Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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L’animazione fatta zucchero filato.
Classico shojo scolastico, leggero come nuvole, una visione che scivola via pari ad acqua, scorrevole, a tratti impalpabile, a tratti tanto coinvolgente quanto gentile.

L’incipit buffo e ironico che paragona la protagonista di questa storia allo spettro deambulante dell’horror “The Ring” (“The Grudge” in madrepatria) riesce a rivelarsi una scelta di sceneggiatura divertente e allegra, azzeccatissima per introdurci colei di cui seguiremo le vicende: Sawako è il suo nome, liceale timidissima, silenziosa e poco appariscente, dai lunghi capelli lisci e neri come seta, tanto da coprirle parzialmente il volto. Dall’atteggiamento remissivo e dai sorrisi stiracchiati, Sawako è malvista dai compagni di classe, proprio perché, come appena accennato, rammenta inevitabilmente - sia per assonanza, che per apparenza - il terribile e quasi omonimo personaggio di Sadako, l’infausta presenza di “The Ring”. Come si sa, uno scherzo divertente dura poco, e quando tali, scortesi analogie cominciano a divenire insistenti, pedanti e per nulla divertenti, l’atmosfera volge al peggio: alcuni ingenui conoscenti di Sawako cominciano a prenderne le distanze, influenzati dalle voci che prendono a girare sul suo conto... troppo simile a quel mostro, sempre senza amici, silenziosa, cupa, tetra. Sarà una strega? Sarà maledetta? Sciocche credenze, questo è certo, ma perché rischiare di starle vicino? Ecco dunque una sorta di metafora dei tanti isolamenti che moltissimi studenti, chiusi e con evidenti difficoltà a relazionarsi, subiscono ogni anno in ogni ambito scolastico.
Sawako è introversa, troppo debole caratterialmente per reagire a questo genere di situazioni; non ha mai avuto veri amici e, per quanto si impegni a sorridere e socializzare, i risultati sono un disastro dietro l’altro. Tale situazione “disperata” cambierà gradualmente dopo l’incontro con un coetaneo della sua stessa classe, un certo Shouta Kazehaya, tipo decisamente agli antipodi: solare, allegro, amico di tutti, capace di fermarsi a scambiare due parole e socializzare con chiunque. Kazehaya è una nemesi - per così dire - di Sawako, ma la ragazza ne rimarrà talmente abbagliata, da volerlo prendere come esempio di vita, per avvicinarsi ai suoi nuovi compagni di classe e cambiare questo deprimente, desolante andazzo.
Nasce così un’amicizia inaspettata fra i due, che si snoderà lungo incomprensioni, avvicinamenti, equivoci e vicissitudini di vario genere, passando attraverso il filtro delle tanto agognate amicizie che ben presto giungeranno, sorprendenti e inaspettate, a metter pepe in una storia prevalentemente zuccherosa e di piacevole intrattenimento.

Siamo di fronte a un comparto artistico altalenante, soprattutto nei campi larghi, dove la qualità dei disegni lascia molto a desiderare, mentre tutt’altro discorso sono i primi piani e la cura nei fondali, davvero pregevoli. Dai colori tenui e pastellati, l’insieme di questi elementi risulta sensibilmente comunicativo, una storia dagli umidi contorni ad acquarello, cornice onirica di spaccati urbani nipponici resi con elegante grazia.

