Scoperto per pure caso da un'immagine su Instagram e da quel momento me ne sono completamente innamorato! Un film che fa riflettere, di una dolcezza unica. Visto due volte nel giro di tre giorni
Sono un po' combattuto riguardo a questo film. Sicuramente ne consiglio la visione, ci sono diversi punti molto ben realizzati, ma ci sono anche diverse critiche su alcuni aspetti. Il film gioca molto bene sul piano emotivo: è chiaro l'intento del regista di mostrare più punti di vista e la facilità con cui la realtà possa essere travisata consciamente o inconsciamente. Ed è chiaro che tutto è costruito sulla ricerca di questi plot twist che però risultano un po' forzati e teatrali (a volte troppo). Mi spiego: molto di quello che vediamo non sarebbe plausibile nemmeno in una società ipocrita e conformista come quella giapponese. Per andare le cose in questo modo ci deve essere una serie di coincidenze e la totale omertà, basterebbero due parole per far saltare tutto, ma non avviene per reggere il gioco alla narrazione. Potrebbe funzionare se fosse ambientato in un piccolo villaggio su un'isola (quelli ridenti, dove però succede di tutto), non in una grande città. E questo lo trovo un punto molto debole a livello di regia. Passato sopra questo il film però mantiene il suo messaggio e le riflessioni che induce, per poi farle continuamente cambiare, allo spettatore. Intrattiene e cattura, specie grazie all'ottima recitazione di tutto il cast. Gli altri punti deboli a mio avviso sono la mancanza di alcune risposte e il finale interpretabile. Concordo che ogni spettatore possa dare la propria lettura, ma questo ha senso che avvenga quando la realtà viene presentata interamente. Altrimenti è solo un espediente pigro per non tirare le somme, e lo trovo poco coraggioso (ma purtroppo molto frequente). Non dare risposte evita di scoprire i buchi di trama e non scegliere un finale evita di prendersi la responsabilità di dare un epilogo. Ed è molto ingiusto verso lo spettatore oltre che una mancanza come regia. La fotografia e l'attenzione ai particolari sono altri aspetti degni di nota, soprattutto quando iniziamo a vedere la storia da diversi punti di vista e ci facciamo caso. Andrei sicuramente a rivederlo, potendo.
In ultimo, anche se se ne è già discusso altrove, un commento sulla scelta del titolo. Sarà chiaro a tutti dopo la visione che la scelta di cambiare il titolo da Monster (o il suo corrispettivo kaibutsu) in L'innocenza, non sia particolarmente riuscito oltre che non necessario. Monster rende molto bene gli spunti di riflessione del film oltre ad avere diversi riferimenti al suo interno, inoltre predispone lo spettatore diversamente alla lettura di ciò che avverrà poi e dei diversi twist perché cercherà di capire questo mostro a cosa si riferisce. L'innocenza non lo fa, oltre a non aver alcun rimando nei dialoghi. Poi possiamo discutere che può avere un suo senso, ma perché scegliere un titolo diverso quando ce n'è un altro che funziona meglio e risulta più fedele? Inoltre, se lo vedere con i sottotitoli, all'inizio del film appare il titolo del film e il sottotitolo riporta invece una traduzione formalmente sbagliata, che non è positivo. Io spero ci sia più coraggio di non infilare più gusti personali in queste scelte in futuro.
L'ho visto al cinema qualche settimana fa ed e' molto valido, ha sicuramente meritato il premio per la migliore sceneggiatura. Sul finale, io l'ho visto solo positivo.
Ne ho gradito molti elementi, anche se confesso che mi ha lasciato un po' di amaro in bocca. Pur avendo apprezzato il ricorso all'espediente Rashomon (da me personalmente adorato) non ho digerito fino in fondo il problema del finale ambiguo (che non ho capito se sia voluto o meno).
Questo elemento mi destabilizza nello specifico perché di fatto trama e tematiche prendono pieghe completamente diverse dalle premesse, in una sorta di crescendo che ha perfino un che di edenico in certi casi (senza mai scadere nel patetico). Non che i temi e gli esiti del film siano edenici, ma il cambio di prospettiva nella narrazione, fino alla fine, diventa una specie di mondo a sé, dove tutti gli altri e le loro narrazioni spariscono o diventano solo comparse. Questo microcosmo, dato dall'effetto Rashomon, ha qui un che di piacevolmente straniante (anche perché l'ultima ad essere presa in esame è proprio la prospettiva di due ragazzini, che per definizione vivono in un mondo tutto loro).
