Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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Serie animata Netflix, composta da sei episodi (novanta minuti di durata totale), che conferma il talento di Zerocalcare, fumettista italiano, capace, con il suo brillante modo narrativo, di farci ridere a crepapelle e piangere per la commozione.

"Strappare lungo i bordi" è il racconto di una generazione, figlia degli anni ottanta, quella che non è ben riuscita a "strappare lungo i bordi" (appunto), che ha deviato da quel tratteggio del proprio foglio di una vita socialmente accettata.

Zero, avatar del nostro autore, e protagonista di questa serie, ci strappa risate di pancia con il suo umorismo, per il suo modo di parlare (romanesco) e muoversi, e per le sue riflessioni, che sono le nostre riflessioni. Sì, perché il punto di forza di questa opera è proprio questo: lo spettatore non può che immedesimarsi in tutto quello che accade al nostro amico romano, e in tutte le sue considerazioni, che sono senza filtro e, a volte, dal retrogusto un po' amaro. Chi di noi non si è mai fatto mille paranoie nell'approcciarsi a un ragazzo/a che ci piaceva? Chi di noi non ha mai mandato un sacco di curriculum (curricula) per avere un lavoro che poi non arrivava mai? E chi di noi non ha mai vissuto disavventure rocambolesche mettendosi in viaggio? Queste, e altre situazioni, ci fanno calare completamente nella parte, facendoci pensare più di qualche volta: "Oh sì... Vero! L'ho pensato anch'io! L'ho vissuto anch'io! È proprio così!". Zerocalcare dà voce, quindi, al nostro vissuto, al nostro ego, a pensieri che fatichiamo a tirare fuori. Lui lo fa per noi. Costringendoci ad affrontare anche temi non troppo leggeri, come la differenze tra maschi e femmine, i rapporti tra figli e genitori, la vita e la morte.

Michele Rech (questo il vero nome di Zerocalcare), alternando momenti esilaranti e drammatici, attimi di densità emotiva e minuti di distensione, citazioni di levatura (il mito della caverna di Platone) e citazioni del mondo pop (i due combattenti in "Dragon Ball"), dimostra davvero di avere grandi abilità narrative.
È lui che doppia ogni personaggio (con il ritmo forsennato dei monologhi), ad eccezione dell'Armadillo, che rappresenta la sua coscienza, doppiato da Valerio Mastandrea. Secco, Alice, Sarah, e tutti gli altri attori secondari, li doppia tutti lui, e il risultato è davvero sfavillante! Tranne per gli ultimi minuti dell'ultimo episodio. Se osserverete, in quegli attimi, ognuno dei personaggi si riappropria di una voce naturale, forse per dare più significato agli ultimi accadimenti.

Un'ultima mia osservazione va fatta ai disegni e all'animazione, che personalmente ho davvero apprezzato. Disegni semplici, a volte minimali, ma ricchi nei dettagli negli sfondi, e, soprattutto, un uso dei colori caldi e accesi.

E vogliamo parlare della colonna sonora? Riferimenti a Manu Chao, Tiziano Ferro, Ron, i Klaxon, Billy Idol, Beethoven... E chi ne ha più ne metta! Zerocalcare si è davvero sbizzarrito! Per ogni scena e riflessione ci ha abbinato la canzone perfetta, dando un tono ancora più maturo a tutta la sua opera.

Che dire ancora al riguardo?
Guardatevela tutta d'un fiato.

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Con un pizzico di orgoglio posso dire che i ragazzi di Mad hanno fatto nuovamente centro. Dopo l’esordio de “L’arte della felicità” e la consacrazione con lo splendido “Gatta Cenerentola” non era semplice presentarsi sul palcoscenico della cinematografia (inter)nazionale ancora con una produzione originale e nuovamente con l’animazione quale mezzo espressivo indirizzato a un pubblico eterogeneo e non solo alle famiglie. Eppure, anche questo “Yaya e Lennie - The Walking Liberty” raggiunge l’obiettivo col suo carico di avventura, ambientalismo e ricerca della libertà, in un film politicizzato, fortemente critico dei sistemi autoritari, ma che allo stesso tempo lascia libertà di scelta e interpretazione allo spettatore su cosa significhi la libertà e quanto sia possibile, e giusto, sacrificare in nome di essa.

