In occasione del Future Film Festival, tenutosi a Bologna dal 3 all'8 maggio scorso, il nostro affezionato utente Crimson Eyes, ivi presente in veste di volontario, ha stilato un resoconto particolareggiato delle sue visioni in quel del Cinema Lumière, sito in piazza Pier Paolo Pasolini, che riportiamo di seguito.
 
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Dal 1999, il Future Film Festival è una delle principali manifestazioni cinematografiche italiane dedicate alle tecniche di animazione tradizionale e digitale e agli effetti speciali. Il festival si tiene a Bologna e tutti gli anni offre in rassegna proiezioni di lungometraggi e cortometraggi di animazione di artisti da tutto il mondo in anteprima e, a seconda del tema, ripropone grandi classici, anche non più molto noti, ma importantissimi per il contributo che hanno dato alla storia del cinema.
Grande vanto del festival sono inoltre le serie di incontri aperti al pubblico tra esperti del settore, registi, direttori artistici e animatori per discutere delle loro opere e delle loro tecniche di realizzazione. Da sempre, la manifestazione accoglie la competizione Future Film Short, dedicata ai cortometraggi, proiettati all’aperto (da quest’anno visibili e votabili online sul sito ufficiale), e dal 2007 il Platinum Grand Prize che premia il miglior lungometraggio in concorso: due contest che tengono conto sia del voto della giuria sia di quello del pubblico. Il festival propone inoltre diversi laboratori per bambini e adulti, approfondimenti sull’animazione e sulle nuove tecnologie (quest’anno è stato presentato il recente visore a tecnologia Oculus), una sezione dedicata alle webseries, fenomeno ormai enorme di produzione e fruizione anche italiano, e lo Youtubers Day, una giornata dedicata al crescente fenomeno degli Youtubers, con ospiti e live.
L’edizione di quest’anno tenutasi dal 3 all’ 8 maggio, l’ho vissuta molto da vicino, come volontario, perciò vorrei condividere con voi, popolo di Animeclick.it, parte della mia esperienza. Principalmente vi parlerò dei film di animazione che avuto la fortuna di vedere, quelli che più mi hanno colpito e quegli eventi riguardanti il Giappone a cui ho preso parte.

Quest’anno il FFF compie diciotto anni ed il tema trattato è Welcome Aliens, che affronta la rappresentazione cinematografica del rapporto tra terrestri e creature di altri mondi. Il tema viene sviluppato in una retrospettiva, comprendente classici d’epoca e moderni come Ho sposato un mostro venuto dallo spazio di Gene Fowler e La Cosa di John Carpenter, e film cult misconosciuti come Fratello di un altro pianeta di John Sayles e Invasori dall’altro mondo (Invasion of the Saucer Men) di Edward L.Cahn, il cui stravagante look degli alieni verrà omaggiato dal Mars Attack di Tim Burton anch’esso in programma. Inoltre, il tema calza a pennello con il tributo al cinquantenario di Star Trek, tra proiezioni delle primissime puntate e il cosplay contest a tema fantascientifico.

Senza soffermarmi troppo su questa parte della manifestazione, mi concentrerei soprattutto sulle produzioni animate nostrane ed internazionali che trattano il tema dello “straniero” in maniera altrettanto imponente. Buona lettura!

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Il 3 maggio è stata la giornata più importante per gli appassionati di animazione giapponese, che inizia con The Empire of Corpses, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Satoshi Itō.
 
In un’ambientazione squisitamente steampunk, la regia di Ryoutarou Makihara (L’Attacco dei Giganti) e lo STUDIO WIT presentano il viaggio di John Watson e del suo assistente Venerdì attraverso un’alternativa Europa del XIX secolo in cui i cadaveri vengono rianimati grazie a false anime per essere utilizzati come lavoratori per compiti pesanti e macchinosi. Il giovane scienziato viene scelto dal governo per recuperare gli importanti appunti di un misterioso scienziato che nascondono il segreto della rianimazione completa.

