Nella notte fra il 29 e il 30 maggio, sul palco del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, la direttrice del Far East Film Festival 25 Sabrina Baracetti ha annunciato la conclusione della kermesse con l’attesa assegnazione dei “gelsi”, ovvero i premi attribuiti alle varie categorie.
A fare incetta di premi il film malese Abang Adik del regista Jin Ong, al suo esordio dietro la macchina da presa, che porta a casa ben tre gelsi, tra cui l’ambito Gelso D’Oro come miglior film decretato dal pubblico, con una storia di fratellanza ed emarginazione che ha lasciato il segno ed è rimasta nel cuore del pubblico udinese.
-Gelso Nero, premio Black Dragon della critica: Abang Adik, di Jin Ong, Malesia;
-Gelso Rosso degli utenti di “Mymovies”: The Sales Girl, di Janchivdorj Sengedorj, Mongolia
-Gelso per la Migliore Sceneggiatura al film Day Off, di Tien-yu, Taiwan
-Menzione speciale per l'Opera prima va a Lost Love, di Ka Sing-fung, Hong Kong
-Gelso Bianco per la Migliore Opera Prima al film Abang Adik, di Jin Ong, Malesia;
-Gelso D’Argento Audience Awards terzo classificato al film Yudo, di Suzuki Masayuki, Giappone
-Gelso D’Argento Audience Awards secondo classificato al film Rebound, di Chang Hang-jun, Corea del Sud
-Gelso D’Oro Audience Awards primo classificato al film Abang Adik, di Jin Ong, Malesia
Ambientato in un quartiere degradato di Kuala Lumpur, il film narra di due giovani orfani senza documenti, Abang e Adik, che vivono ai margini della società cercando di tirare avanti alla giornata. I due hanno un temperamento diametralmente opposto: Abang (Kang Ren Wu) è gentile e remissivo, sgobba come un mulo nei lavori più umili e si adopera per migliorare le proprie condizioni nell’ambito della legalità; Adik (Jack Tan) è invece insofferente e ribelle, sceglie la strada dei soldi facili trafficando con i documenti dei migranti, è colluso con la malavita locale e si prostituisce. Entrambi sono originari della Malaysia ma vivono senza carta di identità, senza diritti ed esclusi dalla società. Legati uno all’altro da un rapporto simbiotico e viscerale che sfiora l’omosessualità, i due ragazzi vedono minato il loro legame quando si ritrovano coinvolti in un fatto di sangue. Sullo sfondo la metropoli tentacolare di Kuala Lumpur, in particolare il quartiere di Pudu Pasar, la zona dell’antico mercato della città brulicante di vita e compresso in spazi fisici (e psicologici) angusti e claustrofobici, dove convivono contrasti di lingue, culture e razze diverse. Nel film si parlano quattro lingue diverse: mandarino, cantonese, malese e inglese.
Il film esordisce quindi come un realista slice of life che racconta una storia di emarginazione e disagio sociale a base di ordinaria violenza quotidiana ma anche di personaggi edificanti e benevoli, come la transgender Money che si è sempre presa cura dei due ragazzi facendogli da madre, l’emigrata dal Myanmar innamorata di Abang costretta a rientrare nel suo paese, e l’assistente sociale Jia En che fa del suo meglio per aiutarli, prospettando loro una possibilità di uscire dalla clandestinità. Ma sono spiragli di speranza destinati a dissolversi quando, del tutto inaspettatamente, il film sprofonda negli abissi di un noir cupo ed esistenziale, scavando fino all’osso nella psicologia dei personaggi e nei loro sentimenti di solitudine e di gelosia. Sul finale il film racconta in qualche modo una storia di redenzione, dove il legame quasi patologico che lega i due personaggi e che li ha portati ad essere vittima e carnefice l’uno dell’altro in un perverso abbraccio fatale, finisce per liberare una delle due con l’estremo sacrificio in una sorta di rito di espiazione.
A chi non possiede niente, nemmeno i documenti d’identità, non resta che cercare di possedere disperatamente la vita degli altri, è quanto Abang e Adik sembra suggerire fra le pieghe di questa straziante storia di fratellanza. Pur lasciandosi andare ad alcuni eccessi melodrammatici, il linguaggio del regista/sceneggiatore Jin Ong è attentissimo alle minime sfumature psicologiche, coadiuvandosi della magnifica fotografia di Kartik Vijay, a base di colori caldi e avvolgenti, e cercando di dosare il pathos con un efficace utilizzo della colonna sonora di Katayama Ryota affiancata delle malinconiche digressioni della voce off.
