In occasione della 25° edizione del Far East Film Festival, la kermesse udinese dedicata al cinema asiatico a tutto tondo, abbiamo avuto la possibilità di partecipare agli incontri organizzati per la stampa con gli autori, registi ed attori di determinate pellicole.
Di seguito Vi proponiamo il focus sul celeberrimo regista Ryuichi Hiroki, che ha diretto pellicole dei generi più svariati, da Tokyo Love Hotel a Marmalade Boy e Kanojo (Ride or die).
 
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A Udine Hiroki è giunto assieme al suo più recente film drammatico Phases of the Moon (Tsuki no michikake), nonché alla pellicola You've got a friend, entrambe uscite nel 2022, ma afferenti a temi e generi molto diversi tra loro.
 
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Phases of the Moon~ Trailer completo
con sottotitoli in lingua inglese
 

 
Osservando un dettaglio di Phases of the Moon, tramite le t-shirt del giovane Akihiko ci sembra che la pellicola faccia riferimento a un altro film, "A swedish love story", anch’esso con una storia d’amore tragica. Quindi ci si chiede se Lei avesse inserito appositamente tutti questi tipi di dettagli, come Anna Karenina o la scena drammatica del passaggio a livello, le diverse scatole raffiguranti dei delfini che sono simbolo di reincarnazione, e così via.
Inoltre vorremmo chiederLe se Lei ha mai studiato qualcosa in merito, ad esempio su libri di psicologia, per parlare della reincarnazione o delle varie simbologie ad essa correlate.


Ryuichi Hiroki: in realtà questo progetto mi è stato proposto, difatti l’opera originale è un romanzo, quindi l’idea era proprio di trarre un film da questa storia che parla della reincarnazione. Questo è stato il punto di partenza e, diciamo, la base per tutto il film e il suo sviluppo.
 
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Durante la proiezione di Phases of the moon ci è subito saltato all'occhio un dettaglio nello stile degli ambienti in cui si svolge il film con il loro arredamento e mobilio: l'appartamento di Akihiko, la casa di Masaki, l'abitazione della famiglia Osanai, fino alla lussuosa hall dell'hotel ove si incontrano due dei personaggi principali... riflettono tutti un'estetica molto occidentale. Visivamente tutto questo risalta molto, se si pensa che il focus del film è sulla reincarnazione, ovvero un tema molto caro all'oriente con una prospettiva agli antipodi dall'Occidente. Si tratta di un contrasto voluto che ha portato Lei, oppure anche gli ambienti sono stati riprodotti così come descritti nel libro?

R. H.: assolutamente, è voluto. Questo perché nel momento in cui si parla della reincarnazione, si fa subito un allacciamento mentale con il buddismo, quindi con qualcosa che ha un sapore giapponese, che presenta comunque un’atmosfera giapponese, perciò spesso si ha un riverbero di questo anche a livello di architettura, nelle case, negli ambienti.
Io però non volevo fosse così, assolutamente; volevo prendermi la possibilità di fornire un approccio più vasto e quindi anche più generale, per questo ho creato quelle ambientazioni ad hoc per il film, seguendo dunque quella che era la mia idea. Niente di tutto questo era riportato nel romanzo originale, che si concentra più sulla storia e sul tema della reincarnazione, senza focalizzarsi su elementi dell’arredamento o altro.

R. H.: e voi invece, credete nella re-incarnazione?

In qualcosa dopo la morte, sì, un mondo diverso.

R. H.: io stesso non credo al 100% nella re-incarnazione. Una volta però mi è capitato di parlarne con un conoscente medico che mi ha riferito che ci potrebbe essere in effetti una qualche forma di re-incarnazione nel ciclo vitale, al di fuori di quello che è il primo ciclo vitale.

Ponendo sempre attenzione all’adattamento romanzo, volevamo capire se ci fossero stati altri cambiamenti del materiale originale e se avesse aggiunto Lei il luogo dell’ambientazione ad Aomori, visto che rispecchia le sue origini di Fukushima.

