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9.0/10
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A detta di Nobuhiko Obayashi, regista, produttore e addetto agli effetti speciali di House ("Hausu", 1977), fu sua figlia Chigumi – all'epoca frequentante il sesto anno delle elementari –, a suggerirgli l'idea di una casa che divorasse i propri abitanti. Mentre si stava pettinando davanti allo specchio del bagno, la ragazzina iniziò a fantasticare su quanto sarebbe stato terrificante se il suo stesso riflesso, in quell'attimo, fosse uscito dallo specchio per mangiarsela. Il padre, colpito e affascinato da quest'insolita immagine, chiese alla figlia cos'altro all'interno della loro casa avrebbe potuto attaccarla: «a volte, mentre suono il piano, le dita iniziano a farmi molto male; mi sento come se la tastiera me le stesse masticando». Incoraggiata dal padre, la piccola Chigumi Obayashi continuò così a concepire orrori nati dalla propria casa: fu in questo modo che, lentamente, iniziò a prendere forma la struttura narrativa e l'approccio visivo di House.

House, a quasi quarant'anni di distanza dalla sua uscita, rappresenta ancora oggi il picco massimo raggiunto dal suo regista – all'epoca esordiente – Nobuhiko Obayashi: ciò che l'autore mette in scena è un personalissimo esperimento tecnico-visivo-simbolico che di fatto non ha eguali nell'intera storia del cinema, tanto da essersi meritato a pieno titolo nel corso degli anni l'appellativo di cult movie in tutto il mondo. La pellicola è evidentemente il prodotto di un autore talmente innamorato del mezzo filmico e delle sue possibilità artistiche da volere a tutti i costi oltrepassare i limiti imposti delle potenzialità a propria disposizione, sfidando ogni logica e convenzione; il risultato è un film folle, visionario, che trasuda creatività ed estro registico da ogni poro; un caleidoscopio di colori, suoni, iniezioni ultra-pop e soluzioni visive deliranti, che spreme la psichedelia tipica degli anni Sessanta e Settanta fino a trascenderne gli stessi limiti strutturali.
E l'eclettismo di questo prodotto – che sovverte e riscrive le regole del cinema horror per fini come quello di ironizzare sulla concezione del Giappone rurale dell'epoca – non può che essere elevato oltre il mero divertissement di genere: House è un esempio di cinema completo e strabordante, un film dove la forma prende il sopravvento sul contenuto fino a diventare essa stessa contenuto, dove le contaminazioni sono alla base della sintassi e dove l'autoralità assume un ruolo determinante.

La storia prende il via quando una bella studentessa delle superiori (Kimiko Ikegami), soprannominata Oshare ("Angel") per il suo dolce aspetto, sentendosi profondamente offesa per la decisione del padre di volersi risposare con un'altra donna, decide di trascorrere le vacanze estive lontana da lui. Si reca dunque insieme a un gruppetto di sei amiche a casa della zia materna (intrepretata dalla diva della Nikkatsu Yōko Minamida), con l'intento di recuperare gli ormai offuscati ricordi della propria infanzia: ma, purtroppo per loro, il sinistro edificio ben presto si rivela essere una casa stregata sotto il comando della zia, intenzionata a divorare le anime delle sette giovinette.
Da qui in poi, ciò a cui assisteremo sarà un impressionante gioco al massacro che si sviluppa tra sperimentazioni visive e registiche, scene da incubo intervallate a effetti speciali surreali, strizzate d'occhio alla commedia slapstick, immagini della bomba atomica, architetture barocche inondate da luci avant-pop, nonché innumerevoli citazioni ai grandi classici dell'horror, sia letterari che cinematografici.
E penso sia inutile dire come la produzione di un film di queste proporzioni fu, all'epoca, un vero e proprio travaglio.

L'allora trentasettenne Nobuhiko Obayashi, già noto nel circuito indipendente per i suoi apprezzati cortometraggi pubblicitari e per la sua creatività tecnica, venne incaricato dalla tradizionalista casa di produzione Toho Company di scrivere un film commerciale che ricalcasse almeno in parte la scia del successo ottenuto in quell'anno dal celebre Lo squalo (1975), di Steven Spielberg. Con quella che sarebbe poi diventata la sceneggiatura di House, scritta dall'amico Chiho Katsura su un soggetto della figlioletta all'epoca undicenne, il regista si recò alla Toho proponendo ai produttori la propria opera: ma di fronte all'iniziale, categorico rifiuto, ci vollero ben due anni di autopromozione (nacquero romanzi, sceneggiati radiofonici e fumetti a tema House) perché la notorietà del titolo fosse sufficientemente radicata da spingere gli studi ad avviarne la produzione. Lo stesso Obayashi subentrò nel ruolo di regista, ottenendo dunque la strada spianata per la creazione di quello che diventerà il suo film più personale e autorale: una delirante favola horror che anche all'uscita ottenne un successo inaspettato.