Si tratta di una vicenda ricca di “prime volte”: alcune melensi, altre delicate, altre ancora dure da digerire, ma altrettanto importanti. Una storia ove si toccano inizialmente temi importanti come bullismo e discriminazione, egoismo e invidia, elementi presenti da sempre nelle realtà scolastiche di tutto il mondo, forse ancor più marcati in talune realtà nipponiche. Ad ogni modo, la cattiveria di alcuni compagni di classe (proprio) della protagonista, vedremo, non bloccheranno i due ragazzi dal conoscersi sempre meglio: essi, col tempo, si legheranno in un rapporto di leggiadra e serena amicizia, almeno inizialmente. Gli equivoci, le situazioni ambigue e le divergenze da appianare sono spesso terreno minato che può sgretolare oppure consolidare ogni genere d’amicizia; ingredienti frequenti in “Kimi ni Todoke” - talvolta adoprati con parsimonia, oppure narrati con un ritmo (fin troppo) lento e cadenzato, tanto da rischiare di annoiare, ma che nel complesso paiono capaci d’arricchire l’intera storyline in modo positivo.
Non si tratta di un anime che calca soltanto la valenza dell’amore più spensierato, ingenuo e sognante fra uomo e donna, ma mette in risalto l’importanza (e la fortuna) di possedere amicizie sincere, vere e oneste, qualcosa di molto raro, che episodio dopo episodio viene valorizzato in maniera emozionante e profondamente intensa: assisteremo alla crescita interiore sia di Sawako che di Kazehaya, lei immatura come una bambina alle prese con il mondo adulto, dolce, spaventata, attaccatissima ai genitori che, come spesso accade, sono i primi, involontari colpevoli dell’infantilismo dei figli (si veda in primis un padre iperprotettivo ma simpaticissimo); lui, invece, ammirato da tutti e sempre al centro dell’attenzione, ma incapace di relazionarsi con una ragazza a tal punto, da non riuscire a stringere un rapporto più intimo, decisamente alle prime armi con questo genere di relazioni.
Fra vicissitudini adolescenziali (un po' idealizzate e poste all’occhio dello spettatore in modo più romanzato che realistico), scopriremo che la prima parte della storia sarà quasi del tutto dedicata ai legami d’amicizia (e di socializzazione) sia femminili che maschili, mentre in un background fin troppo leggero e - purtroppo - privo di mordente, prenderà sempre più quota la parabola romantica che andrà a impadronirsi della trama nelle battute finali, narrata con misurata e pacata dolcezza, una caramella incartata da una colonna sonora pacifica e rasserenante, somministrata a piccole dosi (...forse troppo piccole). Il tutto condito da una densa dose di comicità a tratti davvero esilarante, più spesso leggera e senza dubbio piacevole, mai fuori luogo né eccessiva.

A fine visione ci si rende conto di come anche i personaggi secondari siano stati raccontati in modo onesto ma talvolta superficiale, e si prende atto di come queste storie non siano comunque sempre storie liete, esattamente come nella vita reale.
A cavallo fra sogno e realtà, s’assapora un mix fra romanticismo e quotidianità tradotto in una poesia visiva vellutata, lenta quanto basta - tranne in alcuni archi narrativi troppo rallentati -, rea una trama incentrata sui legami che pian piano Sawako instaura con le persone che la circondano, costruendo letteralmente un nuovo mondo di esperienze intorno a sé.
Leggero, forse troppo, talvolta privo di incisività, quando sarebbe servito calcare più la mano per far risaltare determinate emozioni o situazioni. Tirando le somme, coi difetti che emergono si scende tranquillamente a patti per una valutazione generale più che sufficiente.
Un titolo discreto adatto agli amanti del genere, che tuttavia non conclude nulla: si prosegue nella second season!

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Una bugia fa in tempo a viaggiare mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe. Non è importante confermare se la citazione sia di Mark Twain o di Jonathan Swift o, addirittura, di qualcun altro. Quello che conta è che, lo sappiamo tutti, sulla bocca del popolo le notizie viaggiano alla velocità della luce, in un processo di progressiva distorsione da fare invidia ai risultati dell’antico gioco del telefono senza fili, che chi ha diversi decenni sulle spalle probabilmente conosce molto bene. Se tale processo viene voluto, appoggiato e favorito dal potere in carica, i risultati per la verità non possono che essere disastrosi.

“Wolfwalkers - Il popolo dei lupi” di Tomm Moore e Ross Stewart giunge a noi come compimento ideale di una trilogia dal sapore irlandese, dopo “The Secret of Kells” e “La canzone del mare”.

Nel 1650 a Kilkenny, in Irlanda, gli Inglesi stanno cercando di ampliare possedimenti e sfere di influenza, ovviamente a scapito degli Irlandesi autoctoni. Sono capitanati da Lord Protector, che un po’ ricorda l’Oliver Cromwell realmente vissuto e che, storicamente, guidò gli inglesi nella loro conquista e assimilazione delle popolazioni irlandesi. Come si assimila e sottomette un popolo? Cancellandone le radici e le tradizioni. Così, in parallelo con quanto storicamente accaduto, in nome di un Dio intransigente, quel Dio la cui presunta volontà viene usata da terzi per commettere qualsiasi atrocità, il nostro tiranno decide di abbattere la foresta alle porte della città e, soprattutto, di uccidere tutti i lupi che, a suo dire, minacciano la vita della altrimenti tranquilla cittadina. Sono feroci, terribili, devono essere sterminati! Peccato che, almeno nell’universo piuttosto edulcorato dei cartoni animati, i ferocissimi lupi non li vediamo mai uccidere niente e nessuno. Ringhiano, ululano, corrono, digrignano i denti, e al massimo ti graffiano con gli artigli o mordono per difesa.