Per concludere, il doppio ritratto dei due protagonisti funziona, risulta incisivo e fa molto male, al di là delle scene forti. Destreggiarsi fra i sentimenti umani è una caratteristica comune a molti cineasti orientali e la storia drammatica di Abang Adik, con le sue sfumature vagamente omoerotiche, lascia un segno profondo.
Basato su una sceneggiatura originale di Kundo Koyama (Departures, 2008), presente a Udine durante la proiezione, protagonista assoluto del film è il Marukin, un glorioso sento che ha vissuto giorni migliori e che fa da ambientazione in un’anonima cittadina di provincia: si tratta di un vero e proprio gioiello dell'architettura dell'era Showa (1926-89) che la macchina da presa di Suzuki scruta con estrema attenzione ai dettagli, dalla fornace alimentata a legna alle bottigliette di latte aromatizzato.
La storia ruota intorno al gestore Goro (Gaku Hamada), assistito dalla solare Izumi (Kanna Hashimoto), che vorrebbero continuare la tradizione di famiglia, e a suo fratello maggiore Shiro (Toma Ikuta), un architetto di Tokyo in crisi professionale che, dopo la morte del padre, vorrebbe demolire il posto per farne un moderno condominio. Sullo sfondo tutto un coro di clienti abituali, le cui vicissitudini e stranezze danno adito a una serie di siparietti e spunti comici:, un cast ben assortito che recita a proprio agio nelle rispettive parti, da ricordare in particolar modo Fumiyo Kohinata nelle vesti di un fanatico seguace dello yudo.
Per molti aspetti affine a Thermae Romae, commedia cult già presentata al FEFF nel 2012, il film racconta in modo creativo e originale l’ordinaria ritualità dello yudo (“la via del bagno”) che fa dell’atto dell'immersione una vera e propria disciplina tramandata di generazione in generazione da maestri che ne hanno scandagliato l’estetica e la spiritualità, o più semplicemente un bel modo per alleviare lo stress e risvegliare piacevoli ricordi.
Per le nostre impressioni su alcuni degli altri film della venticinquesima edizione della rassegna udinese, vi lasciamo infine alla nostra notizia a tema.
Fonte consultata:
Sito ufficiale Far East Film Festival I, II
A fare incetta di premi il film malese Abang Adik del regista Jin Ong, al suo esordio dietro la macchina da presa, che porta a casa ben tre gelsi, tra cui l’ambito Gelso D’Oro come miglior film decretato dal pubblico, con una storia di fratellanza ed emarginazione che ha lasciato il segno ed è rimasta nel cuore del pubblico udinese.
Tutti i premi in ordine di assegnazione:
-Gelso Nero, premio Black Dragon della critica: Abang Adik, di Jin Ong, Malesia;
-Gelso Rosso degli utenti di “Mymovies”: The Sales Girl, di Janchivdorj Sengedorj, Mongolia
-Gelso per la Migliore Sceneggiatura al film Day Off, di Tien-yu, Taiwan
-Menzione speciale per l'Opera prima va a Lost Love, di Ka Sing-fung, Hong Kong
-Gelso Bianco per la Migliore Opera Prima al film Abang Adik, di Jin Ong, Malesia;
-Gelso D’Argento Audience Awards terzo classificato al film Yudo, di Suzuki Masayuki, Giappone
-Gelso D’Argento Audience Awards secondo classificato al film Rebound, di Chang Hang-jun, Corea del Sud
-Gelso D’Oro Audience Awards primo classificato al film Abang Adik, di Jin Ong, Malesia
ABANG ADIK: recensione breve
Ambientato in un quartiere degradato di Kuala Lumpur, il film narra di due giovani orfani senza documenti, Abang e Adik, che vivono ai margini della società cercando di tirare avanti alla giornata. I due hanno un temperamento diametralmente opposto: Abang (Kang Ren Wu) è gentile e remissivo, sgobba come un mulo nei lavori più umili e si adopera per migliorare le proprie condizioni nell’ambito della legalità; Adik (Jack Tan) è invece insofferente e ribelle, sceglie la strada dei soldi facili trafficando con i documenti dei migranti, è colluso con la malavita locale e si prostituisce. Entrambi sono originari della Malaysia ma vivono senza carta di identità, senza diritti ed esclusi dalla società. Legati uno all’altro da un rapporto simbiotico e viscerale che sfiora l’omosessualità, i due ragazzi vedono minato il loro legame quando si ritrovano coinvolti in un fatto di sangue. Sullo sfondo la metropoli tentacolare di Kuala Lumpur, in particolare il quartiere di Pudu Pasar, la zona dell’antico mercato della città brulicante di vita e compresso in spazi fisici (e psicologici) angusti e claustrofobici, dove convivono contrasti di lingue, culture e razze diverse. Nel film si parlano quattro lingue diverse: mandarino, cantonese, malese e inglese.