Il film è visivamente eccelso, il connubio tra animazione classica e a computer è amalgamato con estrema cura, propone spunti interessanti e una storia accattivante, tuttavia non riesce a gestire al meglio la struttura narrativa, più volte risulta prevedibile e non manca di cadere nei più classici cliché dell’avventura tipo. Ha anche la pecca di voler inserire molte cose appartenenti alla nostra storia e letteratura tutte insieme con il risultato di sembrare piuttosto forzato in più occasioni. Comunque intrattiene per tutte e due le ore e non finge di essere più di quello che è, ovvero un’adrenalinica storia di azione e avventura, anche un po’ tamarra.
 
Future Film Festival MangaHokusaiManga

La giornata prosegue con l’inaugurazione della mostra itinerante Manga Hokusai Manga in esposizione al MAMbo - Museo d’Arte Moderna di Bologna a cura di Jacqueline Berndt promossa dal Japan Foundation di Tokyo.
 
Una rilettura dell’opera dell’artista eccentrico ed innovativo Katsushika Hokusai, vissuto nel periodo Edo dal 1760 al 1849, da parte di fumettisti ed artisti contemporanei.

Tra tradizione e modernità, gli splendidi ukiyo-e come le celebri xilografie “Grande Onda” e “Trentasei vedute del Monte Fuji” mettono in risalto la prospettiva del manga contemporaneo. È una mostra che pone l’attenzione sulla diversificazione dei generi, sul modo di raccontare per immagini e sulla cultura partecipativa; non insegue conferme sull’influsso del passato sul presente, ma invita i visitatori a riflettere sulle proprie concezioni di manga, confrontando opere di periodi diversi ed esplorandone l’eterogeneità interna. 
 
Future Film Festival Miss Hokusai

Eccezionale la combinazione con la mostra, la proiezione di Miss Hokusai di Keiichi Hara (Colorful), prodotto dallo studio Production I.G, che racconta la storia mai narrata di O-Ei, terza figlia del pittore Hokusai.
 
Un pacato slice of life che mostra il ritratto di una donna dallo spirito libero e dal grande talento artistico e la sua vita passata a contatto con il padre, immersa nel disegno e svelata attraverso il passaggio delle stagioni.

Il film non cerca di impressionare, né di uscire da particolari schemi, il suo scopo è addentrarsi nella mente di due complesse personalità senza entrare troppo nel dettaglio: da una parte possiamo vedere il visionario Hokusai che si ispira per il processo creativo e dall’altra il talento naturale di O-Ei; in sostanza l’opera mostra in un’ora e mezza la vita di un disegnatore ai tempi della Edo del XIX secolo, la funzione superstiziosa e al contempo l’importanza materiale dei suoi prodotti artistici. Dal finale mi sarei aspettato qualcosa in più, un punto che chiudesse la vicenda definitivamente, ma sicuramente la scelta del finale aperto rispecchia molto bene il carattere di O-Ei e la poca incisività e fama che ha lasciato nella storia dell’arte.

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Segue subito dopo il film <harmony/>, il più acclamato tra i progetti di adattamento dei tre romanzi di fantascienza di Satoshi Itō per le firme dei suoi registi: Takashi Nakamura (Fantastic Children) e Michael Arias (Tekkon Kinkreet - soli contro tutti), con il supporto diretto dello Studio 4°C (Berserk - L'epoca d'oro - Capitolo I: L'uovo del re dominatoreThe Animatrix) nella sua realizzazione.
 
In una società distopica, dopo il caos provocato da guerre nucleari e malattie, il mondo è stato ricostruito secondo modelli sociali finalizzati al rispetto del prossimo e all’equilibrio generale, in cui le persone convivono con nanotecnologie che monitorano il loro stato di salute fisico e mentale. Tre ragazze, cercando di ribellarsi a questo sistema così innaturale, organizzano il loro suicidio (questa è solo la premessa).