Il film è ambientato in un pianeta Terra post-apocalittico; non ci viene spiegato cosa abbia prodotto questa situazione, ma il mondo che conosciamo non esiste più, l’umanità non è estinta, ma la natura si è riappropriata del pianeta presentatoci subito come una fittissima giungla. In questo scenario si muovono Yaya e Lennie, ragazza bella, diffidente e dalla lingua tagliente la prima, un gigante buono e facilmente preda delle emozioni il secondo, orfani cresciuti come fratelli, ragazzi ‘sbagliati’, cresciuti da una certa Zia Claire ormai passata a miglior vita, che si muovono senza meta e senza legami, badando solo a loro stessi. E ne hanno ben donde, perché insieme a loro si muove anche l’Istituzione, un’organizzazione pseudo-fascista non legata a nessun Paese ma solo all’ideale di dover ricostruire la civiltà perduta, riunendo gli uomini sotto il proprio dominio nella ricerca del progresso e del, presunto, benessere collettivo.

Proprio sulla differenza del concetto di libertà espresso da queste due entità così diverse si dipana la storia del film e il suo messaggio, reso volutamente più ambiguo dalla presenza di diverse soluzioni ‘alternative’ agli stili di vita scelti da Yaya & Lennie o dall’Istituzione: nella giungla infatti vivono anche tribù apparentemente selvagge e ostili alle imposizioni dell’Istituzione, villaggi che con essa sono venuti a patti, conservando una certa autonomia, pur tagliandosi fuori da tutte le scoperte tecnologiche raggiunte dall’Istituzione, e spassosi rivoluzionari vogliosi di soverchiare l’ordine principale armati di pochi mezzi ma tanto cuore e volontà. Non nego che proprio l’arrivo di questa pseudo-armata Brancaleone, comandata non a caso dall’esuberante Rospoleón, rivoluzionario dal ventre adiposo ma dall'animo valoroso, è la chiave di volta del film che, cominciato con un ritmo abbastanza blando, da questo momento in poi fila come un treno, regalando una visione appagante in ogni momento, dall’azione pura al più riflessivo. Grande merito della presa sullo spettatore ce l’hanno anche i personaggi, magari non tutti sfruttati al meglio delle loro potenzialità (penso soprattutto al capitano dell’Istituzione, presentato quasi come un personaggio importantissimo e ridotto poi a poco di più un comic relief), ma capaci comunque di lasciare un segno con la loro personalità; vale la pena citare, oltre i due protagonisti e gli sgangherati rivoluzionari, Zio Giò e il nipote Andrea, nati in un villaggio esterno all’Istituzione ma con le idee completamente opposte su come rapportarsi ad essa, col primo che ne condanna i metodi e gli obiettivi e il secondo che invece si è unito ad essa desideroso di uscire da quella realtà arretrata e abbracciare un futuro magari più costrittivo ma sicuramente anche votato al progresso. Le alternative non mancano, insomma, ed è sempre più difficile razionalizzare su quale sia il limite per cui valga la pena sacrificare tutta o buona parte della propria libertà, e questa discrezionalità di scelta è anche il pregio di questo lungometraggio, che neanche il toccante finale limita nella sua potenza espressiva e nella sua bellezza.

