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"Mononoke Hime" è un lungometraggio dello studio Ghibli diretto dall'arcinoto guru dell'animazione giapponese Hayao Miyazaki, che ne cura anche il soggetto originale e la sceneggiatura.
Il suo zampino è nitidamente riconoscibile a prescindere dal dato tecnico e grafico, che peraltro si conforma senza ombra di variazione al classico modello "ghibliano".
Lo spettatore ormai avvezzo alla poetica del "maestro" non potrà non notare il ciclico riproporsi delle tematiche a lui più care, in questo caso la dicotomia uomo-natura, filtrata chiaramente attraverso le lenti distorte dell'idealismo ambientalista e "tecnofobo" tipico delle sue opere.
Tuttavia, considerando il quantomai vasto repertorio cinematografico di tale "incommensurabile autore", "Mononoke Hime" è destinato a essere ricordato come uno degli esemplari più singolari e atipici: se da un lato non si rischia certo di cadere nell'originalità, richiamando e riproponendo concettualmente il ben noto "Nausicaa della valle del vento", dall'altro il maestro opta per un tenore molto crudo a lui decisamente insolito, forse azzarderei dire alieno.
Il rapporto conflittuale tra l'uomo e la natura viene infatti trattato con un eccesso smodato di enfasi, tanto da rivelarsi fin troppo estremizzato ed estenuato. Si assiste a una vera e propria sovrabbondanza idiosincratica di violenza, odio e sangue che cerca di imporre a tutti i costi il dramma di tale atavico antagonismo, quasi a volerlo "sbattere" platealmente in faccia allo spettatore per (co)stringerlo in una struggente morsa di commozione.
A ben vedere si tratta di un fattore che non dovrebbe stupire del tutto, in quanto il maestro si è sempre mostrato maggiormente abile nell'entertainment e nel suscitare emozioni, più che nel lavorare di concetto. Nondimeno a mio avviso qui si perde il senso della misura tanto da rendere pesante la narrazione ed eccessivamente lungo il film.

A dispetto di quanto poc'anzi affermato, tuttavia, la problematica che l'opera si propone di rappresentare viene gestita abbastanza bene per tutto il corso del lungometraggio, sebbene si cerchi in ogni modo di gettare alle ortiche buone occasioni senza sfruttarle a dovere.
Se infatti da un lato si propongono con intelligenza degli spunti simbolici molto interessanti, come la "Città del ferro", il "Dio Cervo" e il correlativo insieme di sviluppi del conflitto (che vede la guerra come aspetto intrinseco dell'animo umano), dall'altro non si riesce a superare una visione d'insieme del tutto banale, messa nero su bianco. Si avranno quindi gli animali difensori della foresta, della natura, e l'uomo carnefice, che non esita a distruggere e ad avanzare egoisticamente le proprie pretese.
Non ci si può fingere ciechi innanzi a cotanto spreco di eccellenti possibilità, scagliate impietosamente nel fango a favore di una risoluzione essenzialmente sterile. Ciò in riferimento precipuamente alle figure dei due personaggi principali e alla conclusione.
Ed ecco che ci accingiamo quindi a considerare Ashitaka, un protagonista assolutamente anonimo e piatto, il principe eroico e puro che non sembra avere nulla di umano. La sua figura, come portatore della maledizione, sarebbe potuta risultare incredibilmente umana, colma di dubbi e incertezze relative alla sfera etico-morale, ma non si può certo chiedere a Miyazaki di venire meno alla sua ideologia indefessa. Si presenta invece un personaggio totalmente pianeggiante, un manichino nelle mani del regista che cerca di contemperare le posizioni.
Passiamo all'altro grande protagonista di questo film: la principessa degli spiriti vendicativi, San. Concederle il titolo di protagonista sembrerebbe, all'estensore di questa recensione, quantomeno eccessivo dato lo spessore della sua figura, da approssimare comodamente allo zero assoluto. Costei, lo stipite tra animale e uomo, il punto di contatto tra le due fazioni, la figura che potrebbe essere la chiave di volta per comprendere il senso dell'odio che scorre tra i due gruppi e centro della riflessione dell'intero film non si pone dilemma alcuno. Agisce viceversa solo in base alla convenienza dello sceneggiatore, il suo apporto alla tematica appare concettualmente pertanto sterile e scontato, in quanto il simbolismo che soggiace al personaggio sembra quasi involontario.
Fa sorridere inoltre l'ennesima storia d'amore tra i due protagonisti, sempiterno cliché Ghilbli, totalmente assurda in quanto scaturita nel giro di pochi fotogrammi e, per di più, tacitamente.