La grande truffa dell’informazione fornita al popolo ignorante dell’epoca vuole che qualsiasi minaccia alle aspirazioni di conquista di qualcuno diventi automaticamente un inganno del demonio. E, quando c’è di mezzo il demonio, nulla è troppo crudele o feroce per batterlo, qualsiasi azione, anche la più immonda, è giustificata dal fatto che il nemico è un accolito di Satana. Ma il branco dei lupi che vive nel bosco, improvvisamente assediato su tutti i fronti, cacciato, minacciato, cosa dovrebbe fare? Più che feroce, è confuso e sbandato!

I nomi sono emblematici: c’è un Lord Protector - da cui in realtà ci si dovrebbe proteggere - e un certo Goodfellowe, il cacciatore inglese ispirato ad un uomo realmente esistito, che viene incaricato dello sterminio di tutti i lupi. L’intransigenza e la follia del governante traspaiono già dai suoi ordini assurdi: Lord Protector vorrebbe la sparizione di tutti i lupi di una foresta non in due anni, e nemmeno in due mesi o settimane... no: egli concede ben due giorni, per questo immane compito!

Ma l’eroina della nostra storia è la figlia di detto cacciatore, Robyn, inizialmente la solita ragazzina/bambina ribelle che pensa di sapere e poter fare tutto, con l’intransigenza dei giovani che ritengono di essere i soli ad avere le risposte a tutti i problemi del mondo. È venuta in Irlanda col padre, perché la madre è morta tempo prima. A questa ragazzina il mondo riservato alle donne del suo tempo, rigorosamente circoscritto alle faccende domestiche, sta stretto. Giustamente! E se un po’ ci irrita la sua supponenza, d’altro canto come donna non posso che plaudire alla sua ribellione. Una femminista antesignana? Ma già al minuto 10 siamo pronti a prenderla a schiaffi. A me, almeno, prudevano le mani: è il prototipo della piccola idiota che si crede onnipotente e onnisciente, si caccia nei guai e costringe gli altri a mettersi in pericolo per andarla a salvare... un po’ come certi surfisti cretini che escono con la tempesta. E magari a causa loro qualcuno ci rimette la pelle o le piume.

Inizialmente Robyn, aspirante cacciatrice sulle orme del padre, è decisa ad aiutarlo a sterminare i lupi, nonostante il diktat di Lord Protector che vuole tutte le donne con lo strofinaccio in mano o dietro i fornelli. Ma, ben presto, l’incontro con Mebh, una misteriosa e selvaggia ragazzina, sarà il seme da cui germoglieranno cambiamenti di pensiero, di fronte e di vita. La piccola Mebh, smaliziata e selvatica, nasconde un grande segreto: è una Wolfwalker, una che, anche se non balla, coi lupi ci cammina. Le sue capacità possono essere trasmesse ad altri e saranno causa di gran disturbo al meccanismo solo apparentemente ben oliato di Lord Protector.

Mebh sta cercando la sua mamma scomparsa e l’aiuto di Robyn sarà cruciale. Sullo sfondo della lotta all’ultimo sangue tra il popolo dei lupi e quello dei cittadini, si svilupperà l’amicizia sbocciata nel punto di contatto fra i due mondi: le due ragazzine inizialmente di opposte fazioni ci insegneranno come due realtà completamente diverse possano convivere armoniosamente. È un film di ragazze, e per questo a me ancor più gradito.

I temi trattati sono importanti: la paura e il rifiuto del diverso, la colonizzazione, la distruzione, lo sterminio. Ma, dall’altra parte, stanno la forza dell’amicizia, della comprensione, dell’apertura a concetti nuovi e a nuovi stili di vita. Quando guardi la vita dal punto di vista dei lupi, ti rendi conto che forse - forse! - ti hanno propinato un sacco di fandonie. Il tutto è raccontato con una mano gentile che lascia veramente incantati. Trattandosi di un racconto per giovanissimi - ma anche per non più giovani - l’assenza di perdite fra i “buoni” e il finale felice sono praticamente d’obbligo, anche se il quasi indispensabile romanzetto di fine pellicola poteva esserci risparmiato. Evidentemente si voleva far passare il messaggio dell’importanza della famiglia, e quale miglior integrazione di questa?

