Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

6.5/10
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“Fireworks”
“Se”.
Se ci fossimo incontrati prima.
Se soltanto le cose fossero andate diversamente.
Se ci fossimo decisi in tempo.
Se non avessi, se potessi, se lui, se lei.
Nell’immaginario lessicale, la parola “se” indica spesso rimpianto, talvolta un rimorso, quasi sempre rammarico, di tanto in tanto semplici riflessioni riguardo eventuali passati anteriori.
Con un avvio fra il misterioso e una misticità quasi ovattata, l’immediato impatto con gli splendidi disegni dello Studio Shaft ci sembra suggerire, tramite animazioni luminose, scorci sfavillanti e sovente iridescenti, un viaggio al limite dell’extrasensoriale, che però si concluderà con inaspettata e deludente incompletezza.

Camuffata da classica vicenda a sfondo scolastico ecco che scopriamo, fra riverberi cristallini, spiagge e giornate soleggiate, una cittadina moderna, dinamica, luminosa, dallo skyline amalgamato alla natura che, distante, indirettamente la possiede. Qui vive Norimichi, un adolescente che in compagnia degli amici di sempre si sta preparando per il periodo estivo, alle prese con gli istinti, i sentimenti e le emozioni di quella giovane età piena di vigore e desideri. Personaggio fin troppo banale e imbranato come ne abbiamo visti a centinaia, sembra essersi invaghito di una sua compagna di classe, la giovane, bella e distante Nazuna, ovvero il vero traino di tutto il film: un’intrigante sagoma, figura dagli sguardi magnetici, intensi, lunghi e profondissimi, senza dubbio il character più riuscito, innocentemente malizioso e di una fragranza irresistibile. Tutto il resto fa da sfondo: compagni di classe poco tratteggiati, l’appropinquarsi di lunghe giornate estive, il mare, le strade bianche e accecanti, il grido dei gabbiani, un caleidoscopio di riverberi in chiaroscuro.

I fuochi d’artificio, quindi, vanno visti di lato o da sotto? Questo sembrerebbe il leitmotiv del lungometraggio, un mantra infantile ripetuto più e più volte, una diatriba che pare non risolversi fin quando il nostro gruppetto di giovanotti non decide di recarsi in cima al faro del paese per godersi lo spettacolo pirotecnico e scoprire ivi l’arcano.
Pian piano che la storia si districa, cominciamo a renderci conto di assistere a un’opera davvero preziosa, almeno a livello artistico. Oltre alle già citate animazioni, abbiamo la fortuna di osservare un ottimo uso della CG, amalgamato in maniera sapiente e mai discordante; la scelta dei colori, l’uso delle ombre in contrasto alla forte luce estiva, la scelta delle inquadrature e delle prospettive cinematografiche rafforzano la qualità generale già altissima.
I fuochi d’artificio, paiono, sia dal titolo sia dalla tendenza di alcuni dialoghi, il perno su cui verte l’intera trama. Ma i temi portanti, inaspettatamente, sono altri due: in primis l’acqua, onnipresente, dalla lunga scena alla piscina della scuola da dove la storia comincia a prendere forma, e in secondo luogo, ben più complicato, l’astrattismo delle molteplici scelte che possono influenzare il futuro del medesimo individuo, se si considerano eventuali universi paralleli, dov’egli, a fronte dei soliti eventi, prende decisioni sempre differenti.
Il caos dietro l’angolo: un falso “Steins;Gate 2.0” neanche lontanamente ricalcato.
A fronte di questa dualità molto complessa, l’anime prende una piega più che sorprendente. I cieli azzurri, gli sguardi infatuati, i banchi di scuola e i costumi bagnati non hanno più lo stesso risalto iniziale, una volta che nella mente dello spettatore comincia a farsi strada la fragile visione di un evolversi incerto e per nulla chiaro, totalmente confusionario.
Si gioca, con l’acqua; di mare, della piscina, dei rubinetti e delle fontane, si gira intorno ad essa, soprattutto nella prima metà. Si percepiscono sensazioni note di una gioventù generica che tutti più o meno abbiamo conosciuto, e grazie a una regia elegante viviamo ricami e scorci di storia quotidiana, talvolta piacevoli, talvolta duri e controversi, molto realistici. Imbarazzi, battute ironiche, scenate, attimi didattici e una realistica introspezione (solo) dei protagonisti rendono la prima parte di “Fireworks” qualcosa di davvero stupendo.
Quando quel poco di drammaticità prende improvvisamente il sopravvento, lo fa in maniera eccelsa, tanto da raggiungere lo spettatore in pieno viso come uno schiaffo inaspettato. I pochi silenzi della colonna sonora dicono ben più di tante parole, ma, anche quando le note affiorano, sono piacevoli, gentili, come la dolce risacca di una serena giornata in riva al mare.