Il film esordisce quindi come un realista slice of life che racconta una storia di emarginazione e disagio sociale a base di ordinaria violenza quotidiana ma anche di personaggi edificanti e benevoli, come la transgender Money che si è sempre presa cura dei due ragazzi facendogli da madre, l’emigrata dal Myanmar innamorata di Abang costretta a rientrare nel suo paese, e l’assistente sociale Jia En che fa del suo meglio per aiutarli, prospettando loro una possibilità di uscire dalla clandestinità. Ma sono spiragli di speranza destinati a dissolversi quando, del tutto inaspettatamente, il film sprofonda negli abissi di un noir cupo ed esistenziale, scavando fino all’osso nella psicologia dei personaggi e nei loro sentimenti di solitudine e di gelosia. Sul finale il film racconta in qualche modo una storia di redenzione, dove il legame quasi patologico che lega i due personaggi e che li ha portati ad essere vittima e carnefice l’uno dell’altro in un perverso abbraccio fatale, finisce per liberare una delle due con l’estremo sacrificio in una sorta di rito di espiazione.
A chi non possiede niente, nemmeno i documenti d’identità, non resta che cercare di possedere disperatamente la vita degli altri, è quanto Abang e Adik sembra suggerire fra le pieghe di questa straziante storia di fratellanza. Pur lasciandosi andare ad alcuni eccessi melodrammatici, il linguaggio del regista/sceneggiatore Jin Ong è attentissimo alle minime sfumature psicologiche, coadiuvandosi della magnifica fotografia di Kartik Vijay, a base di colori caldi e avvolgenti, e cercando di dosare il pathos con un efficace utilizzo della colonna sonora di Katayama Ryota affiancata delle malinconiche digressioni della voce off.
Per concludere, il doppio ritratto dei due protagonisti funziona, risulta incisivo e fa molto male, al di là delle scene forti. Destreggiarsi fra i sentimenti umani è una caratteristica comune a molti cineasti orientali e la storia drammatica di Abang Adik, con le sue sfumature vagamente omoerotiche, lascia un segno profondo.
YUDO: recensione breve
A differenza delle onsen (tipiche stazioni termali nipponiche) i più umili sento (bagni pubblici) sono stati molto meno raccontati dal cinema. Un tempo molto frequentati, i sento hanno subito un fisiologico declino negli anni '70, quando i bagni privati si sono diffusi nelle case private. La commovente commedia di Masayuki Suzuki è un’ode alla cultura dei sento e offre agli spettatori un racconto immerso nella nostalgia, anche se ambientato nel presente.Basato su una sceneggiatura originale di Kundo Koyama (Departures, 2008), presente a Udine durante la proiezione, protagonista assoluto del film è il Marukin, un glorioso sento che ha vissuto giorni migliori e che fa da ambientazione in un’anonima cittadina di provincia: si tratta di un vero e proprio gioiello dell'architettura dell'era Showa (1926-89) che la macchina da presa di Suzuki scruta con estrema attenzione ai dettagli, dalla fornace alimentata a legna alle bottigliette di latte aromatizzato.
La storia ruota intorno al gestore Goro (Gaku Hamada), assistito dalla solare Izumi (Kanna Hashimoto), che vorrebbero continuare la tradizione di famiglia, e a suo fratello maggiore Shiro (Toma Ikuta), un architetto di Tokyo in crisi professionale che, dopo la morte del padre, vorrebbe demolire il posto per farne un moderno condominio. Sullo sfondo tutto un coro di clienti abituali, le cui vicissitudini e stranezze danno adito a una serie di siparietti e spunti comici:, un cast ben assortito che recita a proprio agio nelle rispettive parti, da ricordare in particolar modo Fumiyo Kohinata nelle vesti di un fanatico seguace dello yudo.
Per molti aspetti affine a Thermae Romae, commedia cult già presentata al FEFF nel 2012, il film racconta in modo creativo e originale l’ordinaria ritualità dello yudo (“la via del bagno”) che fa dell’atto dell'immersione una vera e propria disciplina tramandata di generazione in generazione da maestri che ne hanno scandagliato l’estetica e la spiritualità, o più semplicemente un bel modo per alleviare lo stress e risvegliare piacevoli ricordi.
Per le nostre impressioni su alcuni degli altri film della venticinquesima edizione della rassegna udinese, vi lasciamo infine alla nostra notizia a tema.
