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Rudido

Episodi visti: 1/1 --- Voto 9,5
"Bona" (1980), di Lino Brocka, è un film drammatico che si spinge oltre la semplice messa in scena di una storia d’amore tossica. È un capolavoro ritrovato del cinema filippino che oltre a esplorare la dimensione della sofferenza, muove una critica sociale pungente sulla condizione della donna e dei più deboli nella società dell'epoca. E nello stesso momento incita, sottilmente, alla rivolta.

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La protagonista, è una giovane studentessa che abbandona la sua vita relativamente agiata per seguire Gardo, attore di mezza tacca che vive in un quartiere misero, più grande di lei e noto per il suo fare da donnaiolo. Innamorata, va a vivere con lui, ma ben presto si trova ad essere trattata come una schiava, costretta a sopportare le sue scappatelle e a occuparsi della casa e di tutto ciò di cui lui ha bisogno. Fin quando la situazione non precipita.
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Anche se "Bona" non è dichiaratamente un film politico il suo sguardo critico verso le disuguaglianze sociali e verso il maschilismo è evidente. La regia solida e sobria di Brocka sfrutta location reali: baraccopoli, quartieri miserabili e spazi angusti, che riflettono precisamente le condizioni di vita delle classi più povere.
La camera segue i personaggi senza virtuosismi o movimenti complessi, come un osservatore silenzioso. Questa scelta, che rafforza l’impatto emotivo delle vicissitudini della protagonista, porta l'attenzione a più riprese sulla condizione delle donne in una società fortemente patriarcale. Ciò è particolarmente evidente nelle scene che riguardano il rapporto della ragazza con la sua famiglia, ma non solo.

In una sequenza emblematica, mentre Bona lava Gardo, lui la paragona a sua madre, e questo non è affatto casuale. Nel contesto sociale dell'opera, tale visione implicava che lui la considerasse una figura di supporto incondizionato e costante, non una compagna o una persona con desideri e bisogni propri. Brocka si concentra inoltre spesso sull’interiorità di Bona, evidenziandone la lenta discesa nella dipendenza affettiva. La macchina da presa la isola a più riprese nei suoi momenti di solitudine, di riflessione e di sofferenza.

Uno degli elementi che rende questa pellicola potentissima ancora oggi è proprio la straordinaria performance di Nora Aunor. Colpisce fin da subito come l'attrice sfrutti i silenzi per esprimere le complesse emozioni del suo personaggio. Bona è una ragazza di poche parole, ma la sua incapacità (o il suo rifiuto) di esprimere verbalmente soprattutto il dolore, è resa reale e tangibile da una recitazione piena di sfumature. E tutto ciò senza scivolare mai nel patetico.

Oltre alla recitazione, non si può ignorare il peso simbolico e polivalente dell’acqua, che riflette e amplifica la condizione della protagonista e la sua relazione con Gardo. Fin dall’inizio, la pioggia cade incessante quando lei lo accompagna a casa per la prima volta, stabilendo il tono della loro relazione che mescola tristezza e speranza. In seguito, diventa il mezzo attraverso il quale si esprime la dinamica di sottomissione tra i protagonisti. Bona non solo è costretta a fare la fila con le taniche nello squallido sobborgo dove vive l'attore, ma ogni giorno si sacrifica perfino lavandolo, in un gesto rituale che non ottiene riconoscimento e non genera alcuna gratitudine.
Sebbene l'acqua sia spesso associata alla purificazione e al rinnovamento, in questo film assume un significato contrario: ogni goccia che tocca Gardo, invece di purificarla, sottrae a Bona la sua dignità, annullandola. Eppure, nel finale, c'è un cambio radicale e questo elemento diventa il catalizzatore di una reazione furiosa. Non più strumento di sacrificio, si fa “esplosione”, in un atto incontrollato che risponde a tutta la violenza subita. Ma anche adesso non purifica, bensì distrugge.

Non si tratta quindi solo del ritratto di una giovane donna che subisce: Bona ha una forza interiore che “emerge”, e che viene elargita scena dopo scena allo spettatore con parsimonia. La sua parabola è resa in modo straordinario e toccante. Dall'ingenuità all'adorazione cieca, per arrivare alla disperazione assoluta. Un percorso che culmina in una liberazione violenta, una vendetta che pone anche fine alla narrazione.

L’ultima sequenza però non chiude, piuttosto mette lo spettatore davanti a un enigma. Il volto della Aunor ancora una volta dice tutto senza dire niente. È un grido silenzioso che Brocka lascia volutamente “aperto”. Non sapremo mai cosa accadrà dopo: sarà arrestata? Fuggirà? Crollerà definitivamente? L'autore sceglie di non risolvere la storia, ci costringe a portarcela via con noi, anche dopo il finale. E in più, questo gesto, reso con un'intensità clamorosa, porta dentro molte altre cose. È anche un risveglio allegorico oltre che una semplice rivalsa personale, un atto di ribellione contro l'intera struttura dominante.

Il frame con cui si conclude la storia è da antologia della settima arte. Un'immagine intima e politica, personale e collettiva. Bona è in piedi e non più inginocchiata, con il fuoco negli occhi e la pentola ancora in mano. Il simbolo della sua schiavitù si è trasformato in strumento di rivolta. È un fotogramma incandescente ma anche un manifesto di lotta. È il cinema contro il potere.