I dialoghi non sono mai chiarissimi e forse ciò aumenta l’interesse, rendendo il tutto ancor più intrigante. Nessuna traccia rivelatoria a far da guida: i contenuti che gli autori desiderano condividere rimangono avvolti nel mistero, ed è necessario arrivarci tramite ragionamenti indiretti o frasi spezzate, sospese, criptiche.
Man mano che ci si addentra nel vivo della storia - e la parte quasi sovrannaturale e fantastica della vicenda prende piede -, le cose si complicano, mutando in qualcosa di davvero incomprensibile.
Il continuo girare intorno ai “se” e alle indecisioni dei protagonisti non sono altro che la cruda metafora dei rimpianti che ognuno di noi ha provato nel corso della propria vita. Ecco che “Fireworks” muta rapido in un manifesto che ruggisce forte contro ogni genere di rammarico, tentando (non sufficientemente) di scuotere lo spettatore e ricordargli l’impossibilità di poter tornare indietro nel tempo per cambiare le scelte passate, avendo come unica, realistica, opzione il coraggio di prendere decisioni importanti nel caso dovessero presentarsi tali opportunità: letto in questa chiave, un comportamento del genere risulta più un atto di rispetto verso noi stessi, che un impeto di semplice incoscienza.
Le cosiddette “sliding doors” si aprono e si chiudono più volte man mano che la vicenda si avvia alla conclusione, sempre più criptica e misteriosa. Si rimane storditi, s’aguzza sia la vista che la mente per decifrare i messaggi che giungono confusi e rarefatti uno dopo l’altro, ma la confusione non svanisce, anzi, s’accentua: Norimichi e Nazuna affrontano il destino che loro stessi si sono creati, inconsapevoli e al tempo stesso unici fautori del proprio futuro, e cresce l’aspettativa per una conclusione che si spera scoppiettante proprio come quei fuochi d’artificio magnificamente illustrati, su cui s’è scherzato molto. Forze misteriose e universalmente soverchianti, tanto metaforiche quanto subliminali entrano in gioco, manovrando il destino solo apparentemente, e nonostante le scene romantiche a lungo attese siano di una dolcezza e di una preziosità davvero uniche, quando giungono i titoli di coda si è costretti a fare i conti con un senso di desolante insoddisfazione: discostando ogni elemento positivo (e ve ne sono tanti!), l’epilogo assume le fattezze di una manovra che ricorda le peggiori intuizioni di Hideaki Anno e gli errori di gioventù del grande Makoto Shinkai, unendo numerosi fattori di grande rilevanza in un’alchimia che dà esiti di sconcertante incompletezza.
Il tempo per poter sciogliere ogni punto di domanda c’è eccome, ma viene impiegato per lunghi momenti, difficili da interpretare, a quel punto inutilmente criptici, tanto da sollevare legittimi dubbi sulle reali intenzioni degli autori.

