Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

Per saperne di più continuate a leggere.

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"Nodame Cantabile" non è assolutamente nulla di quanto potreste immaginarvi leggendone una recensione... A me stessa è successo di aspettarmi una buona serie pregna di musica classica, ma mi sbagliavo: "Nodame Cantabile" è molto di più di quanto mi sarei mai potuta aspettare (nonostante le molte critiche positive trovate anche su questo sito, fra gli altri, che non riescono nel tentativo di far almeno intuire al possibile futuro spettatore cosa si perderebbe nel caso decidesse di soprassedere).

Ricca di musica classica, "Nodame Cantabile" non si limita allo "sfruttare" o all'indicare la musica classica allo spettatore: i personaggi sono anzi addirittura in simbiosi perfetta con l'andamento dei brani; mi spiego meglio, la stessa storia d'amore che fa da sfondo a tutto è delicato e quasi sempre appena percettibile elemento che seguirà pian piano un crescendo naturale, fino al momento in cui potrà rendersi più evidente con una buona orchestrazione su cui si sarà lavorato tanto in precedenza. Tutto, dalla musica alla crescita e musicale e umana e simbolica, segue in "Nodame Cantabile" una naturalezza e al tempo stesso un'originalità tranquille, con una trama che scorre piano ma non troppo, portata avanti da eventi vari che però non cedono a un tipo di drammaticità troppo introspettiva come accade in un altro bellissimo manga/anime del genere musicale intitolato nella versione in lingua anglosassone "Your Lie In April".

I personaggi sono tutti perfettamente caratterizzati, la colonna sonora è molto bella sia perché ovviamente per la maggioranza dei pezzi si tratta di esecuzioni di musica classica sia per la freschezza delle sigle d'apertura e chiusura; accadimenti vari si susseguono con originalità ed equilibrio e contenutistico ed emotivo; i disegni sono delicati e ben proporzionati (oltre che originali e visivamente lontani dai soliti caratteri triti e ritriti nell'ultimo decennio).

Un avvertimento: si tratta sì di una commedia, ma di una commedia veramente tale, per cui non ha nulla a che vedere con le solite rom-com un po' demenziali in cui magari si ride anche ogni due scambi di battute ma interiormente si sorride poco (qui avviene felicemente l'opposto: il sorriso parte dalla pancia con serenità, non con convulsioni sguaiate che ci possono anche stare, ma decisamente qui avrebbero abbrutito un'opera che già basta a sé stessa).

Unica pecca: c'è qualche personaggio che qui e là risulta un po' troppo insistente nei suoi interventi innecessari e non divertenti (e che ricordano qualche volta un tipo di opera meno matura del josei) nel corso dei vari episodi, ma viene poi dato a chi guarda il tempo di respirare e riconcentrarsi su altri aspetti essenziali per diverse puntate successive.

