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Banale antefatto: un ragazzo di nome Tetsu, il più classico e anonimo dei liceali, cela l’ancor più banale potere segreto di controllare una creatura (sovrannaturale?) spongiforme, una sorta di cuscino grosso come un cane dal volto costantemente scoglionato di nome Cenco, che ricorda vagamente una mozzarella mutaforma dal colore di candeggina sporca, capace di assumere qualsiasi forma, materiale e durezza il suo “padrone” desideri. Il perché di tutto questo non viene spiegato, né viene fatto intendere cosa stia realmente accadendo quando Yuki, compagna di scuola di Tetsu, becca in flagrante la bicicletta del ragazzo a muoversi da sola, avvistando un occhio (!) sporgente proprio dal sellino. Se state pensando (o sperando) che la scena termini con la giovincella, che spinta da baldanzosa foga, salta in sella alla bersagliera in perfetto stile Fantozziano, allora rimarrete delusi: questa non è la recensione di un Tentacle-Hentai, bensì l’anticamera di una vicenda shonen-paranormale a tratti farraginosa, lentissima e abbastanza deludente.
Ordunque, abbiamo appena svelato come Yuki scopra, sin dal principio, l’incredibile segreto di Tetsu, e, suo malgrado, decida di prender parte ad una faida fra “possessori” di queste gelatine aliene multitasking per il predominio di non sa sa bene cosa.

Di primo acchito, Cencoroll Connect dà l’impressione di voler mischiare le atmosfere vacue e vuote delle imminenti disgrazie di Bleach agli spazi sconfinati e allegorici del celebre Evangelion, il tutto shakerato in una colonna sonora che principia spettrale, illude con attese altisonanti, ma che, ahinoi, si rivela invece povera e addirittura poco pertinente all’opera in questione.
Dal lato artistico, invece, possiamo dire d’esser di fronte a un lavoro discutibile, ma ricercato, quasi sperimentale nei suoi tratti semplicistici ed elementari, che comunque riesce a dare il meglio di sé nelle sequenze di battaglia.
La prima cosa che salta all’occhio sono i fondali a macchie, dagli edifici agli elementi naturali non del tutto definiti nè distinti, rievocanti un tardo impressionismo premoderno: ciò che circonda i protagonisti è spesso intuibile, non realistico e talvolta impalpabile, un esercizio volumetrico dal retrogusto post-impressionista che rammenta le intuizioni tridimensionali di Cézanne (anche se nella sua totalità il colpo d’occhio risulta piuttosto ordinato, godendo degli insiemi cromatici che plasmano la scena in maniera quieta e comprensibile).
Più definito e decisamente studiato risulta il chara design dei personaggi, forse troppo longilineo, quasi burattinesco, minimale ma incisivo, con una menzione di merito alle espressioni e ai primi piani. Molto meglio invece le animazioni, (soprattutto durante le battaglie), dinamiche e coinvolgenti.