Ma tutto ciò non può ovviamente prescindere dal comparto grafico e audio. Se i temi trattati sono importanti, lo stile grafico non è da meno. Dimenticatevi i disegni in stile orientale. Qui siamo in piena favola: la grafica solo apparentemente ricorda, almeno in principio, lo stile Disney di antica memoria, o di altri cartoni molto vecchi, con rimandi a “Robin Hood”, probabilmente perché anglosassone. Molto presto, ci si rende conto che lo stile è personalissimo e interessante. In rigoroso 2D fatto a mano, i disegni hanno un’aria antica e apparentemente infantile ma, dopo pochi minuti di acclimatazione, molto gradevole. Soprattutto, i fondali acquarellati, nei vari toni di marrone e verde utilizzati nel bosco, contribuiscono con la loro esplosione di colori a dare l’idea di mondi fatati due passi al di là del nostro cancello. Per contro, gli ambienti cittadini risultano volutamente più spenti e grigi, rigidi. E, nei momenti di maggiore paura e tensione, i colori passano ai toni del blu, contribuendo a veicolare le sensazioni.

La prospettiva, questa sconosciuta! Si è scelto di disegnare le costruzioni in maniera bidimensionale, senza ricorrere alle leggi prospettiche. All’interno di un edificio, ho visto persone salire delle scale come le avrei disegnate io alle elementari (non che ora le disegnerei meglio, anzi). L’effetto è incredibilmente interessante e bizzarro, davvero peculiare.

È soprattutto emblematica la contrapposizione fra il mondo della città, racchiusa in un rettangolo di linee dritte, e la natura, coi suoi tratti più gentili e tondeggianti. Una, chiusa e intransigente, costretta dalle sue regole imposte e assurde. L’altra, più aperta alle possibilità e alla vita secondo le regole mutevoli dell’ambiente. La stessa Mebh è dotata di occhi verdi e di una gran criniera tonda di capelli rossi che la identificano nettamente come irlandese, una di quegli Irlandesi che i colonizzatori inglesi vogliono in ogni modo soggiogare. Storicamente, il lupo è il simbolo spirituale del Paese, e il suo sterminio e la distruzione delle foreste contribuirono non poco a cambiare la percezione di sé degli Irlandesi. Sono storie che non si dovrebbe smettere mai di raccontare, specie perché purtroppo sono tristemente attuali.

E le musiche? Il commento musicale di Bruno Coulais è ben degno di questo piccolo gioiello. La colonna sonora in sé è splendida, l’opening è molto bella e suggestiva, ma il momento forse culminante di tutto il film è la canzone “Running With The Wolves” di Aurora, che accompagna le prime esperienze di Robyn sotto forma di lupo, nella sua prima corsa sotto la luna. Sono minuti di intenso pathos, così come, finalmente, la riunione di Mebh con la sua mamma, una scena di incredibile poesia.

Riassumendo, “Wolfwalkers - Il popolo dei lupi” è un’opera veramente ben riuscita a cui, forse, si può muovere il solo appunto di essere un po’ troppo “buonista”: i conflitti vengono risolti fin troppo facilmente e, per così dire, tutti i santi finiscono in gloria. Ma si tratta, se vogliamo, praticamente di un obbligo, in un prodotto del genere. Promosso abbondantemente e caldamente consigliato a tutti, con la sola accortezza di accompagnare eventualmente i bambini più piccoli, che in qualche scena potrebbero spaventarsi. Ma, questo, andrebbe fatto sempre.

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“Quando c’era Marnie” è un lungometraggio del 2014, uno dei tanti che porta il nome dell’ormai celeberrimo Studio Ghibli. Tratto dal soggetto originale di Joan Gale Robinson e affidato alla regia di Hiromasa Yonebayashi, curatore dei disegni chiave di molti capolavori Ghibli, tra i quali “La città Incantata” e “Il Castello Errante di Howl”. Questo film era a me sconosciuto fino a qualche tempo fa e tale sarebbe rimasto, se non fossi capitato, per puro caso, su un video YouTube di Dario Moccia, celebre divulgatore della cultura nipponica in Italia e grande appassionato di Ghibli, come il sottoscritto. Le parole tanto lusinghiere da lui spese per un film a me ignoto hanno stuzzicato la mia curiosità e invogliato ad approcciarmi a un’opera nuova, che ero certo mi sarebbe piaciuta.

