Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.

Oggi appuntamento libero, con l'anime Princess Tutu Food Wars! Shokugeki no Soma e il manga L'uomo che cammina.

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.


Per saperne di più continuate a leggere.


9.0/10
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La storia di un principe che ha sacrificato il suo cuore combattendo contro il suo mortale nemico, e la storia di una principessa che desidera rendere il cuore al principe. Un preambolo molto fiabesco per quest'opera, “Princess Tutu”, che nei fatti riesce, grazie alla sua splendida struttura narrativa e ai suoi eccelsi personaggi, a trascendere il concetto di fiaba stessa per portarsi a un livello superiore.
Quindi, per nulla al mondo dovreste farvi ingannare dal disegno a rimandi infantili, dai toni leggeri delle battute iniziali e dall'uso di elementi come il balletto nello sfidare i nemici: “Princess Tutu” è un'opera tanto semplice nelle basi, ovvero l'elemento fiabesco, quanto complesso nella costruzione, e richiede un occhio attento per cogliere le numerose sfumature. Ma credetemi: l'attenzione che spenderete verrà ripagata con una splendida storia.

Ma andiamo con ordine, iniziando dalla situazione iniziale della storia: la protagonista di quest'opera, nonché l'eroina, è Ahiru, una goffa ragazzina che frequenta il corso di ballo della scuola d'arte di Kinkan Town, cittadina ove è ambientata tutta l'opera. Ella tuttavia ha un segreto: ben presto scopre, grazie a un sogno, di essere in realtà una papera che aveva desiderato poter riportare il sorriso sul volto del principe. Il suo desidero tuttavia non resta inascoltato, in quanto Dosselmeyer, un famosissimo scrittore, le dona un ciondolo in grado di renderla umana e avvicinare il principe con maggior facilità. Tale ciondolo inoltre le conferisce un ulteriore potere: oltre alla normale forma umana di Ahiru, ella può anche trasformarsi in “Princess Tutu”, principessa dotata di eccelse capacità di ballo e incaricata di raccogliere i frammenti perduti del cuore del principe e renderglieli.
Principe che, ovviamente, è presente nella città e nell'accademia sotto le spoglie di un ragazzo di nome Mytho, tanto abile nel ballo quanto inespressivo nei sentimenti (a causa della mancanza del cuore). Fondamentalmente la storia proseguirà pari pari con il recupero dei frammenti del cuore del principe, e tal compito è il motore che fa proseguire la vicenda.

Sin dalla sinossi dell'opera è facilmente constatabile quanto il personaggio di Ahiru sia strutturalmente complesso. L'artificio della trasformazione è comune nelle fiabe, ma qui il livello è addirittura duplice: da un lato vi è un essere inumano che diventa umano per avvicinarsi a un principe (proprio come la Sirenetta di Andersen, dove la similitudine prosegue anche nella figura che fornisce la possibilità di diventare umani), e dall'altro lato vi è la ragazza che diviene principessa (come per esempio Cenerentola).
Quindi, se da un lato Ahiru è caratterialmente una ragazza semplice (ma non banale) e incarna i valori di amicizia, umiltà e disponibilità verso il prossimo, in ambito “ruolistico” essa è il personaggio di gran lunga più complesso dell'opera (e probabilmente uno dei più complessi dell'animazione giapponese). Come contraltare troviamo Mytho, poco più di una bambola nelle battute iniziali e personaggio estremamente importante e attivo in quelle avanzate (specialmente dopo la metà dell'opera, in seguito a un certo avvenimento). Vi è da dire che il settore personaggi è probabilmente l'elemento più riuscito dell'intera opera e, nonostante i due precedentemente citati siano coloro che innescano la storia, gli altri non sono certamente da meno. Proprio come Ahiru e Mytho, a molti di essi può essere attribuito un ruolo tipico delle fiabe, ovviamente reso più complesso proprio come negli altri casi. Fakir, fedele e a tratti ambiguo amico di Mytho nonché compagno del corso ballo, si rivelerà ben presto come “cavaliere” dell'opera, ma la sua evoluzione nella storia sarà estremamente peculiare e difficile da prevedere per lo spettatore. Rue, ragazza che frequenta anch'essa il corso di ballo e si definisce la compagna di Mytho, assume ben presto una connotazione antagonistica simile a quella della strega (unita in modo interessante alla figura della “principessa”, e infatti ella è riconducibile al “Cigno Nero” de “Il Lago dei Cigni”). Nemmeno la sua evoluzione ha tratti convenzionali, anzi: probabilmente la sua storia è, dal punto di vista narrativo, una delle più complesse e maggiormente ammantate dal mistero, tanto che le informazioni su di essa verranno snocciolate durante tutta la narrazione fino al finale.
Ahiru, Mytho, Fakir e Rue sono sicuramente i personaggi principali della storia, e possiedono una caratterizzazione eccelsa, eppure anche i secondari sono trattati in modo più che dignitoso. L'insegnante di ballo “Neko-Sensei” (professor gatto) incarna sicuramente il riuscitissimo elemento comico dell'opera; Lilie e Pike, le due amiche di Ahiru, oltre a partecipare alla parte comica/commedia, fungono da supporto alle disavventure quotidiane dell'eroina e sono partecipi delle parti più rilassate dell'anime; Edel, misteriosa suonatrice ambulante che nelle prime battute funge da supporto a Ahiru/Princess Tutu, è protagonista anch'essa di importanti rivelazioni e un'interessante evoluzione. E infine il Corvo, ovvero il crudele antagonista della storia nonché nemico giurato del principe, che fa da contraltare a quest'ultimo come fulcro narrativo.
Vi sono inoltre numerosi personaggi episodici che, sebbene meno caratterizzati di altri per ovvi motivi di tempo, possiedono comunque una buona funzionalità all'interno della storia.