La storia si delinea in modo piuttosto criptico, non esagero se dico che per certi versi ricorda i Ghost in the Shell di Oshii, tuttavia questa caratteristica non è un espediente per cercare di ovviare a qualche buco narrativo: alla fine tutto torna, seppur con qualche incognita che si presta a più interpretazioni. Quello che ho apprezzato maggiormente del film sono certi particolari guizzi creativi per quanto riguarda ambientazioni e riprese: in generale non è un tipo di animazione che si vede tutti i giorni, soprattutto oggi (nonostante questo tipo di tematiche siano abusate). L’elemento Shoujo-ai in <harmony/> alcuni potrebbero considerarlo fanservice, ma in realtà non è fine a se stesso, al contrario viene proposto come indice di apertura mentale (un altro modo per andare controtendenza) da parte delle protagoniste e tutto sommato non stona. In più occasioni però, la combinazione tra computer grafica e disegno tradizionale stride: se di solito do la colpa alla prima, questa volta sono i disegni, in particolare quelli dei personaggi, ad essere piatti e di bassa qualità. Prima di vederlo, l’avevo bollato negativamente, il risultato finale però ha catturato la mia attenzione.

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Ci sono state una marea di proiezioni interessanti, ma tra i compiti che dovevo svolgere e il tempo che scarseggiava, era inevitabile che mi perdessi qualcosa che avrei voluto vedere. Cose come il breve film Claustrophonia, con attori in carne ed ossa di produzione italiana che ha la particolarità di essere interattivo, offrendo la possibilità allo spettatore di scegliere uno dei tre finali a disposizione. In sala, con l’apposito telecomando, si è pensato ad un voto “cine-democratico” con cui, il finale più votato dagli spettatori è stato proiettato immediatamente sul grande schermo. Non sono riuscito a vedere nemmeno The Case of Hana & Alice prequel animato del film live action Hana & Alice del regista Shunji Iwai, con cui esordisce nel campo dell’animazione.
 
Future Film Festival The boy and the beast

The Boy and the Beast, l’ultima fatica di Mamoru Hosoda (La ragazza che saltava nel tempo, Wolf Children), invece non me lo sono perso e devo essere sincero che per questo film nutrivo ancor meno aspettative rispetto ad <harmony/>, per due banalissimi motivi: la pessima impressione che mi ha fatto La ragazza che saltava nel tempo e, motivo ancor meno nobile, la locandina, che d’istinto mi ha fatto provare un brivido non indifferente, non chiedetemi il perché. Purtroppo non ho ancora visto Wolf Children, ma proprio perché così osannato da molti ho deciso di dare una chance anche a The Boy and the Beast. Beh, non mi sono mai sbagliato tanto, questo film è stato proprio carino, ma, concedetemi il termine, molto “facilone”. Chiunque con un po’ di infarinatura sul genere, vedendo il film avrà avvertito quella sensazione di “già visto” e che lo si voglia o no è così: in The Boy and the Beast ci sono tutte le più classiche tappe della vicenda di formazione e da questo punto di vista manca di originalità. Tuttavia, riesce a districarsi da questa rete appiccicosa, grazie a tutta la solida controparte del protagonista (non vorrei svelare nulla sulla trama per chi ancora non l’avesse visto) e l’insieme risulta gradevole, merito dell’indubbio talento del regista che tocca le corde giuste al momento giusto.

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È il turno di Extraordinary Tales, il risultato di un lavoro durato ben nove anni di Raul Garcia (storico animatore Disney per Aladdin, Il Re Leone e Chi ha incastrato Roger Rabbit?) che si assume la responsabilità di adattare cinque racconti di Edgar Allan Poe, con la collaborazione di artisti da tutto il mondo: Lussemburgo, Spagna, Belgio, Stati Uniti e voci narranti del calibro di Guillermo del Toro e Christopher Lee per non parlare di quella di Roger Corman e di Bela Lugosi (interprete di Dracula nel film del 1931 e scomparso nel 1956) che nel 1947 registrò una sentita lettura de Il cuore rivelatore che viene qui utilizzata nell’omonimo adattamento animato.
 
Le opere adattate sono, in ordine: La caduta della casa degli Usher, Il Cuore Rivelatore, La verità sul caso di Mr. Valdemar, Il pozzo e il pendolo e La maschera della morte rossa ognuna realizzata con uno stile di animazione diverso e separate da intramezzi (trascurabili) ambientati in un cimitero, in cui una statua dalle sembianze femminili, rappresentante la Morte, dialoga con un corvo, nientemeno che l’incarnazione dello spirito di Poe.