Già, perché questo film è anche bello da vedere oltre che interessante da seguire, grazie alla perizia tecnica dei ragazzi di Mad Entertainment (ma diretto e sceneggiato dal solo Alessandro Rak stavolta), ormai pienamente padroni del mezzo e capaci di realizzare un film apprezzabilissimo, senza venire meno al loro stile, che, sia chiaro, può essere respingente per qualcuno, soprattutto per chi è avvezzo alla pulizia e alla scorrevolezza del (buon) 2D dell’animazione giapponese, ma proprio per questo ai miei occhi rappresenta quella rottura dall’abitudine che tiene vivo l’amore e l’interesse per l’animazione in sé. Anche in questo caso quindi il character design dei personaggi è volutamente sgraziato e poco definito, pur senza perdere tuttavia un briciolo di fascino, che sia nelle curve della bella protagonista o nell’aspetto indimenticabile dell’armata (poco) rivoluzionaria, un miscuglio multietnico capitanato da un Che Guevara del discount a cavallo di un asino con tatuaggio di Maradona in bella vista e una bandiera argentina a cingergli le spalle come drappo simbolo di ribellione e indipendenza... meraviglioso! Eppure, ancora più meravigliose appaiono le ambientazioni di questo film, probabilmente la vera perla dal punto di vista grafico, una giungla fittissima, intricata, quasi soffocante, di un verde talmente brillante da confondersi con la luce quasi, a cui fanno da contraltare gli insediamenti dell’Istituzione, cave senza fondo antropizzate a tal punto dall’uomo, da risultare ugualmente soffocanti, senza lasciar filtrare stavolta neanche un velo di luce. E in un mondo che ha perso la nostra civiltà non mancano piccoli tocchi citazionistici che la ricordano, legati tutti all’universo cinematografico: si va da un pizzico di sana autoreferenzialità col poster de “L’arte della felicità” che fa bella mostra in casa di Zia Claire insieme ad altri film come “Ritorno al futuro” o “Il grande Lebowsky”, passando a suggerimenti più allusivi come l’aspetto di Zio Giò e del fratello che ricordano Bud Spencer e Terence Hill di “Trinità”, fino all’inserimento esplicito del discorso all’umanità di Charlie Chaplin ne “Il grande dittatore”, ulteriore invocazione alla libertà, alla non violenza e all’uguaglianza quali principi fondamentali dell’umanità. Altra chicca di questo lungometraggio poi è il suo splendido comparto sonoro, dalla calzante colonna sonora, di cui voglio citare una scalcinata versione di “Les Toreadors” dalla “Carmen” di Bizet, che aumenta ulteriormente la carica comica dei discorsi di Rospoleón e i suoi rivoluzionari, fino al doppiaggio, che magari non si può definire ‘perfetto’ nella pulizia della voce e della recitazione, ma dove ogni attore ha saputo ricamare nel proprio ruolo un’interpretazione, per me, riuscitissima: la giovane Fabiola Balestriere carica Yaya di una vitalità strabordante con la sua voce sporca e malinconica, Ciro Priello dà voce a Lennie con grande naturalezza, senza una caricatura che ne accentui i problemi cognitivi, Lina Sastre è meravigliosa narratrice dei momenti di pausa e riflessione del film, e laddove si fanno notare voci della filmografia partenopea moderna come Massimiliano Gallo e Fabio Balsamo, la vera parte del leone la fa l’immarcescibile Francesco Pannofino col fantastico Rospoleón e il suo memorabile spagnolo maccheronico.

Non c’è insomma un vero motivo che possa spingere a non vedere questo film, che certo non ha goduto di grandissima pubblicità da par suo: presentato al 74° Festival di Locarno, è andato in sala solo per quattro giorni a fine 2021, per poi approdare in streaming su Amazon Prime Video, dove è ancora disponibile a chiunque voglia dargli fiducia, spinto dalla sua potenza espressiva, dalla sua storia, dai suoi personaggi e, perché no, dal lavoro tutto italiano di un collettivo di appassionati e professionisti che crede in quello che fa e continua a urlarlo in un silenzio a volte assordante, ma ancora spezzato da poche voci desiderose di farsi affascinare da qualcosa di diverso dal solito, e speriamo siano sempre di più.