Nel trattare i personaggi ne ho volutamente tenuto fuori uno, Dosselmeyer, al fine di introdurre il secondo elemento decisamente riuscito di quest'opera. Ebbene, Dosselmeyer non è altri che il narratore di tutta questa storia, nonché personaggio della storia stessa (è lui a dare il ciondolo alla papera e a introdurre Princess Tutu nell'intreccio). Egli aggiunge un nuovo strato narrativo alla storia, permettendo alla semplice narrazione di divenire una vera e propria “metanarrazione”.
Infatti “Princess Tutu” non è la storia di un principe senza il cuore e di una principessa che tenta di renderglielo, ma è la storia di una storia, e tale possibilità è data dall'aver reso il narratore un personaggio reale e attivo: i protagonisti non dovranno solo assolvere al loro compito, ma dovranno anche fare i conti col fatto di essere i personaggi della storia di qualcun altro.
Dal punto di vista formale/visivo, la struttura dell'opera è mista, con puntate maggiormente autoconclusive alternate a momenti di maggior continuità narrativa. Ma, se badiamo al discorso precedentemente fatto sulla metanarrazione, l'opera narra la narrazione degli elementi precedentemente enumerati, con un narratore che guida i suoi personaggi e i personaggi che influenzano la storia stessa e il narratore, tanto da portare a una vera e propria decostruzione dell'elemento di stesura della storia. Un'idea sicuramente brillante.
Inoltre, la presenza di una storia nella storia fornisce una progressiva ambiguità sul livello di realtà dei diversi elementi (fanno parte della storia o della storia nella storia?), dando vita a un panorama a tratti onirico, merito degli elementi fiabeschi, e a tratti angosciante (con qualche punta di amaro), per via della presenza di un deus ex machina che agisce sulle sorti di altri e tenta di imbrigliarle al suo volere.