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Un famoso detto dice che "nella botte piccola c'è il vino buono"; e questo Uzumaki, manga di Junji Itou composto da solo tre volumetti, è un esempio di come certe espressioni popolari trovino spesso riscontro nella realtà. Poche volte mi è capitato di seguire un'opera con tanta curiosità dall'inizio fino alla fine (ed anche oltre, dato che l'ultimo capitolo è una storia a sé stante); ma se è vero che ciò è dovuto in larga parte proprio dalla lunghezza ridotta del manga non si può, dall'altro lato, non prendere atto che questo Uzumaki è proprio uno di quegli horror che rimangono a lungo nella memoria del lettore, grazie ad una trama semplice ma angosciante al tempo stesso.
Kurozu è un piccolo paesino di montagna i cui abitanti vivono una vita monotona e tranquilla. Improvvisamente, però, alcune persone cominciano a sviluppare una forte ossessione nei confronti della forma geometrica della spirale; così restano ad osservare per ore una conchiglia o il guscio di una lumaca estraniandosi completamente da tutto ciò che li circonda. Quella che sembra una semplice forma maniacale si rivelerà però di qualcosa di ben più terribile: Kurozu viene di fatto "posseduta" dalla spirale e le sue molteplici manifestazioni cominceranno a portare morte e distruzione all'interno del villaggio.
La sensazione che si prova leggendo questo "Uzumaki" è quello di essere tornati indietro ai tempi di "Ai confini della realtà", serie televisiva americana che ebbe un grandissimo successo in Italia negli anni ottanta. Pur mantenendo come sua costante il tema della spirale, infatti, il manga sembra suddividersi in tanti piccoli episodi in cui la vita del villaggio viene turbata da qualche evento soprannaturale che coinvolge persone, animali, fenomeni naturali e perfino alcune case del villaggio. Ogni singolo episodio è un piccolo cammeo in cui a farla da padrone è il fattore psicologico più che lo splatter; ed è questo un elemento proprio di quelle opere horror che fanno davvero paura. Personalmente lo sconsiglierei ai più piccoli, specie se facilmente impressionabili: il rischio di passare qualche notte insonne c'è tutto.
I personaggi principali non spiccano per carisma o coraggio ma il più delle volte svolgono il ruolo di semplice spettatore o testimone degli strani eventi che continuano a verificarsi; ma nemmeno questo è un fattore negativo dato che la bellezza di quest'opera sta nelle situazioni rappresentate per cui era indispensabile usare personaggi poco invadenti. Le cose, poi, cambieranno un po' nella parte finale quando i protagonisti decideranno di prendere in mano la situazione e di impegnarsi a cercare le cause della maledizione.
Mi è piaciuta molto anche la componente grafica: il contrasto tra disegni spesso molto semplici e puliti con ambienti decisamente macabri e "sporchi" fa proprio un bell'effetto all'occhio del lettore.
In definitiva il mio parere su questo manga è molto positivo. Se vi piace il genere "horror psicologico" Uzumaki è proprio l'opera che fa per voi; ma, come già detto in precedenza, se siete persone facilmente impressionabili forse è il caso di lasciare perdere.

7.5/10
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Un primo sguardo: il successo

Il legame tra persone distanti è la tematica che ha accompagnato l’intera carriera di Makoto Shinkai. Ne “Il giardino delle parole” è una distanza emotiva che si staglia sullo sfondo iper-realistico di una Tokyo perfettamente riprodotta, mentre in “5 cm al secondo” è più una lontananza fisica che evolve nel tempo. Dopo quindici anni di carriera è diventato un po’ un elemento rappresentativo del regista, quello dell’amore maledetto: protagonisti che non riescono a comunicare, adolescenti alle prese con una società che in un modo o nell’altro ne reprime i sentimenti; storie drammatiche, amori impossibili e, diciamolo, personaggi piatti e inespressivi. Colpa di Shinkai, del suo voler gestire tutto dei suoi film e non dedicarsi solo al lato artistico, campo in cui effettivamente riesce a comunicare qualcosa. Insomma, dalla visione dei precedenti lavori del regista ci si chiede se sia maggiore l’incomunicabilità tra protagonista maschile e femminile o tra autore e pubblico.

“Your Name.” non differisce dai propri predecessori nelle premesse, tuttavia è una storia col giusto potenziale narrativo che arriva nel momento giusto della carriera del regista. Ne “Il giardino delle parole” egli raggiunge l’apice della propria poetica visiva, ma a livello di intreccio manca ancora molto; manca l’intrattenimento, manca una storia coinvolgente che evidentemente non riesce a trovare nel quotidiano - e nelle corde del genere tragico, aggiungo io. Una prima causa del successo di questo titolo, nonché di distacco dai suoi predecessori, lo trovo quindi nel genere: “Your Name.” piace prima di tutto perché sa divertire, sa creare qualche situazione equivoca per far sorridere il pubblico, in modo un po’ furbo forse, ma efficace, e senza rinunciare all’elemento tragico amato da Shinkai; un buon timing, un po’ abusato, ma efficace almeno nella prima metà.
Il secondo motivo, sempre di distacco, è proprio la caratterizzazione dei personaggi, resa possibile da una trama che gode di una complessità e un’articolazione maggiore rispetto ai lavori precedenti. Meno distanti e più palpabili nei sentimenti e nelle emozioni, i personaggi vengono calati negli stessi problemi e in situazioni analoghe, ma l’ottica è diversa. Il character design aiuta molto in questo senso: linee dolci, morbide, un po’ più approssimate, ma decisamente più espressive, descrivono meglio quello specchio dell’animo che ogni artista con qualcosa da dire dovrebbe essere in grado di ricreare. Aggiungiamoci un elemento fantastico trattato con una naturalezza abbastanza genuina e non troppo forzata - nella prima parte - e otteniamo un prodotto finalmente scorrevole, volendo anche incalzante, o se non altro godibile dal punto di vista narrativo.
Il setting è l’ultima causa, sebbene la più banale, perché raccoglie tutti gli elementi che hanno portato il regista al successo, dall’iper-realismo dell’ambiente cittadino alla magia dei colori caldi di quelli rurali; un uso sapiente della luce che, anche in questo caso, riesce per primo a colpire lo spettatore.