Questa progressiva immersione nel giardino segreto viene sempre inframezzata dal mondo fuori (quello degli adulti e degli indifferenti), che anche nell'epilogo si immischia, si impone e di fatto vìola la sacralità del luogo interiore e non.
Il problema è che questi elementi finiscono per elidersi a vicenda nel finale. Per me esso risulta infatti stonato più tematicamente che narrativamente parlando, perché non decostruisce il vero problema, in un senso o nell'altro.
Quale che sia l'interpretazione non cambia nulla. Che alla fine il giardino diventi un cimitero o un orizzonte di rinascita, resta il problema di partenza: l'insoluta e assordante cappa dell'incomunicabilità.
Anche se i vari mondi si permeano e si influenzano a vicenda, rimangono sempre separati. Nessuno vuole davvero capire l'altro, e si chiude in un mutismo a volte proprio fisico. Nessuno capisce davvero cosa gli altri stanno dicendo/provando/facendo. Tutti sono in sostanza sordi gli uni agli altri.
Fanno eccezione ovviamente i due protagonisti principali (che comunque dialogano non senza incomprensioni, dubbi e paure inevitabili). Ma loro per paradosso "non contano" perché il loro ruolo, perno della vicenda, è proprio quello di introdurre il vulnus tematico.
Rarissimi i momenti in cui ci sono dei timidi tentativi di ascolto/dialogo con l'altro. In particolare la scena personalmente che ho trovato più potente è quella del dialogo fra Minato e la preside nell'aula di musica. Un vero confronto esistenziale fra due persone diverse in tutto. Tranne che nel disperato e vibrante desiderio di liberarsi da quei pesi che sono troppo per chiunque, nella necessità quasi fisica di "soffiare via" tutte le bugie, le ipocrisie e le assurdità che stroncano sul nascere anche solo l'idea di essere liberi da quei fardelli. Un passaggio estremamente catartico nella dinamica narrativa del film, pur nell'apparente quiete e mera casualità che sembrano condurlo. Geniale in tal senso l'idea di passare nel sottofondo di alcune scene i solfeggi stridenti dell'ottone di Minato (o della preside?), per sottolineare quanto rumore di cose non dette ci sia dietro al muro del silenzio.
Il castello dell'indifferenza e dell'incomunicabilità è così granitico e barocco da diventare eccentrico, quasi comico in certi momenti.
Personalmente non faccio fatica ad ammettere che alcune scene mi hanno strappato più di un sorriso. Sardonico e amaro ma sempre dettato dall'assistere a scene di mediocrità che sanno quasi di grottesco per l'eccesso di pretese assurde, al limite del senso logico.
Ad esempio la scena in cui la madre di Minato si presenta a scuola e la preside con la sua corte di docenti si profonde in scuse protocollari e in inchini così formali da risultare macchinici. Ridicoli, proprio in quanto robotici più che umani.
Un'altra scena che mi ha fatto quasi ridere è quella in cui Minato si presenta a casa di Yori e questi si palesa all'uscio col padre alle spalle, che lo obbliga a sciorinare una versione totalmente falsa della sua "vera natura". Due secondi dopo il ragazzo riesce e dice a Minato che erano tutte bugie, e il padre lo riafferra e lo chiude in casa con violenza.
Queste due scene descrivono situazioni orribili, dove non c'è assolutamente niente da ridere. Eppure gli esiti descrivono una società così chiusa da implodere su sé stessa, una commedia così paradossale da diventare farsesca. Fa ridere per non piangere tanta è l'assurdità del contesto.
Alla fine quel mondo di sordi impermeabili ad ogni approccio di dialogo è e resta silente, estraneo, come se per certi versi non riguardasse il problema, quando invece ne è la fonte.
E se e quando ci si accorge davvero del problema, di tutto il mondo che c'era dietro, "potrebbe essere troppo tardi"(?)