Per quanto riguarda la tecnica, l'opera è diretta molto bene dal regista Jun'ichi Sato, già famoso per aver diretto le prime stagioni di “Sailor Moon” (e che ritroverà diversi colleghi di tale opera a lavorare su “Princess Tutu”). Sicuramente il regista si trova a sua agio nel suo elemento, in quanto l'opera presenta una forte componente “maho shojo”, e il ritmo risulta sempre ottimo e mai noioso in qualsiasi sua parte. Davvero azzeccata l'idea di inserire un frammento narrato a mo' di fiaba come prologo a ogni episodio, fattore che aumenta ancor di più il fattore “fiabesco” presente nell'opera anche grazie agli splendidi disegni di fondo, che sembrano effettivamente usciti da un libro di fiabe e racconti.
Riguardo al comparto video, le animazioni sono di altissimo livello e sempre fluide, e stile grafico e character design si sposano benissimo con le velleità fiabesche dell'opera. Questi potrebbero tuttavia ingannare il possibile spettatore, facendogli erroneamente ritenere di essere di fronte a un'opera puerile e/o banale: sarebbe un gravissimo errore, in quanto quest'opera non è mai banale. E, se sembra diventarlo, dietro l'angolo c'è sempre un avvenimento capace di sorprendere lo spettatore.
Questo è merito del sapiente lavoro fatto nella pianificazione dell'opera, nonché delle eccellenti fonti.
E ora il comparto audio, altra componente estremamente solida. Visto che si tratta di un'opera fortemente incentrata sul balletto, è facilmente preventivabile una forte componente di musica classica. E infatti “Princess Tutu” espone un vastissimo e splendido repertorio classico, chiamando in causa compositori del calibro di Čajkovskij, Mussorgsky, Debussy e molti altri.
Particolarmente importante è Čajkovskij, colui che ha musicato il già citato balletto “Il Lago dei Cigni”, del quale troviamo numerosi riferimenti, in quanto è una delle fonti essenziali di ispirazione di “Princess Tutu” (pur uniti a elementi della fiaba “Il brutto Anatroccolo” di Andersen): infatti le due principesse presenti nella storia non sono altro che il Cigno Bianco e il Cigno Nero, con l'antagonista Corvo che rappresenta il malvagio Rothbart.

L'ho già espresso, ma desidero ripeterlo in questa conclusione: “Princess Tutu” è un'opera decisamente complessa, e necessita di un giusto grado di attenzione per comprenderne appieno la struttura, la complessità dei personaggi e gli innumerevoli riferimenti insiti in essa. Quindi, nonostante l'indubbia assenza di “pesantezza” in sé, è assolutamente sconsigliata come visione leggera (sarebbe un vero spreco), ma è decisamente consigliata a coloro che cercano qualcosa di memorabile e che amano la buona animazione. Quest'anime (datato 2002) rientra di diritto nell'olimpo della prolifica produzione dei primi anni 2000, fortemente imparentata (e continuativa, almeno nella prima metà del decennio) alla grandiosa produzione degli anni novanta.

Voto: 9 +



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Difficile da descrivere appieno, ciò che questo manga trasmette.
Jiro Taniguchi si tuffa di petto nel quotidiano di qualunque persona a questo mondo che ami fare delle passeggiate, e decide di privarsi di più d'un elemento fondamentale del fumetto per farlo: la trama, o più che altro la narrazione, e i dialoghi.
Questi elementi sono presenti in forma men che minimale, perché non è certo a narrare verbalmente una qualche vicenda che punta L'Uomo che Cammina, ma a comunicare sottilmente col lettore, realizzando mille piccoli affreschi su mille piccoli dettagli che s'incontrano ogni giorno se si è dei fervidi camminatori.

Per mezzo di un tratto adulto, realistico ed incredibilmente dettagliato l'autore, capitolo dopo capitolo, mette in scena tanti pezzi di puzzle di vita comune di un uomo comune, status necessario per poter raggiungere quante più persone possibile, e lo fa, come detto, nel silenzio di dialoghi assenti, perché un camminatore non parla, ma ascolta le sinfonie sconnesse del mondo, fatte di cinguettii aggraziati e di ruggiti di motore, di frasi e discorsi impastati tra loro fino ad essere indistinguibili e di sussurri del vento tra le fronde degli alberi.
O, nei giorni dell'era moderna, al massimo ascolta la musica che, sì, lo taglia fuori dal mondo, ma al contempo è comunque qualcosa d'interiore, perché la musica la sente solo lui e rispecchia i suoi gusti e di conseguenza la sua anima, parla solo a lui come la voce del cuore e dei pensieri.

Silenziosamente, il manga ci lancerà continui segnali sotto forma di ricche vignette, accenni alle esperienze comuni ad ogni camminatore di qualunque età: dal rapporto col cielo, malandrino messaggero meteorologico mai completamente affidabile, necessariamente oggetto di rapide occhiate prima d'ogni spedizione, ai fugaci incontri con gli inevitabili gruppetti, più o meno folti, di gatti ora sospettosi, ora terrorizzati ora più affettuosi, al piacere della "scoperta" nata da un azzardo, un cambio di "rotta" che tinge un percorso abituale di colori completamente nuovi semplicemente svoltando un po' prima, alle interazioni con le altre persone che con noi condividono strade, stradine e sentieri, sia che si tratti di qualcuno bisognoso di un'indicazione, sia che si tratti di un "rivale di camminata" più o meno involontario, che ci sorpassa e viene da noi sorpassato più volte (quante volte capita d'incrociare ripetutamente una persona, al punto da riconoscerla al primo sguardo all'ennesimo sorpasso?), al rapporto con la natura e i suoi agenti, come il profumo di fiori e alberi, gli animali selvatici che in base al livello di "rarità" causano in noi sempre maggiori sussulti quando vengono avvistati e riconosciuti durante una loro "apparizione a sorpresa" sul nostro percorso, o come lo stesso terreno, ora ricoperto di morbide foglie ora seriosamente color grigio scuro del cemento, ora affidabile ora facilmente "inciampevole".
C'è spazio anche per il rapporto con la temperatura esterna, che passa dall'opprimente calura estiva che rende ogni percorso una difficile annaspata nell'aria al gelido inverno che pungola la pelle con innocui spilli.

