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Sono tante le opere che dalle premesse non lasciavano trasparire nulla di nuovo rispetto a quanto già era stato detto innumerevoli volte, salvo poi superare ampiamente le previsioni. Come sono tante le opere che infine hanno ugualmente deluso le aspettative, rivelandosi nulla di più che un tentativo di autonomia mal riuscito. Hai to Gensou no Grimgar ("Grimgar di fantasia e cenere"), serie televisiva prodotta dall'ormai sempre più acciaccato studio A-1 Pictures per la stagione invernale 2016, appartiene proprio a questa categoria di prodotti: ostentando una poesia spicciola e millantando una profondità contenutistica che non gli appartiene neanche nei suoi momenti più alti, l'anime non fa che esibire il solito canovaccio ormai tristemente abusato fino alla nausea.

Tratto da una light novel di discreto successo, nel rappresentare le vicende di uno sgangherato gruppetto di adolescenti calato in un universo pseudo-fantasy a loro ostile Hai to Gensou no Grimgar, alle battute iniziali, pare tenere fede agli schematismi introdotti qualche anno or sono dal ben più celebre Sword Art Online: la dimensione nella quale i protagonisti sono inseriti sembra fin da subito ricalcare il modello stereotipato del videogame dai tratti RPG, con tanto di classi da scegliere, party da formare, armi da equipaggiare e abilità da imparare e utilizzare in battaglia. Ma l'opera altrettanto celermente cambia direzione, finendo per trattare l'elemento "gioco di ruolo" come un semplice contesto peraltro piuttosto indefinito, per concentrarsi quasi esclusivamente sugli aspetti slice of life (di impatto piuttosto scarsino) del gruppetto di sei adolescenti alle prese con i propri ormoni in subbuglio. Grande spazio viene dunque lasciato al fanservice, che di fatto diviene l'unico mezzo attraverso il quale delineare la caratterizzazione dei nostri personaggi: Haruhiro, il protagonista, resta una macchietta dall'inizio alla fine, in costante balìa della corrente che lo sballotta di qua e di là; il cavaliere nero Ranta incarna il solito personaggio pervertito e scontroso dalla lingua sagace, la cui utilità principale è quella di battibeccare con le due ragazze del gruppo, il cui unico spessore è dato dalle loro voluttuose curve; il chierico Manato è il tipico personaggio-chioccia bello, abile, dolce, premuroso e pressoché privo di difetti che fa da "fratello maggiore" a tutti gli altri, e via di questo passo. Nulla di nuovo sotto il sole dunque, e seppur numerosi indizi suggeriscano che i ragazzi proverrebbero da una dimensione quantomeno simile alla nostra, la cosa non sembra affatto importargli. Non si fanno domande riguardo al mondo in cui vivono, né si pongono questioni circa la loro origine: si limitano ad accettare tutto quanto gli capita in modo del tutto passivo e ignorante.

Nonostante l'introspezione sia dunque assolutamente inesistente, l'opera prova a nascondere cotanta pochezza dietro a una coltre di fasulla "poeticità", intessendo una fitta (quanto stucchevole) rete di relazioni, problemi e imbarazzi adolescenziali, grazie anche alla pachidermica regia di Ryōsuke Nakamura. Il regista, celebre per aver diretto il lungometraggio dalle simili atmosfere Nerawareta Gakuen, pone gran parte dell'attenzione sugli appariscenti fondali e sulla vibrante colorazione ricca di lens flare, sfumature e gradienti, nel forzatissimo tentativo di annebbiare i sensi dello spettatore attraverso una pesantissima quanto superflua confezione grafica; i ritmi sono estremamente lenti - avremo infatti interi episodi di penuria totale -, resi ancor più dilatati da una colonna sonora calma e rilassante che fa dell'(ab)uso di anonime insert song la propria personale cifra stilistica.
In mezzo a tutto questo nulla confezionato ad hoc per "mungere" emozioni dallo spettatore, le piatte e melodrammatiche interazioni tra i personaggi sono quanto di più lontano da un character development degno di questo nome: la loro unica finalità sarà quindi quella di dare un po' di "brio" all'ambientazione, tra l'inquadratura del didietro di una ragazza e la balbuzie iper-moe dell'altra.

Tuttavia dal quarto episodio la serie, che pareva aver intrapreso la strada dello slice of life di poche pretese, cambia nuovamente direzione - forse persino involontariamente. La morte, come una doccia gelida, colpisce il gruppo e getta i suoi membri nel più completo sconforto, tracciando quella che da lì in poi sarà la tematica principale della serie: il dolore della perdita. Che la morte tocchi i protagonisti o che invece interessi le fazioni nemiche, la sua ombra aleggerà sul gruppo di ragazzi fino alla fine, complice un comparto narrativo più volte votato al semplice flusso di coscienza. Hai to Gensou no Grimgar sembra voler dire che, in netto contrasto con la natura "fantastica" e quasi videoludica del mondo in cui i personaggi sono intrappolati, la morte è presente, è definitiva e va accettata: cenere alla cenere e polvere alla polvere, per citare un concetto biblico che ben si sposa con il titolo della serie. L'unico (ma grave) problema, come sempre, sta nell'esecuzione. Perché seppur trattare un simile argomento sia un obiettivo senz'altro nobile negli intenti, l'autocompiacimento purtroppo ha come unico risultato quello di produrre l'effetto opposto.
La perdita qua non viene dunque posta e analizzata come tema principale, ma viene strumentalizzata come un mero plot device atto a mettere in scena un nauseante overdrama fine esclusivamente a sé stesso: copiosi piagnistei spesso accompagnati da una luce soffusa e da evocativi freeze-frame acquerellati si affiancano dunque alle scenette di vita quotidiana, appesantendo ulteriormente la narrazione con banali riflessioni strappalacrime e agghiaccianti ovvietà quali «ma allora anche i goblin non vogliono morire», gettate nel calderone di frasette a effetto volte a fare leva sullo spettatore più sensibile. È d'altronde risaputo come il dramma gratuito riesca sempre a riscuotere consensi nel pubblico, per cui una scelta simile a livello di apprezzamenti immediati si dimostra assai più rapida e "furba" di quella che avrebbe potuto essere una seria disamina sul tema sopracitato.

È dunque con certezza che mi vedo costretto a bocciare una serie sicuramente caratterizzata da discrete potenzialità, che ciononostante fallisce in tutto quello che prova a raccontare. Hai to Gensou no Grimgar non funziona come action-fantasy, non funziona come riflessione sulla perdita, non funziona come slice of life, non funziona neanche come racconto di formazione; i suoi deboli tentativi di prendere il largo dal coacervo di prodotti copia-incolla che al giorno d'oggi infestano il mercato dell'animazione giapponese si rivelano totalmente fallimentari, poiché l'opera pur presentando diverse idee interessanti non riesce a intraprendere una strada decisiva, ma finisce per annegare negli stessi stereotipi che prova a rompere, complice forse anche il desiderio di voler ottenere tutto e subito.
Una seconda stagione è quindi d'obbligo, perlomeno ai fini di fornire delucidazioni sulle tante incongruenze di trama; la prima, dal mio punto di vista, è totalmente insufficiente.