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8.0/10
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Tadao Tsuge, fratello minore del leggendario Yoshiharu, potrebbe essere definito, a ragione, un artista operaio. Egli infatti non viveva di certo con i manga, ma lavorava un po’ ovunque e disegnava nel tempo libero, almeno per gran parte della sua carriera. Prendiamo ad esempio il suo lavoro in una “fabbrica” del sangue dove poi – data la scarsa attenzione all’igiene di allora - probabilmente riscontrò una forma acuta di epatite C. In un capitolo di questa raccolta si parla proprio di prelievi ma non è il solo esempio di narrazione vissuta sulla pelle, egli infatti descriveva esattamente il suo ambiente, il sessantotto, fatto di povertà e violenza, in cui per molti la guerra è un ricordo ancora vivido ed indimenticabile.
Come gran parte degli adepti del Gekiga egli affronta soggetti cupi ambientandoli nei vecchi squallidi bassifondi di Tokyo, di preciso nella “città bassa”, che furono rasi al suolo durante la seconda guerra mondiale.
L’attenzione nei confronti della realtà è certosina, quello che lui riesce a riportare nelle sue storie è la rappresentazione veritiera di uno squallore destinato ad essere patria solo del “pattume umano”.
E’ come se non tutti fossero stati in grado di superare la vergogna della guerra e l’altra patria, quella dei ricchi, degli industriali, non tendeva una mano ma li affossava con un calcio assestato.
Spinti sempre più in basso quei derelitti vivono una vita sin troppo distante, di arretratezza e immoralità, magari costretti a vendere il proprio sangue per vivere, come ci illustra il capitolo omonimo, Trash Market, che appunto sta per mercato dei rifiuti.

C’è una grande differenza nelle storie di Tadao rispetto al Gekiga di Tatsumi, in primis la lunghezza dei racconti decisamente maggiore e i dialoghi più fitti. Questo gli permette di approfondire maggiormente il racconto, infatti risulta meno compresso e le tematiche vengono sviluppate in profondità. Tadao si prende i tempi giusti per indagare la psicologia dei suoi personaggi, dei rapporti che hanno tra di loro e con il mondo del lavoro, egli si sofferma sui piccoli dettagli e ovviamente la trama non ha la ben che minima importanza.
Un’altra differenza sta nel modo di costruire questi dialoghi, infatti sono molto curati e realistici, egli sonda la psiche e non si ferma a documentare la quotidianità, questo è un vero manga dell’io.
Dunque affronta problematiche esistenziali che vertono sul lavoro e il suo significato, il rapporto con la famiglia o le spese inutili dei ricchi. Per Tadao il lavoro non è nobilitante, i suoi personaggi lavorano per campare e non crede che possano mai rimettersi in posizione retta.
Le crisi e le lotte all’interno della famiglia vengono gestite senza esagerazioni ma sono strazianti e la causa di solito è sempre la povertà.
La vita non ha senso, è l’incipit di un suo capitolo, ed è molto facile capire il perché di questo azzardo.

La grande forza dei suoi manga è sicuramente l’impianto sceneggiativo, in grado di competere con un Tatsumi a pieno regime, ma forse Tadao Tsuge non è un disegnatore al livello degli altri. Di solito il suo tratto è un po’ più realistico, infatti amava la fotografia, e meno tondeggiante rispetto a quello del fratello Yoshiharu e compagni, anche se negli ultimi 2 capitoli, soprattutto il penultimo, che hanno una certa dose di fantasia e sono più frammentari il suo tratto si sposta sul caricaturale ricordando vagamente Seiichi Hayashi. Certamente il tratto è marcato come da tradizione del Gekiga, e non potrebbe essere altrimenti, infatti questo stile è adeguato a trasporre il dolore, poi utilizza spesso un pennino sottile, così come tende ad operare pesanti ombreggiature sui personaggi; inoltre gli sfondi sono meno dettagliati e, sebbene i suoi manga sono più dialogati, la fruibilità resta alta.

In definitiva questa raccolta che va dal ’68 al ‘72 è piena zeppa di disagio vissuto in prima persona, ogni capitolo è da leggere come affresco lucido di una parte del Giappone che è stata esclusa dal miracolo.
C’è anche una divagazione poliziesca, e qui il suo passato nei fumetti polizieschi si fa sentire, ma decostruisce letteralmente il genere affrontando il processo al contrario. Infatti in Caccia all’Uomo sono i giornalisti stessi ad inculcare eventi nell’indagato al punto che trasformano la realtà e questo mi ha ricordato proprio il meta-film di Imamura, "A Man Vanishes", per la critica ai media.
Da precisare che il volume in questione fa riferimento alla versione canadese e non giapponese, infatti solo 2 dei capitoli qui presenti fanno parte del volume Uki.