L’industria cinematografica americana per eccellenza, cioè Hollywood, ha sempre adorato, per la sua produzione di film, la classificazione in generi codificati, con relativi stilemi e luoghi preconfezionati. Tradizione vuole che a un capostipite, o a un innovatore di un determinato genere, seguano miriadi di epigoni che non sfruttano la stessa scia dei loro prototipi, ma che addirittura ricalcano ogni singola idea dei prodotti che li hanno preceduti. O al massimo si concedono il lusso del collage.
A quanto pare Stan Lee, creatore originale di Heroman, è del tutto d’accordo con tale modus operandi, e i risultati della serie, sconfortanti su quasi tutti gli aspetti, ne sono la manifestazione.


La storia è il più trito dei canovacci: Joey, un ragazzo un po’ sfigato, debole e dalla situazione familiare ed economica non proprio rosea, acquisisce un potere che gli offre l’opportunità di un riscatto dalla sua condizione e allo stesso tempo gli consegna la responsabilità della protezione di ciò a cui tiene. Il potere è rappresentato da un giocattolo rotto, un robot, raccattato per strada, che Joey decide di chiamare Heroman. Questo, dopo essere stato riparato dal ragazzo, viene colpito da un fulmine e, non si sa come, diventa in grado di evolversi in un “pupazzone” di tre metri capace di demolire case, auto e qualsiasi altro ostacolo gli si pari di fronte. Inoltre, pure il telecomando con il quale il giocattolo veniva azionato subisce una trasformazione poiché, una volta attivato, diventa una specie di controller a involucro che circonda il braccio di Joey. La nuova “arma-pupazzone” si rivela guarda caso utilissima, anzi è la sola cosa utile, contro un gruppo di alieni che giungono sulla Terra, come “Indipendece Day” insegna. A ciò si possono poi aggiungere tutti gli altri personaggi dell’anime, uno più macchietta dell’altro, e degli sviluppi di trama – almeno relativi ai primi due episodi – che definire prevedibili è un eufemismo.


Il lato tecnico è sufficiente. La cura maggiore, come da programma, è stata riservata alla trasformazione di Heroman e del controller da braccio, la quale è di sicuro effetto, tanto è ricca di preziosismi visivi come fasci luminosi, scariche elettriche, lampi e quant’altro; tuttavia la sequenza, già in queste prime due puntate, viene riciclata più di una volta, la qual cosa non è di certo apprezzabile. Come non è apprezzabile un flash back già al secondo episodio, che è del tutto inutile e non promette granché bene per il proseguo.
I disegni e le animazioni invece appaiono discreti e nulla più. I primi sono piuttosto costanti, ma le loro linee non sono incisive, particolari o brillanti, e di certo il character design (Shigeto Koyama), alquanto insipido e anche qui per nulla originale – stessi cerottini nasali del chara di Eden of the East, tanto per dirne una –, non aiuta a conferire carisma o spessore alla figurazione delle sagome. Le seconde svolgono il loro compito in maniera onesta, senza picchi, esclusa la prima scena di vera azione di cui si rende protagonista Heroman, la quale sembra comunque un caso isolato in mezzo ai movimenti “routinari” e mai ricchi di gestualità compiuti dai personaggi.


Lo Studio Bones e la P.A. Works dovrebbero inoltre risarcire, se non chi ha azzardato la visione dell’inizio della serie, almeno i proprietari del marchio Michelin, perché, come se non bastassero gli stereotipi di plot, intreccio e personaggi già elencati, a loro si aggiunge anche la scopiazzatura, versione stars and stripes, dell’omino – qui omone – della casa di pneumatici francese. Difatti il design di Heroman sa molto di già visto e non pare per nulla azzeccato né accattivante, anzi le sue forme eccessivamente massicce lo fanno risultare disarmonico e pesante, e la sua colorazione candida spezzata da sprazzi rosso blu è solo finalizzata a un palese richiamo patriottico statunitense.
Stesso problema affligge gli scenari, anch’essi canonici e visti e rivisti in più di una serie di telefilm di ambientazione californiana o similare. Una nota positiva però si può dare alla solarità dei colori, tutti limpidissimi, molto luminosi e ben calibrati al fine della resa atmosferica generale, sia quella diurna, che è tersa all’inverosimile, sia quella notturna, dalle tinte più cupe seppure sempre vivide.


Dal canto suo la regia di Hitoshi Nanba non scandisce bene i ritmi, anzi a dirla tutta non dà proprio alcun ritmo: le azioni degli episodi scorrono sempre alla stessa velocità, dettate da tempi comuni e da inquadrature e gestioni delle scene lineari ed elementari. Non sembra inoltre esserci stata un ricerca dettagliata riguardante lo storyboard, anch’esso modesto nella sua semplicità, tanto da dare la sensazione di essere stato fatto badando, più che a uno studio costruttivo, al minimo sindacale per portare a casa la paga. Salvabili sul versante sonoro le musiche, che di certo non sono nulla d’eccezionale, ma comunque non stonano nel contesto della serie. Fastidiose invece sono l’opening e l’ending, le quali non vantano né brani degni di nota né immagini particolarmente gradevoli, e risultano quindi poco riuscite anche nel loro mix audio video.


In definitiva un primo, parziale, giudizio su Heroman non può che essere una bocciatura sonora. Infatti pure sul piano della spettacolarità l’operazione è fallita, perché la povertà del comparto scenico non permette di allestire sequenze di forte impatto quanto meno visivo, e l’impressione finale che dà il prodotto è quella di una produzione fantascientifica/supereroistica di serie B, o anche meno, realizzata con scarsi mezzi e con poca voglia di fare e innovare, pescando a piene mani da un immaginario già abbondantemente abusato e che ha stufato da parecchio tempo.