Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

8.0/10
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Non ho idea se Miura abbia avuto l'intenzione di scopiazzare un altro celebre manga, se abbia deciso di seguire la scia della gigantomania (gioco di parole?) di questi anni o semplicemente gli piacesse il tema. Non lo so e non posso saperlo, non essendo Miura e non avendo neppure letto il manga da cui avrebbe preso spunto.
Probabilmente il fatto che il volume, ricordiamo autoconclusivo, sia in medias res lascia un po' delusi, non potendo conoscere la biografia di Delos, non potendo sapere come e perché è stato scelto da Prome. Per il resto, Gigantomachia è giustamente autoconclusivo ed è giustamente senza un finale. Non potrebbe essere altrimenti, visto il tema. Parliamo di una situazione terrestre post-apocalittica, sebbene Miura abbia felicemente deciso di allontanarsi dalla solita antropofobia con l'uomo malvagio che per motivi egoistici distrugge la Terra con l'energia atomica sprigionata per cause belliche. Qui la Terra è semplicemente agli inizi di un nuovo ciclo, uno di quegli innumerevoli cicli dovuti ad estinzioni di massa per motivi assolutamente in linea con il cerchio ecologico. Chi è Prome? Per me ella rappresenta lo spirito vitale, quasi una sorta di Gea stessa, la quale ha (come spiega nel settimo capitolo) il compito di produrre biodiversità e fare in modo che l'uomo riesca ad inserirsi in questo tripudio di vita. Il Gigante, in tal senso, è solo un figlio della Terra, utilizzato da Prome per rinverdirla, ma utilizzato da qualcun altro per scopi imperialistici o di guadagno sociale. All'interno di questo sfondo, tanto poetico quanto di pura biologia, vi è la descrizione di una società arcaica e dedita alla sopravvivenza, quella degli uomini-coleottero, che vedono il Gigante "in stasi" semplicemente come un Dio prodigo, e un accenno ad una società più evoluta, simile a quella romana (almeno per il vestiario), dedita invece al saccheggio ed all'estensione territoriale, che in un qualche modo è riuscita a sfruttare i Giganti per il proprio tornaconto e che va in giro cercando di ottenerli tutti. A Probe, che non è immanente e non si vuole mischiare con i futili screzii inter-umani, interessa solo che i Giganti tornino alla Terra per far ricominciare il ciclo biologico. Che poi l'Impero sia la forza umana che in quel momento storico ha avuto la capacità di soggiogare i Giganti per i propri comodi a lei non interessa, non vuole punire l'imperiale per la sua ὕβϱις, non è una moralizzatrice.
È questo il bello di Gigantomachia: Miura ha adoperato la vicenda del piccolo popolo, mista alla violenza dello scontro con Ogun, per narrarci qualcosa di più grande, di molto più grande.
Questo è anche il motivo per cui il volume non ha una conclusione: il ciclo è infinito, è quasi l'eterno ritorno. Dopo che tutti i Giganti saranno tornati alla Terra e che, quindi, il patto tra Delos e Probe sarà estintosi, probabilmente ella scomparirà e ritornerà solamente dopo qualche decina di milioni di anni, per ricominciare tutto da capo.


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«Ero stata condannata a morte fin dalla nascita. O forse... era mia madre a dover essere giustiziata e ci siamo scambiate di posto.»

Uscito nel 2005, Strange Circus rappresenta forse la piena maturità artistica di un Sion Sono sempre più elaborato e incisivo, che - lasciatosi alle spalle la critica sociale di Suicide Club e il nichilismo disperato di Noriko's Dinner Table - mette in scena un lucido e sfarzoso incubo a metà tra realtà e finzione, che scava con una perizia quasi lynchiana nelle pieghe nascoste dell'inconscio. Il film prende il via con il (meta)racconto della bella e algida Taeko, scrittrice di successo imprigionata su una sedia a rotelle; l'ultimo libro della donna racconta la cruda storia di Mitsuko, bambina violentata dal padre e costretta dallo stesso a spiare i genitori durante i loro atti sessuali, nascosta nella custodia di un violoncello. La bambina finisce così per attirare su di sé anche le gelosie della madre, figura nella quale si era sempre identificata, che comincia a picchiarla e a maltrattarla: questo fino a quando la piccola Mitsuko, per difendersi dalle percosse, spinge accidentalmente la donna giù dalle scale, uccidendola. È l'inizio di un'allucinante spirale di eventi, a cavallo tra passato, presente, realtà e sogno.