R. H.: no, la prefettura di Aomori era già presente nell’opera originale; ciò che differenzia invece la vicenda che si vede narrata nel film, rispetto al libro, sono le date. Io ho creato un asse temporale che partiva dalla data in cui è venuto a mancare John Lennon, il dicembre dell'anno 1980.
Tra l'altro, tutto quello che si vede ambientato nel quartiere di Takadanobaba a Tokyo in realtà è stato perlopiù ricreato in computer grafica.
 
location bigbox takadanobaba


La musica sembra essere una costante nei suoi film, non solo come colonna sonora, ma come parte della storia che si racconta. Per lei che cosa rappresenta la musica, e che potere ha nei film?

R. H.: i film sono un’opera d’arte che si basa su tre elementi: il suono, l’immagine e l’interpretazione degli attori. Da prima di diventare regista mi sono sempre chiesto perché l’aspetto del suono venisse sottovalutato, quindi quando ne ho avuto l’occasione e sono diventato regista io stesso, ho deciso di dare al suono l’importanza che ha. Infatti quando il produttore mi ha detto che potevo utilizzare la musica di John Lennon in quest'opera ho esclamato "Eh? Davvero?!" e non me lo sono fatto ripetere due volte. Utilizzare le sue musiche è estremamente costoso, quindi potremmo dire che il budget per questo film è praticamente finito tutto qui, però per uno come me, che proviene da film dei circuiti indipendenti, poter utilizzare le musiche di John Lennon era impensabile. 

In diversi suoi film i conflitti delle protagoniste sembrano manifestarsi sempre in questo spostamento nel vuoto. Ed è proprio in questo spostamento che individuiamo il tentativo delle protagoniste di elaborare il proprio lutto, oppure - in altri film - la ricerca del proprio posto nel mondo. Quindi ci chiedevamo se quando Lei inizia a costruire la storia partisse proprio da qui, da questo rapporto tra la protagonista e la realtà circostante.

R. H.: il fatto che questo sia stato percepito diventa già una realtà. Io non sono così conscio di questa idea dello spostamento, del movimento, però in realtà c’è anche quello che dici, visto che te ne sei accorto.
Però una cosa posso dirla, e secondo me vale per molti: c’è sempre uno spazio interiore per tutti noi, e quando si decide di uscire un po’ fuori da questo, per poterlo fare serve coraggio. Io non sono interessato a narrare se fare tutto questo sia giusto o sbagliato, assolutamente, per me la cosa importante è cercare di uscire da questo - cioè dal proprio - circondario. Ovviamente uscire è un azzardo, perché rischi di ferire qualcuno, oppure può essere un’esperienza positiva e puoi gioirne o far gioire qualcun altro... alla fine tutti noi esseri umani cresciamo in una maniera progressiva, e quindi l’azione di uscire da una propria zona di comfort e vedere cosa succede è un qualcosa che mi piace ritrarre nella cinematografia.
 
tsukimichi arimura


In diversi suoi film come You’ve got a friend, si fa riferimento all’industria dell’intrattenimento per adulti, quindi ci chiedevamo come Lei riesca ad equilibrare il tutto con storie che non sono propriamente erotiche. Inoltre volevamo capire se questo aspetto c'entri con l’origine della sua carriera.

R. H.: l’equilibrio percepito nasce del fatto che sono cresciuto con i film. Quindi quando mi viene dato un progetto che deriva da storie di terze parti, come ad esempio i romanzi, io li studio: studio ciò che mi viene dato e la realtà della storia che mi è stata presentata, e da lì creo il film.
È una realizzazione che nasce dallo studio e da tutto ciò che ho avuto modo di fare in passato.

 
You've got a friend ~ Trailer completo
con sottotitoli in lingua inglese
 


In You’ve got a friend non si tratta "l’ossessione" del protagonista come uno scherzo o in maniera ironica, quindi ci chiedevamo come Lei sia stato in grado di lavorare da una sceneggiatura di terzi e creare un personaggio e una storia d’amore così piena di emozioni e in grado di trasmetterne altrettante.