È negli ultimissimi istanti che s’intuiscono alcune possibilità date ai due giovani protagonisti, ma il tutto si perde sotto un cielo stellato troppo distante e irreale, con la fastidiosa sensazione d’aver perso l’opportunità di lasciare ai posteri un solido, galvanizzante messaggio positivo, che riesce solo per metà.
Un vero peccato, se si considera il potenziale di cui “Fireworks” poteva disporre e delle numerose opzioni su cui poteva contare soprattutto a livello di trama.

Risultato: la parvenza di un capolavoro incrinato verso metà, e infine rovinato da un finale che fa semplicemente storcere il naso. Che peccato!

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Ho una certa reverenza nell'approcciarmi a recensire le opere del maestro Oshii, perché ho sempre il timore di non essere all'altezza del genio, ma, come lo stesso autore dirà in "Innocence" (2004), "Non bisogna essere Cesare per capire Cesare"; in effetti l'umanità intera è composta perlopiù da persone non all'altezza dei suoi individui migliori. Realizzato l'anno precedente "Lamù - Only You" (1983), di cui il regista fu insoddisfatto per l'invadenza della produzione, ma tutto sommato un marchettone divertente, grazie agli incassi di esso e al continuo successo della serie TV "Lamù", di cui era regista, Oshii ha finalmente carta bianca da parte della produzione per un progetto estremamente personale e che ora può realizzare: ne esce fuori "Lamù - Beautiful Dreamer" (1984), che nelle intenzioni di tutti doveva essere né più e né meno che un mero film celebrativo del mondo di Lamù, mentre invece per Oshii diventa veicolo attraverso il quale, grazie al mezzo animato, può esprimere le proprie riflessioni sul tempo e lo spazio, come concetti relativi e intrinsecamente legati all'essere umano, da non concepire banalmente in maniera retta sul modello di un fiume che scorre, ma più come una circolarità in cui conta solo l'attimo del presente. La nota fiaba Giapponese di Urashima Taro, di cui ci viene fornito l'assunto nella prima parte del film, nonché la filosofia relativista sulla concezione del tempo di Henri-Bergson, la teoria del male radicale di Immanuel Kant e il racconto filosofico del mistico cinese Zhuangzi sulla farfalla e il sogno sono le chiavi necessarie per decriptare il film, con i suoi numerosi simbolismi e l'impalcatura teorica posta alla base di esso: l'impossibilità di concepire il tempo in un rapporto oggettivo e di distinguere la realtà dal sogno, perché, per quanto ne sappiamo, la nostra intera esistenza non può che essere una creazione dell'inconscio altrui, dimorante in un'altra dimensione, creando una reazione a catena da cui è impossibile venirne a capo, rendendo l'intera esistenza un gigantesco sogno altrui, quindi nient'altro che finzione.
Lamù, Ataru, Mendo, Sakura, Shinobu e tutti gli altri personaggi si ritrovano a vivere il giorno prima del festival scolastico, in modo continuo e ripetuto, senza che nessuno di loro si renda conto della situazione, mentre chi si pone domande sulla sensazione di vivere dei continui deja-vu sparisce misteriosamente come il professor Onsen (una figura adulta, quindi già immersa nella realtà del mondo), perché pone evidentemente questioni scomode in uno status quo eterno, tramite delle considerazioni fiume in un dialogo con la dottoressa Sakura, ripreso con un movimento di macchina a 360°, con cui Oshii rende a livello formale le proprie idee narrative (qui è autore della sceneggiatura anche).