L'Uomo che Cammina è, agli occhi di un camminatore, come un album dei ricordi, ma non quelli "miliari" della nostra esistenza, i ricordi silenziosi di tutti i giorni, che passano e se ne vanno come pioggia nel mare della nostra vita, non fotografati ma tratteggiati con dettaglio maniacale dalla sapiente mano dell'autore, rendendo tutto questo forse ancor più spettacolare e intimo, perché anche se non abbiamo visitato mai i luoghi descritti dal volume, anche se non siamo nemmeno mai stati nella stessa nazione del protagonista, siamo lì, siamo noi, questa e quell'altra cosa sono successe a noi così come accadono a lui, e tutto ciò è diretto ed efficace anche e soprattutto grazie alle capacità di regia e disegno del maestro.
Qui si trova il suo più grande pregio, quello d'essere incredibilmente "azzeccato" e comprensivo a livello umano, di saper tingere perfettamente lo straordinario ordinario di un uomo che ama fare lunghe passeggiate, ma questo è, purtroppo, anche il suo più grande limite.
L'Uomo che Cammina sussurra all'orecchio del lettore "camminatore" frasi che conosce bene, e che lo rendono felice per essere "compreso" o semplicemente perché gli viene comunicato qualcosa a cui è avvezzo e che ama, ma allo stesso tempo, ad un lettore non avvezzo a lunghe camminate o che non abbia mai fatto particolarmente caso a quel che succede intorno a lui sembrerà solo una lunga sequela di vignette ben disegnate nel silenzio più totale, che possono trasmettergli poco o nulla, a parte la piacevolezza estetica, e questo non è e non può essere considerato un limite del lettore, ma dell'opera.
Limite inevitabile e in un certo senso voluto, perché sbilanciandosi troppo nella comunicazione empatica con un certo tipo di pubblico ci si gioca automaticamente tutti gli altri, ma evidentemente L'Uomo che Cammina vuole essere così, tacito complice di momenti semplici e dorati della vita di tutti i giorni di chi ama fare lunghe passeggiate all'aperto, ha un target preciso ed un obiettivo preciso, e centra entrambi in pieno, risultando però insapore a chiunque non faccia parte della cerchia a cui ha voluto parlare Taniguchi.

Rimane il fatto che L'Uomo che Cammina è un'opera sublime per chi può comprenderla (non perché siano necessari un certo gusto, un certo livello di conoscenza o cultura o una certa esperienza, ma perché lui per primo si pone dei limiti rendendosi comprensibile appieno solo ad una certa categoria di persone), vellutata come il vento primaverile e calda come il tepore dei primi cappotti appena l'inverno comincia a far capolino dietro le foglie gialle.
Non per tutti e non per élitismo, ma memorabile per chi può comprendere quello che l'autore comunica in silenzio, con le sue splendide vignette.



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Le sfide culinarie sono di moda, ci sono una quantità di format televisivi impressionanti sull’argomento: perché non crearne uno che le trasla in ambito anime e manga, e proporle come fumetto e poi serie TV? Il ragionamento fila e trovo sia ricco di potenzialità, ma riesce “Food Wars” a sfruttarle? Per quel che mi riguarda la risposta è no, vediamo insieme il motivo.