La protagonista della storia è Anna, una ragazzina di soli dodici anni, rimasta orfana di entrambi i suoi genitori e che, dopo una lunga serie di dispute familiari, è finita a vivere con gli zii, che se ne prendono cura tanto amorevolmente. Anna, un tempo, almeno questo è ciò che si racconta all’inizio dell’opera, era una ragazzina solare e vivace, che sembrava andare d’accordo con tutti e si godeva gli anni spensierati della fanciullezza. All’inizio della storia, però, la ragazza che si pone dinanzi ai nostri occhi appare completamente diversa: timida, solitaria e scontrosa con chi cerca di aiutarla. Qualcosa deve esserle capitato e la mamma adottiva non si dà tregua, nel tentativo vano di strapparle almeno un sorriso, con la speranza che la gioia di un tempo possa riaffiorare sul suo volto. Tuttavia, un giorno, Anna viene colpita da uno dei suoi soliti attacchi d’asma e, su consiglio del dottore, se ne va a stare per qualche settimana dagli zii, in una tranquilla cittadina vicino al mare, in Hokkaido. Qui, Anna ha la possibilità di coltivare la sua passione per il disegno e visitare posti a lei sconosciuti, che sembrano essere usciti da una fiaba. Tra questi, una casa all’apparenza abbandonata e in cui vive una ragazza, su per giù della sua stessa età, Marnie. Quest’ultima, non si fa fatica a capirlo, nasconde un segreto, che, in un modo o in un altro, riuscirà a venire a galla.

“Quando c’era Marnie” è un film che ho apprezzato particolarmente, cosa che potrebbe apparire ovvia, data la mia familiarità con lo Studio Ghibli. Il film segue un andamento lento, tipico delle opere più profonde e psicologiche. All’introduzione, necessaria per comprendere il contesto e conoscere i personaggi, segue una parte centrale corposa, sulla quale mi sento di esprimere un parere contrastante con sé stesso. Bella e, con il senno di poi, fondamentale per il finale del film, ma a tratti troppo lenta e soprattutto vaga. Lo si capisce subito che qualcosa non va, che in questa storia c’è un mistero da svelare, ma cosa? Questo rappresenta pregio e difetto, contemporaneamente. Ti tiene sulle spine e ti porta a voler ardentemente sapere come andrà a finire questa storia, ma allo stesso tempo rischia di annoiare, e non dubito sia stato così per gli spettatori poco avvezzi a questo genere di opere. Nonostante ciò, come dicevo poc’anzi, tutto il filone mezzano serve per condurci, mano nella mano, al tanto agognato finale, che rappresenta indubbiamente il momento più alto del film. Tutti i nodi vengono al pettine, le nuvole si diradano definitivamente e quella storia che fino a un attimo prima avresti definito inconcludente si trasforma in una piccola perla. Emozionante e dolce, riesce a toccare le corde giuste per commuovere lo spettatore, e lo fa con una storia, a mio parere, tutt’altro che banale, in cui il passato e il presente si intrecciano, diventando un tutt’uno. Il finale è il vero carico da novanta, che assume un’aura mistica, grazie all’accompagnamento della chitarra e della voce stupenda di Priscilla Ahn e la sua “Fine On The Outside”. Le due protagoniste così diverse, ma allo stesso tempo così simili, sembrano completarsi perfettamente, come le due metà della mela di Platone. Diventano necessarie l’una per l’altra e il loro sodalizio, tanto puro e sincero, stringe il cuore dello spettatore in una morsa. Molto ben scritti anche i personaggi di contorno, specialmente gli zii di Hokkaido, la cui aria familiare ispira una genuina simpatia nei loro confronti. Semplice, ma efficace il character design di Masashi Andō, ma d’altronde stiamo parlando di un altro fenomeno, collaboratore storico di Miyazaki e Takahata. Stupendi i fondali, raffiguranti perlopiù il mare e la campagna. Il verde e il blu dominano le scene del film e riescono a catturare l’attenzione dello spettatore, che si sentirà completamente immerso all’interno di questo paesaggio bucolico, così vicino, ma allo stesso tempo così distante.

Insomma, come c’era da aspettarsi, mi sono ritrovato dinanzi all’ennesimo ottimo lavoro dello Studio Ghibli, che riesce ad ammodernare un romanzo del 1967 e a farlo proprio. La deduzione è una sola e scioccante: Miyazaki e Takahata sono due fuoriclasse, ma la baracca, nel corso degli anni, ha funzionato anche senza di loro, e questo, a mio modesto parere, è un grandissimo risultato.