Fonte consultata:
Sito ufficiale Far East Film Festival I, II
Pur avendo assistito di persona mi cruccio della limitata selezione della sezione online per chi giustamente non sempre ha modo di presenziare. Il prezzo per l'edizione online è ulteriormente sceso, e forse avvicinerà qualcuno che ancora non conosce questa possibilità, ma è una mera consolazione rispetto alle gloriose edizioni del 2020/2021. Qualche numero:
edizione 2020: 46 film (38 in competizione) solo online causa lockdown (49€)
edizione 2021: 64 film (45 in competizione) di cui 62 online (45 in competizione, 6 documentari, 3 classici, 8 dedicati a due registi, 29,90€)
edizione 2022: 72 film (42 in competizione) di cui 28 online (21 in competizione, 12,90€)
edizione 2023: 78 film (43 in competizione) di cui 22 online (17 in competizione di cui 5 in modalità gala per un tempo limitato, 7,90€)
Come si può vedere il numero di film è aumentato rispetto agli scorsi anni, mentre si è ridotta la componente online. Questo sempre proporzionalmente al prezzo dell'abbonamento MyMovies che ti fatto è subentrato nella gestione dello streaming con il suo abbonamento MyMovies ONE. La motivazione ufficiale è che con l'interruzione delle misure anti-contagio e la riapertura delle sale, molti distributori non hanno più acconsentito a rendere disponibili questi film in streaming (inoltre alcuni sono premiere europee o mondiali, ma non so se questo fattore abbia influito). Cosa che continuerò a non capire perché in Italia difficilmente li vedremo più, salvo 2-3 titoli se va bene (Plan 75 con Bashio Chieko dovrebbe uscire a breve).
Fortunatamente quast'anno il titolo vincitore, Abang Adik, era visibile a tutti a differenza dello scorso anno in cui il vincitore Miracle: Letters to the President è stato visibile solo in presenza.
Almeno personalmente ho trovato il livello di quest'anno molto buono con dei picchi importanti.
Il film che mi è piaciuto di più in assoluto è stato proprio Abang Adik. Dopo la visione, al quarto giorno di festival e ancora scosso, sentivo che potesse vincere qualche premio. Quindi molto soddisfatto del risultato.
Vorrei aggiungere qualche appunto alla già ottima breve recensione di bob71.
Non mi trovo molto d'accordo che il rapporto tra Abang e Adik sfiori l'omosessualità. Il film non mi sembra darne indizio, piuttosto tratta il loro rapporto dando rilievo alla forte fratellanza e dipendenza forse più unita di una vera famiglia (ricordando che nel film non sono realmente fratelli), dove Abang prende il ruolo di fratello maggiore e padre surrogato per Adik, sfociando poi nell'epilogo a cui si è accennato. Questo dettaglio a parte, volevo in realtà sottolinare l'estrema bravura dell'attore che interpreta il personaggio di Abang (Kang Ren Wu), che forse non è stato citato essere nel film sordo muto, che ci regala un'interpretazione molto convincente che sfocia in un dialogo/monologo interamente a segni di grande intensità emotiva. A me ha lasciato il segno.
Spero fortemente che approdi da noi in qualche forma perché merita la visione.
Parentesi simpatica alla presentazione del film, lo sceneggiatore Koyama ha donato all'organizzatrice del festival una stampa del monte Fuji, come quelle dipinte in alcuni sento, e una di quelle bacinelle pieghevoli usate per sciacquarsi tipiche dei bagni pubblici ^^
Da casa -e in un periodo pieno di altri impegni- non sono riuscita a vedere molto, ma sono felicissima di aver potuto vedere quest'opera prima che mi ha veramente stupito!
Il lavoro di Jin Ong mi ha impressionato perché è al contempo feroce e dolcissimo: ritrae una realtà dura con uno sguardo estremamente lucido, una storia che non edulcora, non fa sconto alcuno, ma senza voler spingere alle lacrime. La fotografia è magnifica e ogni inquadratura sembra studiata con cura. Riesce a essere inclusivo senza mai risultare stucchevole.
È anche ben recitato: insomma spero che venga ripresentato da qualche parte perchè è un film facile da amare!
Mi volevo soffermare un attimo su Lost Love, che ha ricevuto una menzione speciale come Migliore Opera Prima.
Il film tratta il tema della maternità in modo inusuale, attraverso gli occhi di un genitore affidatario che vede intercambiarsi diversi figli in affido. Questo soffermandosi su gioie e dolori di questo ruolo: avere molto amore da dare ma non poter diventare una famiglia a tutti gli effetti in una sorta di limbo che non concede la completa felicità. L'ho trovato estremamente bello e delicato.