La cifra stilistica dell'autore, sempre in bilico tra una rappresentazione stratificata dei diversi piani narrativi e un crudo romanticismo quasi ascrivibile alla corrente ero guro, si palesa in uno splendido incipit che descrive con traumatico realismo i rapporti incrinati e oppressivi alberganti tra le mura domestiche di una famiglia, che sembrano affliggere in egual misura sia la figlia che la madre, entrambe vittime dei malati e incestuosi abusi paterni. La virtuosa regia di Sono mette al centro il tormentato dualismo di queste due figure, rappresentandone la personalità infranta con espedienti visivi di rara ispirazione e ponendone in discussione l'identità individuale; i numerosi specchi presenti nella casa rifrangono le loro immagini speculari, in uno sdoppiamento a livello inconscio che va ad affliggere di riflesso l'intera struttura narrativa. La pellicola infatti si dispiega come un criptico meccanismo ad incastri, che ingranaggio dopo ingranaggio costruisce un tessuto narrativo tanto fulminante quanto ambiguo; verso gli ultimi minuti, quando i pezzi iniziano a incastrarsi e le congetture sembrano ormai essersi trasformate in certezze, una serie di clamorosi ribaltamenti narrativi sancisce la natura caleidoscopica del film, trasportandolo verso territori allucinati e irreali.

Horror ed erotismo si fondono dunque con l'immaginario onirico, che si insinua nella pellicola con affilata precisione. Chi è Taeko e qual è la ragione dei suoi traumi? Mitsuko esiste davvero? Cosa è reale e cosa non lo è? Sion Sono come da suo solito non fornisce risposte certe, ma gioca con il linguaggio cinematografico sovrapponendo i piani narrativi e imbastendo l'opera di segmenti grotteschi, disturbanti e di grande impatto visivo. Il rifiuto dell'identità inteso come meccanismo difensivo viene quindi lasciato in balìa dell'indeterminatezza narrativa e della psicologia malata dei personaggi; la bellissima e magnetica Masumi Miyazaki regala un'interpretazione da antologia, dimostrando un talento versatile che le permette di impersonare con la stessa efficacia ben tre ruoli differenti. La messinscena barocca, valorizzata da una fotografia ricca di contrasti cromatici e composizioni raffinate, regala alla pellicola un estetismo straniante e antitetico rispetto alla morbosità e alla crudeltà delle vicende, anche grazie alla colonna sonora che attinge a splendidi brani del repertorio classico, producendo un effetto similare a quello ottenuto da Kubrick in Arancia Meccanica. Degne di nota sono inoltre le alienanti e felliniane scene circensi che scandiscono l'inizio e la fine del film, sfumandone i già labili confini che separano realtà e visione di un grandioso esercizio di stile perfetto in ogni suo ingranaggio, che con rara originalità coinvolge, convince e lascia spiazzati.


3.0/10
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Innanzitutto, prima ancora d'imbastire un'invettiva contro un'opera sulla quale non c'è praticamente nulla da dire - bel paradosso - in quanto vuota, inconcludente e fine a se stessa, conviene chiedersi: ma che cos'è veramente 'sto "Dagashi Kashi"? Una commedia romantica? No, assolutamente. Fossero tutte così le commedie romantiche, allora Jake LaMotta sarebbe il principe azzurro più ambito dalle fujoshi di tutto l'universo. Uno slice of life? Ni, perché il tutto è talmente statico e prolisso che trasmette una sensazione strana, come se la vita dei suoi protagonisti sia a tutti gli effetti una non-vita, un cazzeggio totale senza alcuna perturbazione esterna che vada al di là di qualche monotono cliché autoreferenziale da adolescenti in calore. Un porno? Magari lo fosse! Vorrebbe esserlo, ma non trova il coraggio per spingersi oltre ai soliti quattro beceri doppisensi che stufano quasi subito - la protagonista infoiata e mentalmente instabile che succhia una grossa caramella a forma di... lascio indovinare a voi cosa; il protagonista scemotto che le schizza sui vestitini pucci pucci un liquido zuccheroso biancastro che ricorda tanto lo... dai, avete capito. Ma che tristezza però. Matematicamente, una volta a puntata, dopo pesantissimi minuti in cui non succede praticamente nulla di divertente, come da rituale, avviene il tanto atteso - ma ne siamo proprio sicuri? - doppiosenso tanto triste quanto volgare. Ma che vita sessuale avranno mai le persone a cui è rivolta un'opera del genere? La risposta mi pare ovvia. Detto ciò, riprendendo l'incipit dello scritto, "Dagashi Kashi" è un ecchi? Se veramente lo fosse, sarebbe un insulto a tutti i numerosissimi ecchi in circolazione che riescono a risultare molto più espliciti, meno ipocriti e quantomeno divertenti.