R. H.: è come se io fossi al 100% il protagonista, perché se non pensassi nella sua ottica, mi sarebbe stato impossibile rendere il protagonista in quel modo. Per essere più preciso, però, non è che io fossi al 100% il protagonista, ma è come se il protagonista fosse stato da me osservato e “tenuto sotto osservazione” al 100%. Quindi quello che succede può essere un 100% sì e un 100% no allo stesso tempo.

 
You_ve_Got_a_Friend-nahana


In You’ve got a friend, come è stata scelta l'attrice che ha interpretato la protagonista femminile?

R. H.: è stata scelta Nahana per il suo talento, perché non ritenevo che ci fossero molte attrici in grado di dare vita a un personaggio così difficile da interpretare. Inoltre, la storia originale è un manga di Naoki Yamamoto.
Quando ho deciso di voler fare questo film, ho parlato con lei riguardo al suo ruolo e lei era concorde, ma dalla prima volta che ne abbiamo parlato fino alla realizzazione del film sono passati sette anni. L’attore protagonista Jun Murakami, invece, per apparire in questo film ha dovuto perdere diversi chili per evitare la pancetta da persona di mezza età.

Sia in You’ve got a friend che in Phases of the moon ci sono due storie d’amore impossibili dove però gli innamorati trovano comunque un modo per tornare assieme, per ritrovarsi. Quindi ci chiedevamo se secondo lei si intenda così dare una visione ottimista o meno. Vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, insomma.

R. H.: vorrei essere ottimista e vedere il bicchiere mezzo pieno, ma non ci riesco...

Secondo lei cos’ha spinto in particolare i registi giapponesi, ad abbandonare la pellicola così presto in favore delle nuove tecnologie digitali?

R. H.: la ragione maggiore è stata di natura economica per il Giappone. Questo perché ovviamente passando dalla pellicola al digitale servivano nuove strumentazioni, che dovevano essere prodotte, e quindi si avviava un processo che faceva per forza girare l’economia. Quest’ultima era in un momento di stagnazione, quindi è per questo che si è deciso di puntare sul digitale, per ovviare a questa problematica.
Alla fine in Giappone è forte la mentalità capitalista e probabilmente non c'è stata la percezione che passando dal film al digitale ci sarebbero state delle grandi variazioni nel cinema, e invece, nella realtà dei fatti, utilizzando il digitale, il cinema è cambiato molto. È cambiato sia per il modo di fare le riprese, sia per i contenuti e ovviamente sono cambiate anche le strumentazioni. I cambiamenti quindi ci sono stati, non sto qui a dire se siano stati positivi o negativi, però senza dubbio il mondo cinematografico, con il digitale, è cambiato.
 
You_ve_Got_a_Friend-ossessione


Alcuni dei suoi film più recenti sono passati direttamente allo streaming, mentre precedentemente Lei ha sempre realizzato film per il cinema. Lei ritiene che lo streaming sia un fattore positivo che permette di ampliare la distribuzione di un film o preferisce il cinema per altre ragioni?

R. H.: la soluzione che prediligo per vedere i film è il cinema. Tra l’altro di recente ho avuto un piccolo shock: avevo proposto una mia opera ad un sito di streaming che l’ha caricata ed in passato, quando realizzavo un film, alla fine mi rimaneva sempre in libreria o il dvd o la cassetta o il blu-ray. C’era sempre qualcosa di fisico che mi rimaneva e che potevo trovare nella mia libreria. Adesso non c’è, è tutto quanto digitale, quindi quando scade il periodo di distribuzione non lo puoi più vedere.. e mi chiedevo dove fosse. In questo modo non ho idea di dove sia finito il mio film e questo mi ha dato una certa incertezza. Preferirei sicuramente se fosse pubblicato in streaming e poi ne fosse fatto un dvd o blu-ray.
Adesso è diverso il pubblico e la fruizione del contenuto: c’è chi va al cinema, chi guarda in televisione, chi usa lo smartphone, però se assieme a questi mezzi si utilizzasse anche il supporto fisico, secondo me si allargherebbero le possibilità e non si creerebbero dei piccoli cannibalismi tra tutti questi mezzi.


Fonti consultate:
Si ringrazia mxcol per la trascrizione dell'intervista, nonché l'ufficio stampa del Far East Film Festival per la disponibilità