Come già accennato, vera attrazione del film animato sono i “Drone”, Simpatici mostri mutaforma che assumono qualsiasi sembianza, da un oggetto a un qualsivoglia elemento tridimensionale. Così su due piedi sembrano creazioni di duttile “plastilina”, fra il soffice e il gommoso, dalle forme bizzarre tutte diverse fra loro, e pronti ad assecondare costantemente chi ne ha le redini.
Queste sinistre e buffe creature, fluide e cangianti scamorze extradimensionali, sono manovrate tramite una sorta di potere paranormale, intente a seminare panico nel bel mezzo di una faida fra alcuni ragazzi in conflitto fra loro, membri di un’organizzazione segreta che li gestisce e monitora. Fra i componenti di codesta setta elitaria figurano chiaramente adolescenti tanto ferrati in materia quanto incoscienti, al limite del demenziale. Fra i mille usi di tali creaturine, sembra esserci anche la trasformazione in armatura protettiva semi bellica in stile mecha-paraorganica, oltre che armi di vario genere e pericolosità (qualcosa che sembra rifarsi a Guyver).
Cenco, Drone compagno di Tetsu, come accennato, funziona esattamente e analogamente come suoi simili, e può trasformarsi in qualsiasi cosa gli venga ordinato: il simpatico budinoide dall’aria nichilista e dallo sguardo costantemente depresso ha le potenzialità per divenire una bicicletta, una sparachiodi, un’auto, un tegame, l’intimo di Miley Cyrus, il rotolo di carta igienica rimasto nel vostro cesso, o direttamente il cesso stesso: insomma, chi ne ha più ne metta.
Man mano che il lungometraggio procede, si ha sempre più l’impressione di trovarsi in un criptico e alienato quadro fiammingo, uno di quelli che narrano un inferno infestato da mostri vagamente falliformi e minacciosamente occhiuti, pregno d’inclinazioni dantesche, dove assurdo e provocatorio s’incontrano a metà strada in un delirio di bulbi, intestini sintetici, creature alte come grattacieli e colpi di scena surreali (e poco sensati).
Quando poi il mostriciattolo diviene letteralmente parte del protagonista - precisamente il braccio destro - in seguito ad un determinato evento, e le vibe alla Kiseiju sembrano prendere il sopravvento, la speranza che la trama prenda una piega più accorata, intensa e drammatica svaniscono in una mera illusione: se la prima metà dell’opera è come un bradipo alla deriva (e la colonna sonora non aiuta a innescare la scintilla di cui avrebbe bisogno), la seconda parte è ravvivata da scene d’azione più o meno divertenti, ma il ritmo non decolla mai; ciò che tiene banco sono tendenzialmente i dialoghi e i cambi d’inquadratura spesso intriganti. È purtroppo il segmento centrale ad essere terribilmente pesante: risulta più noioso di una di quelle interviste ad orari improponibili svolte da Marzullo ad ex soubrette di cui neanche Marzullo stesso ricorda il nome; noia al chilo che rallenta ritmo e interesse.
La sceneggiatura è talmente assurda che spesso le reazioni dei protagonisti non sono naturali, anzi, a volte paiono irreali, lontano dalle reazioni istintive che un ragazzo adolescente potrebbe/dovrebbe dimostrare. È come assistere ad un grande, interminabile prologo cosparso da buchi di trama a raffica, compresa qualche sparuta scena degna di un teatro dell’assurdo di fine 900, mentre lo spettatore, confuso, semi addormentato e magari irritato, rimane in attesa di spiegazioni o rivelazioni che non giungono mai.
Come se non bastasse, spesso le pause fra una scena e l’altra sono immotivate, a volte esageratamente prolungate, e le interazioni fra personaggi troppo scontate o semplicemente inutili.
Se in "Interstellar" l’eroico Cooper compie quella incredibile manovra che gli viene a costare circa cinquant’anni in un lasso di tempo di pochi minuti, parallelamente, la manovra di sorbirsi "Cencoroll Connect" in una unica serata sortisce la stessa identica sensazione, solo all’inverso: un’ora e un quarto che sembrano tredici eoni; lenti, arrancanti, visivamente sufficienti, ma tediosi e stopposi come poche altre cose.

Nel segmento finale – probabilmente l’atto più interessante di tutta la trama – troviamo i minuti con più qualità di tutto il lungometraggio: duelli che rievocano gli egocentrici esercizi di Hideaki Anno nel celeberrimo "Evangelion", mentre assistiamo alla comparsa di un Drone ancora più grande, un gigantesco panzerotto nucleare che porterà scompiglio e soffice terrore, un mega-parallelepipedo coccoloso e terrificante. Durante l’epilogo c’è anche un vago tentativo di far emozionare lo spettatore (l’accenno di love story buttata lì crea quasi imbarazzo, ma apprezziamo l’impegno), espediente che fallisce miseramente, vista la pesante passività dei settanta minuti con cui si arriva al punto: il Cringiometro segna livelli preoccupantemente alti.
L’unica cosa che si salva, come già accennato più volte, sono le animazioni. Dinamiche, elastiche, sfruttanti la profondità dei fondali e ricche di una cinetica realistica ed elettrizzante, limpidissime e dai colori sfavillanti: un esercizio artistico di alto livello che mitiga lo sforzo della visione.

La mancanza più grande di cui "Cencoroll Connect" soffre e che rischia di passare facilmente in secondo piano, sembra essere l’assenza di una colonna sonora all’altezza, un insieme di brani coordinato che dia verve e vivacità ad una vicenda che nella somma, più che deludente è quasi fuori luogo. È proprio l’assenza di note d’accompagnamento appropriate ad aumentare il senso di tedio e a dilatare la durata percepita.

Nel complesso siamo di fronte ad un lotto di banalità impilate in modo troppo canonico e per nulla originale, mentre l’unica cosa che regge la baracca rimane il più che discreto comparto tecnico dedicato alle animazioni e i personaggi divertenti dal punto di vista commediale.
E, beh, i buffissimi Drone, ovviamente. Anche se mi rendo conto, che, sorbirsi un film di settantaquattro minuti solo per guardare un paio di inquietanti marshmallow giganti aizzati a spararsi raggi laser addosso l’un l’altro, forse è chiedere un po' troppo.
Morale della favola: quando sei contento che qualcosa finisca, fatti una domanda e datti una risposta (cit).