Con i suoi metodi anticonvenzionali e la sua carica visionaria, Obayashi sconvolse letteralmente gli allora retrivi studi di produzione. House è stato un vero fulmine a ciel sereno, che distanziandosi dal topos anche fin troppo abusato della "casa stregata" si sublima in uno straniante trip lisergico adolescenziale in costante bilico tra comedy, horror, melò e persino musical; attraverso un ritmo furibondo, il talento iconoclasta dell'autore emerge in una folle e psichedelica concatenazione di eventi parossistici ed esageratissimi, che stravolgono completamente i canoni dell'horror mantenendo al contempo intatta una carica gotica di inarrivabile eleganza. Obayashi pesca a piene mani tanto dall'avant-garde quanto dai trucchi cinematografici che si rifanno al cinema delle attrazioni di Méliès, componendo un quadro immaginifico che di fatto è un esperimento progressista ante litteram dal retrogusto squisitamente antiquato: House negli anni Settanta aveva lo stesso fascino rétro che conserva tuttora, nel suo essere completamente avulso a ogni logica ed estraneo a ogni tempo.

Magistralmente fotografato con le leggere cineprese Panavision (che permettevano una maggiore mobilità rispetto alle ingombranti Mitchell adoperate fino ad allora nelle pellicole della Toho), il lungometraggio mette in scena una straordinaria varietà di tecniche visive – frammentazioni dello schermo in raffinatissime cornici, iper-saturazione dei colori, filtri psichedelici, movimenti stroboscopici, trucchi analogici da spot pubblicitario, e via discorrendo –, proponendo inoltre una messinscena e dei movimenti di macchina che anticipano di anni quelli visti nell'assai più celebre La casa di Sam Raimi; un'altra celebre caratteristica dello stile del suo autore è la manipolazione del tempo, ottenuta assemblando il materiale visivo attraverso velocizzazioni esasperate, ralenti improvvisi e ripetizioni ritmiche delle stesse scene in brevi intervalli di tempo, per enfatizzare i momenti climatici – emblematica è la straordinaria sequenza della trasformazione di Oshare, in cui il tempo rallenta progressivamente fino a quasi fermarsi. Le stesse tecniche di animazione in stop-motion vengono adoperate dal regista per riuscire a dislocare a piacimento i personaggi senza che essi stessi si muovano, come nella scena in cui l'insegnante con il fondoschiena incastrato in un secchio evita per un pelo di essere investito da un'automobile, ottenendo un effetto comicamente irrealistico. La malleabilità del tempo è in parte un concetto che Obayashi riprende dal regista francese Jean-Luc Godard, uno dei più grandi esponenti della Nouvelle Vague, che fin dagli anni Sessanta – con le sue opere stilisticamente innovative e totalmente svincolate dai canoni del découpage classico – esercitò una grande influenza sull'autore nipponico.

In aggiunta alle notevoli tecniche di montaggio, House può dirsi un film di grande eclettismo anche per la seminale intelligenza con la quale fonde diversi media e diversi linguaggi in un unico, vulcanico amalgama; molte sequenze sovrappongono il materiale live action a psichedelici scenari dipinti a mano, in un collage analogico che ancora una volta riprende le tecniche di interpunzione degli albori del cinema (come l'effetto iris). Obayashi dimostra dunque una maturità artistica fuori dal comune, riuscendo a portare al limite le possibilità espressive del proprio mezzo con una naturalezza e un'autoironia uniche nel suo genere, e soprattutto passando al setaccio differenti linguaggi visivi per poi manipolarli a proprio piacimento. Scenografie dipinte a mano che sfociano in emblematici tramonti dal sapore melò, sequenze grafiche talmente elaborate che meriterebbero una disamina fotogramma per fotogramma e stroboscopiche incursioni nell'animazione tradizionale vera e propria sono solo alcune delle svariate implementazioni inserite dal regista nel suo capolavoro: House si dimostra nettamente in anticipo sui propri tempi, accostando senza alcuna esitazione folgoranti innovazioni tecniche alla pura genialità creativa.

Lo stesso impianto audio, che riprende alcune soluzioni collaudate dal regista nel suo cortometraggio in 16mm Émotion (1966), si dimostra ineccepibile nel suo sfrenato manierismo. Le dolci sonorità dell'eterea colonna sonora composta dal duo Kobayashi-Yoshino si ritrovano di sovente squarciate da improvvise dissonanze, voci fuori campo e stridenti suoni naturali: Obayashi sperimenta facendo un uso sovrabbondante del riverbero e immettendo nel comparto sonoro echi inquietanti ed esasperati, che si fanno metafora dell'intimità e della distanza tra i personaggi.
Per esempio, in una lunga sequenza che vede Oshare trasportare la zia sulla sedia a rotelle circondata dalle altre ragazze, i dialoghi tra zia e nipote sono stati registrati in modo che le voci risuonassero con un timbro intimo e isolato, come se stessero comunicando telepaticamente; al contrario, le conversazioni della zia con le altre ragazze sono registrate con un ampio rumore d'ambiente. Questi repentini cambi di tonalità di fatto destrutturano la stabilità della dimensione spaziale ed emotiva della scena, trasferendola all'interno di un immaginario onirico e "sospeso", seppur venato di un sottile romanticismo.