I film che ho potuto vedere:
In concorso
A light never goes out
Abang Adik
Ajoomma
Bad Education
December
Ditto
Egoist
Everyphone Everywhere
Full River Red
Gaga
Guilty Conscience
Hachiko
Hidden Blade
Killing Romance
Lost love
Mad Fate
Phantom
Phases of the Moon
She is me, I am her
Techno Brothers
The Abandoned
The Legend & Butterfly
The other child
The sunny side of the road
Vital Sign
Where is the lie
Where the wind blows
You & Me & Me
Your lovely smile
Yudo
Non in concorso
A moment of romance
Aum - The cult at the end of the world
Convenience Story
Plan 75
Swallowtail Butterfly
Tora-san - our lovable tramp
Perché accostare questi due film? Perché in entrambi come interprete c'è Watanabe Hirobumi, regista e attore per il primo, solo attore per il secondo (diretto da Lim Kah Wai). Lo stile di direzione è molto simile per entrambi (Your Lovely Smile è realizzato per sembrare uno dei film di Watanabe).
Personalmente non sono fa di questo tipo di comicità, che fa sorridere ma nemmeno troppo. Però risulta simpatico.
Techno Brothers non l'ho apprezzato molto (nonostante il cast si sia presentato in sala vestito allo stesso modo), mentre ho trovato in Your Lovely Smile qualcosa in più: il film parte come uno dei film di Watanabe ma nella seconda metà diventa il pretesto per un documentario semiserio sul cinema d'essai e le sale indipendenti (che ci ricordano l'esperimento di quest'anno del JFF Plus Indipendent Cinema), in difficoltà tra pandemia e piattaforme di streaming ma vero tesoro per un certo tipo di pubblico e registi. Il film mostra proprio alcune sale realmente esistenti con i rispettivi proprietari mentre Watanabe tenta di proporgli uno screening del suo film.
Parentesi simpatica 1: L'attore di December, Shogen Itokazo, ha posticipato il suo rientro in Giappone per godersi un po' il festival ma anche per apparire sul palco con Watanabe e Lim Kah Wai. Questo perché nel film di Kah Wai ha una particina odiosetta ma simpatica che non ci si aspetterebbe vedendolo ^^
Parentesi simpatica 2: Gli ultimi giorni di festival ho incrociato i fratelli Watanabe allo shop interno al teatro, in pantaloncini e zainetto, che si facevano riempire una borsa di gadget da farsi spedire ^^
Sono esattamente come nei suoi film XD
Parentesi simpatica 3: il video ricordo del viaggio di Watanabe in Italia https://www.facebook.com/watch/?v=187913733700666
Entrambi film epici vicini alle tre ore, non potrebbero essere più diversi.
In The Legend & Butterfly (di Keishi Otomo) si vede assolutamente il budget speso, le scenografie e le ricostruzioni di paesaggi ed edifici sono maestosi, il cast è ottimo così come la recitazione, le scene di combattimento pure. Difficile trovare un difetto oggettivo, eppure manca qualcosa, non l'ho sentito coinvolgente ed emozionante come mi sarei aspettato. Questo me l'ha reso un film pesante che forse poteva durare un'ora in meno, pur rimanendo notevole.
Full River Red (di Zhang Yimou) invece non era affatto ciò che mi aspettavo ma tutto ciò che avrei voluto The Legend & Butterfly fosse a livello di intrattenimento. Il film spiazza subito allontanandoci l'idea del film epico e mettendoci di fronte la premessa: un emissario di un altro regno è stato assassinato e va ritrovata la lettera che portava entro due ore altrimenti il protagonista verrà giustiziato. Questo apre ad un film che incorpora diversi generi (comico quasi slapstick, epico, intrighi, misteri e volta faccia, sacrificio e tragedia) e lo fa molto bene finendo per intrattenere e stupire di continuo fino alla fine senza annoiare pur conservando coerenza e dando un epilogo soddisfacente. Anche la musica accompagna il film in un modo che non ci aspettiamo ma assolutamente adatto a come si vuole rappresentare le diverse scene.
Due ex-coniugi devono venire a patti col passato per partecipare al processo di scarcerazione dell'assassina della figlia. Più che un legal drama è un film su accettazione e perdono, su dolore e compassione. Emotiva interpretazione degli attori.
In sala presenti Shogen Itokazo e Ryo Matsuura (rimasta fino a fine festival), due dei protagonisti principali. Sullo schermo hanno interpretato rispettivamente il padre e l'assassina della figlia in una contrapposizione sofferta che più che darci una morale mostra le sfaccettature di un'umana sofferenza alla ricerca di comprensione e chiusura col passato.
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