico di vividi colori acquerellati, un mare rosso sangue dai cui abissi una sirena canta il suo dolore più profondo. Tralasciando l’opera d’arte che esteticamente “Kanashimi no Belladonna” innegabilmente è, ci accorgeremo subito di quanto poco convenzionale e atipica sia la narrativa di questo gioiellino. Il film si presenta come una sorta di fiaba illustrata, con immagini ferme accompagnate da testo che si susseguono in uno sbalorditivo climax visivo. Le poche animazioni riescono ad onorare le scene più significative, catapultandoci in un inferno di carne pulsante dannatamente ispirato.

Nel periodo più buio del Medioevo francese, Jeanne e Jean sono una modesta coppia di novelli sposi. Durante la prima notte di nozze, Jeanne viene stuprata dal barone del posto, che abusa di lei insieme ai suoi sudditi in nome dello “ius primae noctis”, diritto che consente al signore feudale di trascorrere la prima notte di nozze con la sposa in caso di mancato pagamento dell’imposta. L’orgia avrà serie ripercussioni sulla fanciulla (che prima del fatto era vergine), tanto da farla sprofondare in un tunnel onirico di struggente tristezza ove a consolarla vi sarà uno spirito demoniaco falliforme. Inizia per Jeanne un viaggio interiore alla ricerca del piacere primordiale, animalesco, del godimento ferale che fino a prima giaceva represso nel substrato delle sue carni. L’erotismo in “Kanashimi no Belladonna” è il mezzo attraverso il quale Jeanne trascende. Privata della sua purezza la donna riscopre il proprio corpo, l’abuso diventa per lei oggetto di eccitazione sessuale, tanto da assumere nella sua testa le sembianze di un fallo gigante pronto a soddisfarla ogni qualvolta lo desidera.

La storia, che sembra scappata dai quaderni di Lars Von Trier e inscenata dal più visionario Jodorowsky, con un tocco di Murakami, è in realtà liberamente ispirata al saggio “La strega” di Michelet, e forma insieme a “Le mille e una notte” e “Cleopatra” la trilogia sperimentale Animerama. L’opera in questione è in realtà l’unica della trilogia a non essere stata scritta dal celeberrimo Osamu Tezuka, che lasciò la Mushi Production poco prima la realizzazione del film. Arduo stabilire se questo abbia giovato o meno al prodotto finale, visto il calibro dell’autore citato, tuttavia è difficile pensare a un “Kanashimi no Belladonna” migliore in un’essenza diversa da quella che conosciamo.

Cos’è il male? È facile e troppo spesso scontato dare una accezione negativa al concetto che incarna il deplorevole, ma talvolta urgerebbe essere meno superficiali.
La vita è per il 10% cosa ti accade e per il 90% come reagisci a quello che ti accade. Preso per buono questo concetto, possiamo dire che la violenza subita dalla protagonista, quindi il suo male, le schiuda i chakra, proiettandola in un eden sensoriale che solo chi ha subito le angherie più atroci può raccontare di aver visto. Jeanne è una martire, non a caso il nome è stato preso da Giovanna D’arco (Jeanne d’Arc in francese), e la sua metamorfosi, quasi kafkiana, incarna in toto l’emancipazione femminile. La donna, libera dal bigottismo e da quella verecondia tipicamente clericale, si spoglia di ogni forma di pudore, attraversando lidi di piacere altrimenti irraggiungibili. “Innamorati del tuo stupratore perché ti ha fortificato”, la citazione a “Dove siete spiriti” di Rancore qua calza a pennello.

Il film è Jeanne-centrico, la storia viene raccontata mediante gli occhi della protagonista, e sarà quella l’unica prospettiva attraverso la quale lo spettatore vedrà il mondo di “Belladonna of Sadness”. Un mondo decadente dal simbolismo esoterico e marcatamente libidinoso.
I fotogrammi fissi si alternano a tempo di rockeggianti e psichedeliche melodie, senza le quali lo spettatore non si immergerebbe in modo cosi travolgente nei deliri di Yamamoto. La preponderanza di toccanti pezzi malinconici (cantati tra l’altro da una soave voce femminile) aiuta lo spettatore a carpire la mestizia di Jeanne. La colonna sonora è eccezionale, in perfetta sinergia con la potenza delle immagini, per un’esperienza sensoriale che non teme confronti.

“Kanashimi no Belladonna” è un piccolo capolavoro targato 1973; sperimentalista, rivoluzionario e dallo stile molto più occidentale di quanto il titolo possa suggerire, saprà rivelarsi portatore di un messaggio femminista contro una repressione incredibilmente attuale. Un cult giapponese eterno e ingiustamente obliato a cui speriamo la riedizione in 4k del 2015 doni nuova linfa, perché in fondo tutti siamo un po’ Jeanne.
“Je suis Jeanne”.