House d'altronde manifesta spesso una notevole brillantezza nel riuscire ad amalgamare la dimensione romantica – sia estetica che contenutistica – con gli schematismi formali del genere horror, macchiati a loro volta da una forte componente grottesca. Prendendo ispirazione dalle atmosfere e dall'immaginario del regista italiano Mario Bava (tanto che inizialmente Obayashi era intenzionato a distribuire il film usando uno pseudonimo che, in caratteri giapponesi, potrebbe essere letto come "Baba Mario"), l'autore nipponico pone una grande attenzione sulla creazione di un ambiente suggestivo e surrealistico: come nell'antesignano Operazione paura (1966) di Bava, Obayashi arreda la sua "villa maledetta" con specchi distorti, orologi a pendolo, bambole dall'aspetto sinistro e architetture stilizzate e orrorifiche, che mettono in rilievo forme distorte, prospettive iper-espressioniste e un uso irrealistico dello spazio – grazie anche a una fotografia sempre fusa nell'ambiente circostante, come dimostrano le varie inquadrature filmate attraverso le finestre, da sotto le assi del pavimento o lungo le scalinate.

Persino il gore è dipinto in chiave esagerata, quasi caricaturale, e mentre assistiamo al massacro compiuto ai danni delle povere studentesse ciò che ci troviamo di fronte è un'escalation di situazioni grottesche, bizzarre, che si susseguono senza logica alcuna: un pianoforte indemoniato che divora chi lo sta suonando, un tornado di cuscini e materassi poltergeist che stritolano una ragazza, gatti satanici, teste volanti, dimensioni parallele dal sapore lisergico, geyser di sangue che inondano (letteralmente) la casa, e via discorrendo. Eppure, benché nascosta da questo delirio visivo, ciò che emerge è una lucida e spietata crudeltà che non lascia alcuno scampo alle sette studentesse, trascinate senza nemmeno accorgersene in una catena di odio e violenza senza fine. Con quest'opera il regista voleva tracciare un confine tra le due generazioni che dimoravano nel Giappone degli anni Settanta: quella degli adulti, che aveva vissuto in prima persona gli orrori della guerra, e quella degli adolescenti, che non essendo stata toccata da una simile tragedia non si rendeva conto dell'importanza della pace. Infatti il trauma della guerra, incarnato dalla lugubre zia rimasta vedova dopo la morte del marito aviatore, si manifesta in un'inarrestabile spirale di rancore che risucchia e consuma la nuova generazione, ignara del peso gravante sulle spalle del nucleo famigliare. Il film di Obayashi mette in scena il risentimento di una famiglia rurale (e tradizionalista) giapponese maledetta dall'odio e dalla Storia, che a sua volta scatena la propria vendetta su quella generazione di "giovinetti entusiasti" che ingenuamente pensano di poter vivere liberi dai vincoli del passato.

Con la carica sentimentale e (ironicamente) melensa che avvolge la pellicola, spesso esasperata da scenografie dipinte a mano, dolci musiche al pianoforte e luci soffuse che donano una patina quasi onirica all'opera, il regista pone inoltre le basi per quella che sarà in futuro una tematica chiave della sua poetica: il rapporto tra il romanticismo e il desiderio. In House la dimensione sentimentale è rappresentata con un'aria sinistra, morbosa, spesso legata alla sfera sessuale delle ragazze, che a poco a poco ne vengono inesorabilmente consumate; emblematica è la scena in cui Melody suona assiduamente la melodia della villa al pianoforte, ricavandone un piacere quasi carnale, poco prima di essere fagocitata da esso. Il film infatti è traboccante di simboli e riferimenti alla sessualità femminile, ed è stato inoltre il prodotto cinematografico che in Giappone ha aperto la strada alla corrente lolicon (in cui le ragazzine vengono rappresentate in atteggiamenti e situazioni provocanti).

Nobuhiko Obayashi, grazie alla sua perizia tecnica, al suo estro artistico e soprattutto al suo smisurato amore per i film, ha fatto ciò che nessuno alla Toho dell'epoca ebbe mai il coraggio di fare: prendere l'horror commerciale puro e spogliarlo di tutti i suoi stilemi più classici, contaminandolo allo stesso modo con i codici dell'avanguardismo e della produzione pubblicitaria televisiva, in una deflagrazione di sperimentalismo e cultura pop in netto anticipo rispetto ai propri tempi. E nonostante l'autore continuerà a realizzare film per i successivi quarant'anni, non ritroverà mai quella carica anarchica e squisitamente personale che caratterizza il suo capolavoro, o perlomeno non a questi livelli.
House, come lo stesso Obayashi ammette tranquillamente, è l'opera di un (bravissimo) regista convinto che non gli capiterà mai più la stessa occasione. E infatti è ancora oggi considerato uno dei massimi film di culto della cinematografia globale, una truce favola dadaista che segna un periodo di svolta nella storia del cinema giapponese, e non solo.