Arriviamo dunque alla sequenza a mio avviso peggiore: il finale.
La conclusione di "Mononoke Hime" si poteva prevedere ancora prima di accingersi alla visione. Tale non sarà altro, infatti, che l'epilogo assolutamente banale in cui vige la regola della redenzione automatica e indifferenziata compiuta a ogni costo innanzi alla sacra natura. La soluzione che viene data della problematica è quindi totalmente insoddisfacente e forse anche in antitesi rispetto al regime precedente, ben più disincantato e che non lasciava margine a grandi speranze. In ogni caso non ci si salva dal lieto fine tanto caro al regista, decisamente carente di considerazioni di un certo rilievo.
Per di più la punizione inferta dal dio all'uomo per il suo efferato crimine si rivela del tutto irrisoria, addirittura quasi inesistente.
Traspare inoltre dalla visione del film una forte condanna nei confronti "dell'odio" che sta alla base della lotta per la sopravvivenza, il che chiaramente è una conclusione del tutto contro-natura e alterata da una visione morale della medesima che va ben oltre la sacertà: ovviamente la natura stessa non può essere mossa da intenti egoistici. Chiarificatrici le ultime parole di Eboshi in merito, che lasciano poco spazio a dubbi interpretativi.

Un occhio di riguardo deve essere riserbato invece ai lati più interessanti dell'opera, quali ad esempio il "femminismo" (a dire il vero non si tratta propriamente di femminismo, ma l'espressione rende l'idea) miyazakiano: l'importanza dal regista conferita alle figure femminili in generale mi ha in verità trovato compiacente. In particolare il personaggio di Eboshi, unico raggio di luce nell'oscurità, si dimostra veramente interessante all'interno del film, senza dimenticare il gruppo di donne della città di ferro, conferiscono un sapore matriarcale alla piccola società che viene a delinearsi. La peculiarità di Eboshi è quella di essere la donna emancipata, libera da ogni vincolo e prodiga verso la sua gente. E' uno spirito libero e forte che non stenta di anelare al confronto con la divinità; si pone così un elemento che rompe lo schema bianco-nero per introdurre un' "umanizzazione" dell'uomo, un mostrare le sue ragioni di sopravvivenza. Purtroppo la sua figura si rovina nel finale.
Altro aspetto enormemente positivo è la realizzazione grafica, assolutamente eccellente, ha superato ogni mia aspettativa. La fluidità dell'animazione, la bellezza dei fondali, la cura dei dettagli, soprattutto della flora e degli ambienti: sono realizzati in modo stupefacente (ricordandoci che parliamo di un'opera datata 1997). Le musiche sono belle ed evocative e contribuiscono grandemente al lirismo di molte immagini, per un risultato oltremodo suggestivo.

Tirando le somme, "Mononoke Hime" è un film capace di un impatto emotivo molto forte, ma che manca di personaggi all'altezza e di una sceneggiatura adeguata. Personalmente credo che i fan più nostalgici del maestro non lo apprezzeranno molto, poiché viene a mancare quella leggera spensieratezza quasi magica propria di opere come Totoro, mentre soddisferà probabilmente un pubblico eterogeneo e senza molte pretese, che si accontenti di una storia piuttosto lineare e concettualmente semplice ma che si rivela poetica e suggestiva.