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10.0/10
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Mushishi è l’anima "shinto" di un Giappone tecnologico e futuristico che rimpiange la sua identità spirituale con lacrime di luce chiamate “anime”. Mai nulla nella storia dell’animazione giapponese aveva sfiorato così in profondità lo spirito shinto nipponico, e mi vien da pensare alla Fenice di Tezuka, mentre guardo estasiato, uno dopo l’altro, gli episodi di questa serie. In Mushishi certezze quali il tempo e lo spazio non esistono, sfumano in un costante vortice onirico che parla per sussurri, caldi e cordiali, alle orecchie e agli occhi dello spettatore.

La trama, sottile, galleggia in un vento tiepido che ricorda il Giappone Meiji, parlando di un uomo, Ginko, che vede ed interagisce con spiriti che lui definisce Mushi (in giapponese "insetto"). Ogni cosa ha un’anima, secondo le più antiche credenze nipponiche, così come ogni elemento presente al mondo ha uno spirito che lo protegge e veglia su di lui. Già Miyazaki ne “La città incantata” aveva toccato questo tasto, anche se in modo molto più soft. Mushishi riprende il discorso, lo amplifica, definendo i Mushi come creature primordiali, alla base della vita e non solo, anche della luce, del calore, e di ogni altra umana sensazione. A tratti Mushishi sembra essere un tributo ai grandi animatori e mangaka che in passato tanto hanno parlato di Giappone e spiritualità. Primo fra tutti, Miyazaki, ma anche Takao Yaguchi con il suo Sanpei, Jiro Taniguchi e in misura minore Tezuka e la Takahashi. E deve far riflettere come i più grandi nomi del fumetto nipponico siano così legati alla spiritualità e alla tradizione che il Giappone sembra aver perduto. Chi è allora questo Yuki Urushibara creatore del manga che ha dato il via a questo fenomeno? Un perfetto sconosciuto a quanto pare, che emerge dal marasma di animatori e mangaka per stagliarsi, senza se e senza ma, tra i creatori di qualcosa d’immortale. Mushishi è appena nato ma è già una leggenda. Nel nostro paese, quando era ancora un anime fansubbato di pochi episodi (si parla di tre anni fa), era già un cult. Il merito va a quell’Hiroshi Nagahama che ha animato e diretto la serie, rendendola con le sue scelte artistiche, un prodotto di pregio notevole.

Mushishi è lento come le stagioni, travolgente come i temporali e sa essere sia freddo come un inverno buio, che torrido come un’estate afosa. Tutte queste sensazioni sono trasmesse da due fattori: in primis la trama delle puntate, seducente e mai uguali anche se autocolusive e fini a se stesse. In secondo luogo una grafica tra le più accattivanti mai create, superata, a mio avviso, solo dall’ancora ineguagliato Seirei no Moribito. Il disegno è pulito, senza fronzoli artistici eccessivi ma efficace. Gli sfondi sono pregevoli, dipinti con maestria a regola d’arte. Una luce armoniosa e ben distribuita, si amalgama dallo sfondo ai personaggi. La key animation è ben curata. Impressionanti le musiche, lente, calme, pacate, come il soffio dell’armonica che da il via all’opening.

Ma in sostanza di cosa stiamo parlando? Di un evento a mio avviso, di un prodotto destinato a segnare il passo, che stravolge le trame classiche e non si infila in nessun genere, restando simile solo a se stesso. I Mushi, gli esserini che Ginko vede e con cui interagisce, sono così singolari e unici nel loro genere che difficilmente si possono riassumere col nome di “spiritelli”. In Mushishi quell’anima shinto, insita in ogni giapponese, sfocia in un’opera bella, intelligente, dai toni calmi e riflessivi. Da gustarsi in poltrona con una tazza di tè alla sera, prima di andare a dormire. Dieci.