Un’opera senza dubbio atipica che però non riesce a tenere testa a suoi interpreti, che di horror se ne intendono.
Inizialmente ero entusiasta per la scelta di trasporre i racconti di Poe usando le tecniche di animazione, confidavo nel fatto che ciò potesse contribuire ad accrescere la tensione, alimentando gli aspetti paranormali e rendendoli più parte del mondo a cui appartengono, più credibili: in alcuni casi l’effetto è stato molto impressionante, ma in altri, mi dispiace dirlo, lo sforzo non ne è valsa la pena.
Con La caduta della casa degli Usher non si parte bene: manca di mordente, non coinvolge, le animazioni troppo fluide e i disegni troppo puliti non sono adatti al tipo di storia, non c’è alcun elemento lugubre o anche solo appena un po’ crespo, si salva solo la voce di Christopher Lee.
Il cuore rivelatore, invece, reso in bianco e nero e mostrando solo il rosso del sangue, dosa i colori in modo molto efficace tant’è che l’atmosfera che si crea è dovuta principalmente a questo dettaglio: i disegni penetranti, gli sguardi taglienti, i silenzi ed il ritmo complessivo fanno avvertire una tensione unica. La verità sul caso di Mr. Valdemar adotta uno stile che ricorda quello dei fumetti americani, con tanto di vignette e occasionali baloons, che nel complesso rende abbastanza bene i momenti di massima intensità con variazioni di colori ed efficaci ispessimenti del tratto. Il pozzo e il pendolo riesce a metà: se da una parte la realizzazione completamente in computer grafica contribuisce a dare la sensazione di sporco di una prigione infestata dai topi, dall’altra sa troppo di videogioco e le espressioni facciali del personaggio sono terribilmente finte. La maschera della morte rossa conclude bene questa antologia di storie brevi e rende giustizia anche al racconto originale, con uno stile più fine e stilizzato, completamente bidimensionale e con un’ombra di rosso sempre incombente, come la peste che colpirà i personaggi.
Raul Garcia è stato presente di persona al festival introducendo il suo film e partecipando allo speciale Making of Extraordinary Tales; persona gentilissima e davvero a modo, che non ha perso occasione di guardarsi qualche altra proiezione e dedicare qualche schizzo agli amici del festival.

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Ho avuto anche occasione di vedere Psiconautas di Alberto Vàzquez e Pedro Rivero, di produzione spagnola, ma realizzato anche da mani italiane: Milena Tipaldo e Dalila Rovazzani, due animatrici nostre connazionali, erano presenti al festival per mostrare al pubblico, in vece dei registi, i segreti del loro film.
 
Tratto dalla graphic novel Birdboy, dello stesso Vàzquez, il film è un audace e cupo racconto delle vicende di un gruppo di ragazzini disinseriti in una società corrotta e senza possibilità di redenzione da cui cercano di fuggire, e del silente e tormentato Birdboy.

Psiconautas è il film che mi ha sorpreso di più in questa edizione, perché, oltre al suo impatto visivo (l’intera opera è un continuo esercizio di sperimentalismi), cito testualmente la descrizione della scheda del festival, “sa narrare l’adolescenza e le sue asperità con una durezza insolita e dettagli grotteschi che stridono felicemente con il look “morbido” degli animaletti antropomorfi”. Aggiungo che riesce ad infondere nello spettatore un forte senso di disagio nei confronti delle situazioni che vivono i personaggi: una scena in particolare mi ha fatto rabbrividire, sensazione che non provo spesso guardando film di animazione. Non c’è tregua, a terrore e odio si alterna violenza e degrado, ma nonostante tutto, non risulta pesante perché, durante tutta l’opera si respira nell’aria la speranza che di qualcosa di buono stia per arrivare.
 
Future Film Festival NowhereGirl

Leggendo e rileggendo il programma, mi salta all’occhio non un titolo di un film o la sua descrizione, bensì il nome del suo regista, ovvero Mamoru Oshii (Ghost in the Shell, Ghost in the Shell: Innocence e tanti altri) che, con Nowhere Girl (Tokyo Mukokuseki Shôjo), si impegna ancora una volta in un film con attori in carne ed ossa.
 