Perché no, questa schifezza inclassificabile NON è divertente. In tutta la sua svogliatezza, cattiva realizzazione tecnica, vuoto pneumatico e "simbolismi" scatologici, "Dagashi Kashi" annoia, e di brutto. Lo spettatore otaku più hardcore potrebbe difenderlo per via delle due bambole gonfiabili/feticci sessuali che ronzano attorno al solito ragazzetto inconcludente che non sa che fare della sua vita - diventa grande con me! - asserisce nel primo episodio la milfona semi-tossicodipendente - le sue caramelle blu possono essere interpretate come la metanfetamina pura al 99% prodotta dal signor Walter White - dai seni enormi citata in precedenza. Altro doppiosenso da depressione, siccome non si vedrà alcuna scena di sesso esplicita ma innumerevoli altre provocazioni della carne che non troveranno MAI compimento. Non si vedrà manco una mutandina, lo dico a tutti voi che negli anni novanta vi sollazzavate con "Aika". Siete avvertiti. Piuttosto, andatevi a leggere un manga di Go Nagai.

Quando non c'è qualcosa che si potrebbe definire come "sceneggiatura", è lecito chiedersi quale sia il pretesto per far "interagire" un ragazzino scemo con le due "signorine" che gli sbavano dietro senza che lui se ne accorga: l'amica d'infanzia piatta (in tutti i sensi) che in una puntata appare addirittura - ma chi l'avrebbe mai detto! - in versione loli, intenta a farsi toccare dal suddetto senza alcuna risoluzione della tensione sessuale, in quanto lui è rimbambito, e la già citata, vergognosa Hotaru, che non mi accingo neanche a descrivere - rinvio il lettore alle innumerevoli doujinshi hentai a tema per conoscere meglio la caratterizzazione del personaggio. Presentate le due cesse della situazione - il character design è orrendo, sproporzionato e con ombreggiature e lineamenti risibili -, per rispondere al quesito sollevato conviene sottolineare che "Dagashi Kashi" sia essenzialmente una pubblicità di dolciumi, quei dagashi che gli danno il nome e di cui il padre del protagonista possiede un negozio che poco interessa a quest'ultimo, dacché a quanto pare è molto più affascinato dal disegno. Lo scopo di Hotaru, almeno dal punto di vista formale e "narrativo", sarebbe quello di convertire il ragazzo al culto dei dolciumi, dei quali ella è una sorta di maniaca ossessiva-compulsiva (!). Insomma, le martellanti pubblicità che ci avvolgono ogni giorno - a parte quei pochi illuminati che molto saggiamente hanno deciso di non guardare più la televisione - in cui ogni sorta di oggetto viene sessualizzato, dalle automobili sino ai telefonini, non sono poi così diverse da "Dagashi Kashi", che utilizza lo stesso stratagemma per sessualizzare i dolciumi. Questo processo, tuttavia, volendo astenersi da un'invettiva contro la perversione del consumismo attuale, dal quale ahimè è impossibile affrancarsi completamente a meno di diventare dei barboni delle strade che rovistano nella spazzatura, viene fatta a malo modo, goffamente, senza una regia che si potrebbe definire tale né alcuna trovata grafica brillante. Pertanto, alla luce della totale inettitudine di questo obbrobrio, per chiudere il discorso, ripeto che - repetita iuvant, dicevano i romani - "Dagashi Kashi" vorrebbe essere un qualcosa di divertente, ma ahimè mette soltanto tanta tristezza.