L’anime è tratto da un manga disegnato da Shun Saeki, con il supporto per la storia di Yuuto Tsukuda. Non conosco l’opera originale, magari il manga risulta molto più sobrio e pacato, tuttavia la serie TV sembra puntare in modo eccessivo su fanservice ed ecchi, elementi che non sono legati solo ai personaggi femminili: si tratta di un fanservice trasversale, come vedremo. Per rendere l’idea, dopo ogni assaggio ci sono due possibili reazioni: un orgasmo, che avrà una rappresentazione grafica adeguata, oppure un tentacle rape, se il cibo fa schifo. L’impatto iniziale con la serie è piuttosto duro: il primo episodio è forse il peggiore come ecchi e fanservice, per cui, se non vi darà fastidio, per voi la serie sarà in discesa e probabilmente vi piacerà. Urletti di orgasmo dopo ogni assaggio a parte, che fortunatamente vanno scemando e ci si abitua un po’, anche nella scelta dei personaggi si preferisce una caratterizzazione fisica e stereotipata, piuttosto di fare un lavoro di caratterizzazione psicologica di qualche tipo. A partire dal protagonista, un po’ tutti i personaggi sono attaccati a uno stereotipo e poco si scostano da esso. Sicuramente si vuole dare un tocco ironico alle situazioni, ma fatico ad apprezzare i soliti cliché, di cui ho fatto indigestione in sin troppe serie recenti, e quindi fatico a digerire certe forzature, come le ragazze con l’ampio davanzale sempre messo davanti alla telecamera, il ragazzo che gira sempre nudo o la classica ragazza timida, adorabile e amata da tutti. Stesso discorso vale per la tsundere, il ragazzo gracilino e studioso, i teppisti buoni e così via.

Per quanto riguarda la trama, non va dimenticato che “Food Wars” è uno shonen e, sebbene il ring sia in questo caso una cucina, gli scontri hanno un ruolo chiave nelle vicende narrate. Se fossero resi bene, se fossero emozionanti, imprevedibili e appassionanti, gli perdonerei ogni difetto, il problema è che anche loro mi lasciano un po’ perplesso. Per esempio, non sono mai arrivato a chiedermi se Soma avrebbe vinto un duello, piuttosto le mie curiosità vertevano sul come questo sarebbe accaduto. Sempre, dall’inizio alla fine, il protagonista è il vincitore - se non effettivo perlomeno morale - di ogni scontro, senza eccezioni. Non ha una vera crescita: è ‘super figo’ all’inizio, continua ad esserlo. I personaggi intorno a lui, per quanto in gamba, si dimostrano relativamente in grado di metterlo in difficoltà. Il fatto che trovo paradossale è che viene dedicato molto spazio ad alcuni di loro per renderli interessanti e ricchi di potenziale. Quando li vedo trasformati in semplici macchiette comiche come i fratelli Aldini, mi cascano le braccia. Se il “se” lo trovo quindi assente, sfortunatamente anche il “come” l’ho trovato macchiato da una ripetitività dei duelli abbastanza fastidiosa e che può essere così esemplificata: rapida preparazione, assaggio con orgasmo, lodi, spiegazione ed esito. Di queste l’unica parte davvero interessante è la spiegazione, il resto presenta ben poche sorprese e variazioni, mentre il climax si raggiunge ovviamente nell’esito, che mai è riuscito davvero a sorprendermi.

Per ultima c’è l’esagerazione e la netta divisione tra studenti inutili, ovvero tutti i secondari, e il gruppetto di protagonisti e comprimari, gli unici in grado di cucinare: in una scala da 1 a 100, i protagonisti sono dall’80 in su, tutto il resto viaggia tra lo zero e i 30.

Ci sono fortunatamente elementi che gli permettono di stare quasi a galla, in primis vi è una bella panoramica sulla cucina giapponese e su alcuni suoi piatti, ovviamente presentati in versione rivista. Le spiegazioni, le varianti e le nozioni alimentari riescono ad essere interessanti: probabilmente vedendolo imparerete qualcosa sulla cucina. Inoltre, se è vero che i personaggi sono fortemente stereotipati, sanno anche essere alcune volte divertenti, proprio per l’eccesso di alcuni loro comportamenti. La voglia di vedere Soma scalare la vetta della scuola è inoltre una prospettiva allettante, sufficiente a farvi proseguire con una certa curiosità.

Nel complesso “Food Wars” ha potenzialità e presenta un soggetto interessante, ha il difetto di seguire troppo spesso la strada facile, perdersi nei dettagli inutili e nel fanservice, essere poco concreto e risultare ripetitivo e scontato.
Non mi sento di promuovere questa prima stagione, forse il bello deve ancora arrivare? Sinceramente non so se avrò la volontà di scoprirlo...