Ambientato in una scuola d’arte femminile, la pellicola racconta di Ai, ragazza tanto talentuosa quanto disturbata, che si ritrova a combattere contro le alte aspettative che i suoi insegnanti nutrono per lei e i traumi interiori che la perseguitano da tempo.

Non ho mai avuto modo di vedere un film live action di Oshii, il motivo principale deve essere che mi rifiutavo di farlo perché d’istinto non riuscivo ad immaginare il tipo di narrazione mostrata in The Sky Crawlers in un film con persone reali: per me sono due ambienti inconciliabili. Vedendo Nowhere Girl, questo mio timore si è dimostrato fondato, infatti la lentezza con cui il film procede e le interminabili pause sembrano oltremodo forzate, quasi fuori luogo; persistendo però nella visione si finisce per accettare (anche se infelicemente) questo modo bizzarro di raccontare, ma ciò non giova allo sviluppo della trama che, nella sua interezza incuriosisce, ma unita a tutto il resto, l’effetto finale è alquanto sgradevole.

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In mezzo a tanta morte e disperazione, April and the Extraordinary World (Avril et le Monde Truqué) si fa largo con una commedia avventurosa, frizzante e coinvolgente di Christian Desmares e Franck Ekinci (Francia, Canada, Belgio).
“Nel 1941 di una realtà alternativa in cui la seconda rivoluzione industriale, quella dell’elettricità, non è mai avvenuta a causa della sparizione dei migliori scienziati del mondo nel 1870, infuria la battaglia per l’energia. April, una ragazza che vive in una Parigi grigia e pericolosa, si mette alla ricerca dei genitori scienziati scomparsi da tempo, con la ferma intenzione di proseguire le loro ricerche interrotte sul sentiero della vita.”

Con tanto humour, il più delle volte sottile e raffinato, dinamicità, un ritmo incalzante e lasciando spazio anche allo sviluppo di una simpatica d’amore, il film ha la capacità di conquistare chiunque.

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L’ultimo film di cui voglio parlarvi è On the White Planet di Hur Bum-wook (Sud Corea). È stato, non mi viene altro termine, la mazzata finale, uno dei film più pesanti e al limite del sostenibile che abbia mai visto e parlo in generale, non mi limito ai soli film animati.
 
Ogni cosa sul Pianeta Bianco è bianca e nera; i suoi abitanti hanno la pelle bianca, tutti tranne Choi min-je, il solo colorato. C’è chi lo odia per questo e chi ne rimane incuriosito, ma da entrambe le parti viene considerato un mostro, forse perché dotato di qualcosa in più e magari anche di qualcosa in meno. Lui vorrebbe vivere come gli altri, ma il solo modo per raggiungere la pace è lasciare il pianeta. Il film non vuole approfondire o denunciare certi comportamenti xenofobi, la paura del diverso, la repulsione a prescindere: in parte, la condizione di Choi min-je è solo il pretesto per raccontare la vita in un mondo già sull’orlo del collasso in cui l’unico modo per sopravvivere è imporsi e uccidere.

Ciò che si vuole comunicare è l’impossibilità che una luce possa risplendere sul Pianeta Bianco: in quest’opera assistiamo all’annichilimento del più piccolo bagliore, che se una parte vuole spegnersi per adattarsi al mondo in cui è nato, dall’altra vuole vivere cercando di essere se stessa. La poetica di fondo è affascinante, ma non è possibile apprezzarne il candore per via del susseguirsi continuo di crudeltà e morte, che da un lato rendono l’opera curiosa nella sua cupezza, ma dall’altro estremamente opprimente. On the White Planet è interessante anche graficamente, infatti offre ambientazioni visionarie e un character design sì stilizzato, ma molto comunicativo.
 
Future Film Festival Photo By Ania Kramec


Oltre ad avere la possibilità di vedere film e partecipare ad eventi, il Future Film Festival è soprattutto un’occasione per conoscere persone e condividere interessi, il tutto in un ambiente stimolante e pittoresco come la Piazzetta Pier Paolo Pasolini del Cinema Lumière. Spero di avervi incuriosito almeno un po’ e di non avervi fatto troppo soffrire nella lettura se siete arrivati fino in fondo!
Alla prossima!

Autore:
CrimsonEyes