Il vecchio: l’arte

La maturità artistica Shinkai l’ha raggiunta già durante la produzione de “Il giardino delle parole”, opera in cui riesce a ricreare e a gestire alla perfezione un ambiente cittadino così maniacalmente rifinito da sembrare reale. Esprime in questo modo tutto il potenziale del disegno digitale e dà prova della tanta pazienza e perizia dei propri disegnatori e animatori; colpisce, e lo fa con forza. In questo senso “Your Name.” differisce dal lavoro precedente e il regista si trova a curare contemporaneamente un ambiente rurale, dominato dalla vegetazione, dai colori accesi e da una luce calda, e uno cittadino, la sua Shinjuku, dai riflessi sui vetri dei palazzi e dalla caratteristica skyline. C’è un po’ una summa dei precedenti lavori, il Giappone tradizionale e quello moderno, il pacato e il frenetico, sempre cinti e circonfusi dell’elemento comune che ha fatto la fortuna di Shinkai: la luce.

Shinkai piace prima di tutto per la propria poetica del colore, per i contrasti delicati e la ricchezza di tonalità, oltre che di dettagli fisici. Controlla ogni aspetto della grafica in modo da renderlo il più realistico possibile e finalmente abbatte quella barriera che fino al lavoro precedente si ergeva tra personaggi e fondali, portando tutto su un unico livello. Le animazioni sono fluide e dai movimenti precisi, in qualche punto dinamiche e virtuose, altrove un po’ carenti; nel complesso è un lavoro più che buono e che viene ripagato in termini di impatto sullo spettatore. Ogni momento della giornata e ogni ambiente, interno o esterno che sia, ha le proprie tonalità e la propria luce, le proprie ombre e le proprie sfumature, ognuna diversa dall’altra. È nuovamente l’apice del realismo, ma stavolta non in dissonanza coi personaggi e la parte dinamica della scena, il che conferisce un tocco in più di magia.
L’aggiunta di effetti come gradienti e lens flare, l’ombreggiatura e la rifinitura in 2D degli elementi in computer grafica e i ritocchi a spigoli e bordi con colori chiari, atti ad accentuare l’immersione degli oggetti in una luce intensa, si sposano bene con una regia che vuole valorizzare i dettagli, anche in modo un po’ eccessivo, nell’alternare costantemente campi lunghi a primi piani un po’ troppo spinti. Tuttavia ogni cosa è calcolata, tutto ha una sua precisa funzione, e il gioco, anche stavolta, funziona alla grande.

Il nuovo: l’intreccio

Uno dei punti di stacco è rappresentato proprio dall’intreccio, cioè da come Shinkai abbia deciso di passare da storie semplici e lineari - per non dire banali - la cui unica funzione era quella di orpello del comparto grafico, a una trama sensibilmente più complessa che si sviluppa su più piani spaziali e temporali, sufficientemente ampi da permettere una caratterizzazione adeguata dei personaggi.

Taki è un ragazzo di Tokyo, vive in un appartamento con il padre nella frenetica Sinjuku, dove frequenta il liceo, lavora part-time in un ristorante e si gode la propria adolescenza assieme ai compagni di scuola. Mitsuha è una coetanea di Taki, abita nella cittadina di montagna di Itomori e vive col desiderio di riuscire ad andarsene dal proprio paese natale per trasferirsi in una grande città e sperimentare una vita da normale adolescente. I due non si sono mai incontrati, eppure per qualche motivo condividono l’uno i sogni dell’altra e viceversa; si scambiano, vivono vite diverse dalla loro e al mattino si risvegliano nel proprio letto, senza memoria alcuna di quanto accaduto durante il sonno, ma con una sensazione opprimente di malinconia a stringer loro il cuore. Questo genere di esperienza evolve, all’inizio del film, in uno scambio fisico, sebbene simile nelle modalità: Taki si sveglia nel corpo di Mitsuha e viceversa, vivono una giornata in un corpo a loro estraneo e la mattina seguente tornano in sé stessi. Lasciandosi note e appunti su quaderni e diari, i due tentano di superare con raziocinio l’imbarazzo e le difficoltà che il destino ha voluto porre loro davanti, sviluppando un rapporto di complicità che va presto oltre l’ordinaria amicizia.