Inno a un'adolescenza senza fine, Lamù, Ataru e gli studenti del liceo Tomobiki con cui fanno gruppo vivono senza farsi domande un'eterna adolescenza, ripetendo all'infinito le giornate in modo spensierato, senza porsi alcuna domanda sulla realtà in cui vivono, accettandola tacitamente per quello che è, per timore probabilmente che essa possa aver fine, nonostante gli edifici intorno siano sempre più in rovina, inspiegabilmente i supermercati siano sempre pieni di cibi e bevande fresche e la casa di Ataru possegga acqua, luce, elettricità e televisione. Un mondo perfetto, forse troppo, non può esistere una realtà così, eppure ai giovani adolescenti importa solo vivere questo eterno presente; con una lettura meta-cinematografica, Oshii sembra mettere sullo stesso piano la ripetitività intrinseca nel format delle puntate di questa serie TV demenziale da cui è tratto il film, non solo con la situazione vissuta dai protagonisti, ma anche con le aspettative dei fan della serie che magari protestano contro la mancanza di nuove idee, per poi infuriarsi quando le aspettative vengono disattese e i creatori, invece di dare la solita roba, quando vogliono uscire dai binari prestabiliti, vengono bersagliati dalle proteste e quindi costretti a fare marcia indietro. La situazione in cui vivono Lamù e soci corrisponde in pieno al limbo in cui i fan vivono, un'eterna riproposta di ciò che si aspettano, senza variazione alcuna.
"Beautiful Dreamer" è il sogno che diventa cinema, grazie al folletto Mujaki, dietro le cui fattezze si cela in modo chiaro l'alter-ego di Oshii, regista-demiurgo, che rende reali i sogni dei protagonisti, in special modo quello di Lamù, che, in quanto aliena e non essere umano, concepisce un desiderio così puro e non legato alla materialità delle cose facilmente corruttibile, da non poter esserne non colpiti e cercare di preservarlo a tutti i costi, seppur sia intrinsecamente infantile nella concezione, perché il sogno è pur sempre una manifestazione dell'inconscio modellato sulla realtà stessa, ma non può essere la scappatoia per evadere dalla realtà stessa, che gli adolescenti di oggi dovranno affrontare per diventare gli uomini e le donne del domani.

Giocato su fonti di luce sovra-illuminate tipiche dello stile del regista, sequenze surreali perfettamente calate nel contesto demenzial-anarchico tipico dei personaggi, inquadrature sghembe e riprese grandangolari, Oshii gioca a deformare e alterare i piani della realtà, moltiplicando i punti di osservazione, come gli specchi infiniti in cui Ataru si vede nella scuola, accentuando la sensazione di straniamento, coadiuvato da un montaggio ellittico che altera i piani della realtà, mostrando l'inizio del film in medias res per poi andare a ritroso, rompendo questa piacevole crisi delle certezze tramite uno spiacevole 'spiegone' finale, che il regista evidentemente ha inserito per via del target a cui l'opera era rivolta, e che nelle opere successive eviterà del tutto. "Beautiful Dreamer" segna la fine dell'adolescenza cinematografica di Mamoru Oshii, destinato a diventare il miglior regista di animazione della storia del cinema; un'opera così particolare e dissacratoria verso la serie da cui era tratta, anche se in realtà aderente allo spirito di essa, se si presta attenzione, non poteva che essere rifiutata dal pubblico bue, il quale minacciò di morte il regista e chiese a Rumiko Takahashi (autrice del manga) di disconoscere il film, cosa che fece dichiarando di odiarlo. Oshii entrò in rotta di collisione con la produzione, che gli rinfacciò di aver 'floppato' con un film celebrativo tratto da una serie di grande successo, e lo mandò via in malo modo, segnando di fatto anche l'inizio di una carriera all'insegna delle difficoltà da parte del regista nel reperire le risorse per finanziare i propri progetti.
"Beautiful Dreamer", a distanza di quasi quarant'anni, lo si può considerare il miglior film celebrativo mai fatto, che già mostra il talento e l'abilità tecnico-intellettuale del suo autore; un capolavoro del cinema e un inedito sguardo positivo da parte di un regista che, nel giro di pochi anni, maturerà una concezione sempre più pessimista dell'esistenza.