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“Space Jam: New Legends” è il sequel dello storico film del ‘96 con protagonista Micheal Jordan e i Looney Tunes. Il film è stato stroncato dalla critica, e anche il pubblico sembra che non l’abbia apprezzato più di tanto, ma, avendo amato l’originale, sapevo che prima o poi mi sarei voluto togliere la curiosità di vedere anche questo, nella speranza che potesse comunque risultare un film, magari infantile, ma tutto sommato divertente. Purtroppo, così non è stato, e a mio avviso le note dolenti da segnalare in questa pellicola sono tante e più gravi rispetto al film originale, che ovviamente aveva diversi limiti, ma a mio avviso non cadeva nel ridicolo come questo.

Il problema principale di questo film è che finisce per essere la fiera dell’autoreferenzialità. Ogni scusa è buona per mettere in mostra tutte le proprietà intellettuali della Warner Bros. in modo totalmente sfacciato e fine a sé stesso. In questo stucchevole minestrone di fanservice, perdere di vista la trama e quello che dovrebbe essere l’obiettivo dei personaggi è di una facilità disarmante.
Anche il primo film era strapieno di riferimenti e pubblicità al mondo dei Looney Tunes e ai marchi legati alla figura di Jordan, ma erano molto più sottili e defilati, comunque mai abbastanza invadenti da far perdere di vista allo spettatore la storia del protagonista. Qui invece hanno preferito mettere in vetrina tutti i franchise della casa, poco importa che non siano mai funzionali alle vicende del film e che, in definitiva, siano più un ingombro che altro, vedasi il pubblico durante la partita finale.
Ovviamente, in questo oceano di riferimenti, qualche citazione carina c’è, ma non basta a reggere tutto questo fanservice ammorbante.

Un altro problema del film è che, all’interno della vicenda, manca totalmente una componente sportiva. Nel primo, uno degli aspetti più interessanti consisteva nel fatto che Jordan ormai si era ritirato dal mondo del basket, e quindi era riluttante a impegnarsi in una nuova sfida con questo sport. Durante la storia, doveva riscoprire la passione che lo aveva portato ai vertici, allenandosi con gli altri personaggi in vista del temuto scontro finale.
In questo film non si parla del LeBron giocatore, ma del LeBron padre che deve salvare e riscoprire il rapporto con il figlio. Non si sente mai l’avvicinarsi della partita finale, la quale è totalmente priva di tensione, e non si riesce mai a prenderla sul serio. Questo anche a causa di un’ambientazione sbagliata. Nel primo la partita si svolgeva di sera e al chiuso con un pubblico gremito, ma comunque limitato. Qui tutto si svolge all’aperto e sotto la luce del sole, con un pubblico sterminato, che, come già detto, troppe volte invade la scena.

L’ultimo grande contro di questo film sono gli antagonisti. Scialbi, anonimi e privi di caratterizzazione. E non mi riferisco tanto all’algoritmo che rapisce il figlio di LeBron, che comunque non è nulla di che, ma soprattutto ai giocatori avversari. Chi sono? Da dove vengono fuori? Perché sono loro gli avversari di LeBron? Nel primo film gli alieni antagonisti erano forti e temibili perché avevano rubato il talento ai migliori giocatori dell’NBA. Questi sono bravi perché sì.

Questo secondo capitolo di “Space Jam” non mi ha convinto e, tolto un lato tecnico delle animazioni apprezzabile, credo non abbia veramente nulla da offrire. La trama è carina per i primi venti minuti, fintanto che non parte lo tsunami di richiami agli altri marchi Warner. Non riesce a essere divertente, non riesce a essere emozionante. Non voglio glorificare il primo capitolo, che aveva i suoi problemi, ma, per capire la distanza tra i due film, basta ascoltarsi le relative colonne sonore. Per tutto il resto, a chi consigliare questo film? Ai fan di LeBron? Agli appassionati di basket? Agli amanti dei Looney Tunes? Questa domanda non ha una risposta, visto che il film cerca di parlare a tutti questi target senza concentrarsi davvero su nessuno di essi. Forse gli unici che, volenti o nolenti, non rinunceranno a dargli una chance sono coloro che ricordano con affetto il primo capitolo, ma anche per loro la delusione è dietro l’angolo.