La scelta di virare verso la commedia da un lato rende il film più appetibile al grande pubblico, ma dall’altro crea forti disequilibri nella bilancia dei contenuti. Le atmosfere inizialmente pacate della prima metà inquadrano le difficoltà dei due protagonisti a relazionarsi col sesso opposto in una prospettiva del tutto diversa da quella ordinaria; differenze fisiche e comportamentali, rapporti interpersonali e realtà inizialmente sconosciute, creano un simpatico - per quanto poco originale e alla lunga ripetitivo - gioco di equivoci che riesce a catturare lo spettatore.
Nella seconda parte i toni si fanno più cupi, la tensione e il ritmo incalzano e ritorna ad aleggiare sulla scena il fantasma dell’incomunicabilità delle sensazioni e dei sentimenti, mentre cresce sempre di più sia la “distanza” tra i protagonisti sia l’abuso che viene fatto dell’elemento sovrannaturale, con annesse forzature a livello di intreccio. Questo è un aspetto che penalizza parecchio l’intera opera; lo sceneggiatore - che è sempre Shinkai e sottolineo ancora che non fa, in generale, un cattivo lavoro - sembra quasi che stavolta abbia esagerato nell’infarcire il proprio lavoro di colpi di scena e situazioni che risultano poco credibili anche in un contesto fantastico, al solo fine di porre quella sfumatura tragica con la quale ama firmare i propri film. Il risultato è un connubio un po’ dissonante di ilarità e pathos, che sebbene sia atto a rappresentare quell’imprevedibilità che caratterizza la vita e trovi quindi nel film una propria raison d’être, trova comunque difficoltà nel passare in modo elegante dall’una all’altra.

Conclusioni: il superamento dell'incomunicabilità

Il tema centrale su cui il film è basato, quello dell’intrecciarsi del tempo e delle relazioni, del condividere una parte del tutto, dell’amore che supera la barriera dell’incomunicabilità e che per quanto sembri perdersi, prima o poi si ricollega, non è un tema trattato in modo approssimativo, anzi. Forse è proprio l’elemento che mi ha stupito di più del modo in cui Shinkai ha approcciato la sceneggiatura. Quello del musubi è un messaggio di speranza: se ognuno è parte di un tutto, di un intero, se si condividono delle esperienze, delle sensazioni e delle emozioni, allora quello diventa il filo rosso del destino che lega due persone e, per quanto esso si aggrovigli, si arrotoli e si spezzi, alla fine si ricomporrà e sarà di nuovo intero. Può non essere del tutto manifesto, ma c’è; così è come la nonna della protagonista, non a caso, definisce anche lo scorrere del tempo. Questo elemento funge da filo conduttore e attraversa l’intero sviluppo della storia, partendo da una situazione, sviluppando delle difficoltà e arrivando finalmente a una - per quanto forzata - conclusione. È un passo in avanti per Shinkai, sia a livello di contenuti sia di esperienza come sceneggiatore. Quello che va meno del resto, come già detto, sono le forzature dell’intreccio e una sceneggiatura che non sa gestire le informazioni da fornire allo spettatore, quasi costretta in più di un punto a mettere in scena dialoghi poco sensati e innaturali al solo fine di spiegare scelte e azioni dei personaggi. Tutto questo inficia fino a un certo punto la fruibilità del racconto, che di per sé rimane buono e scorre in modo abbastanza fluido. Sono aspetti che spero vivamente di vedere corretti - e non avrei mai pensato di dire una cosa del genere - in un prossimo ipotetico lavoro del regista, tanto mi ha incuriosito la sua inaspettata evoluzione. Non ritengo dunque “Your Name.” un capolavoro, ma, nonostante i suoi limiti, penso sia riuscito bene a comunicare il messaggio di cui si è fatto portatore, risultando nel complesso un film apprezzabile anche da chi, come il sottoscritto, non provasse particolare affezione verso Makoto Shinkai e i suoi precedenti lavori.