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«Colorful» è un film del 2010 che non ha nulla a che vedere con l’omonima serie andata in onda sulle reti giapponesi alla fine degli anni ‘90. Il film, ispirato ad un romanzo di Eto Mori, ha avuto un riscontro molto positivo da parte del pubblico e considerando quanto l’ho apprezzato, sono rimasta stupita del fatto che la regia e la sceneggiatura siano stati affidati alle stesse persone che si sono recentemente occupate della realizzazione di «The Wonderland», un anime che sembra aver deluso le aspettative di molti. «Colorful», al contrario, è un opera che ho adorato e per questo non riesco ad immaginare come gli stessi autori possano aver prodotto qualcosa di deludente.

La storia si apre in una stanza silenziosa occupata da diverse file di anime che hanno appena lasciato i loro corpi. Ad uno di questi individui, però, viene data una seconda possibilità, consentendogli di reincarnarsi nel corpo di un bambino che ha recentemente perso la vita a causa di un tentato suicidio. L’obiettivo è quello di permettere all'anima di ricominciare una nuova vita, ma per averne il diritto dovrà prima comprendere le ragioni dietro al suicidio del ragazzo.

Il film ha una durata complessiva superiore alle due ore, ma nonostante questo non risulta noioso. Anche nei momenti più tranquilli, risulta sempre molto interessante e talvolta anche doloroso a causa degli argomenti trattati, primo fra tutti il suicidio. Avendo come protagonista un adolescente, i temi trattati riguardano principalmente il bullismo, i difficili rapporti familiari e la prostituzione minorile. Si tratta di argomenti molto importanti e difficili da trattare in un'unica opera, tuttavia, il risultato è stato ottimo. Tra questi, ciò che mi è rimasto più impresso è sicuramente il rapporto che il protagonista ha avuto con i genitori della vittima, in quanto, sapendo di non essere il loro vero figlio ed essendo in un’età un po’ ribelle, ha manifestato il suo carattere arrogante senza alcun freno, ignorando completamente i sentimenti altrui. Comportamenti così estremi magari non sono così frequenti (questo però non significa che non esistano), tuttavia, è doloroso vedere come gli sforzi dei genitori vengano completamente ignorati o trattati in modo sgarbato da parte dei figli viziati. Lo stesso atteggiamento riservato ai genitori, può avvenire anche nei confronti di persone esterne, sfociando nel bullismo giustificato dalla classica frase “stavamo solo scherzando”. Fortunatamente, però, per ogni persona aggressiva ne esistono anche molte altre di pazienti, la cui presenza può aiutare a riflettere e ciò può aiutare ad accettare i propri errori e quelli degli altri, senza ricorrere all'atto estremo e irreparabile. Il tema della depressione e del suicidio è stato trattato anche in alcune opere più recenti, tuttavia, tra le opere che ho visionato solo «Colorful» è riuscito a raggiungere un risultato così soddisfacente.

Come ci sia aspetta da un anime destinato alla visione cinematografica, ovviamente ci troviamo di fronte ad un film ben animato e interessante per via di alcune scelte tecniche, come per esempio quella di sfruttare alcune fotografie reali per trasformarle in dei fondali opportunamente adattati. Al di là dell’aspetto visivo, però, ho molto gradito le voci dei due protagonisti, entrambi doppiati da due bambini, il che è piuttosto raro se consideriamo che di solito le voci infantili vengono affidate a donne adulte che si sforzano di assottigliare la propria voce. Inutile dire che questa scelta ha migliorato notevolmente la resa dei dialoghi rendendo i protagonisti molto più spontanei e realistici, specialmente Purapura. Lui è sicuramente il personaggio che ho apprezzato di più. Il suo carattere è sicuramente un po’ infantile, ma è anche altrettanto simpatico e saggio, un po’ come un angelo custode.
L’ultima menzione d’onore va alle musiche, di cui ho molto apprezzato quelle tristi e riflessive basate sul suono del pianoforte.

Si tratta sicuramente di un film molto lento, ma allo stesso tempo molto interessante e riflessivo, che non può non lasciare un’impronta indelebile nel cuore dello spettatore. Alla luce di ciò, non posso fare a meno di consigliarlo a chiunque voglia vedere un film veramente interessante.