Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su anime e manga, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!

Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.

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8.0/10
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Inutile girarci attorno: per quanto il sottoscritto apprezzi molto i manga di target shonen, soprattutto se improntati sull’action, negli ultimi anni Jump, rivista di punta della categoria, è sempre stata più vittima di critiche, talvolta giuste, talvolta esagerate, focalizzate in particolar modo sulla poca originalità delle serie proposte. Del resto, ormai, di manga (e quindi anime) d’avventura e azione se ne sono visti davvero in tutte le salse, e oggi, per un mangaka, emergere in mezzo ad un mare di cliché e stereotipi diventa sempre più arduo. Anche perché le tematiche, pian piano, vengono affrontate tutte e ingegnarsi per essere originali e accattivanti diventa sempre più difficile, soprattutto nei confronti del pubblico odierno, molto avvezzo a parlare (e soprattutto sparlare) online di una serie sancendone il trionfo o la disfatta con una rapidità disarmante. «Dr. Stone», in tal senso, anime del 2019 prodotto dallo studio TMS Entertaiment, basato sul manga (scritto da Riichiiro Inagaki e disegnato da Boichi, non l’ultimo arrivato, basti pensare all'enorme numero di serie dell’artista coreano pubblicate negli ultimi quindici anni) pubblicato settimanalmente sul Jump, non ha avuto vita facile nelle prime battute. Nei primi sondaggi, infatti, sembrava inesorabilmente destinato alla cancellazione eppure, superato l’arduo scoglio dei primi venti capitoli, nel tardo 2017 cominciò sorprendentemente ad ingranare divenendo presto una serie stabile sulla più nota rivista manga giapponese. Come ha fatto «Dr. Stone» ad affermarsi presso il grande pubblico? Cosa lo ha reso una serie tanto popolare?

La storia comincia nei giorni nostri presso un liceo giapponese. Senku è un bizzarro liceale che eccelle in tutte le materie e che adora sperimentare in ogni campo della scienza, mostrandosi brillante e allo stesso tempo grande conoscitore nelle più svariate discipline. Un giorno, però, una misteriosa luce verde squarcia i cieli dell’intero globo, alla quale consegue la drammatica trasformazione di tutta l’umanità, e di molti altri esseri viventi, in pietra. La società umana, pertanto, si arresta di colpo, venendo in pochi decenni cancellata dalla natura. Così per oltre 3700 anni. Taiju Oki, ingenuo ma caparbio amico di Senku, trasformatosi in pietra proprio sul punto di dichiararsi alla sua cotta adolescenziale, riesce sorprendentemente a svegliarsi dalla letargia forzata, rompendo l’involucro roccioso e trovandosi così di fronte ad una realtà completamente diversa da quella a cui era abituato, dove la civiltà umana è stata completamente sostituita da lussureggianti foreste. Dopo poco tempo il ragazzo si ricongiunge, per coincidenza, con il suo amico cervellone, anche lui risvegliatosi, sebbene con qualche mese d’anticipo. Senku, nel mentre, in pochi mesi è riuscito a ricreare un habitat quantomeno familiare dove poter sopravvivere, e ha cominciato ad indagare sull’origine della catastrofe naturale che ha spazzato via la civiltà umana, e sulla possibilità di trovare un eventuale cura alla pietrificazione. Apparentemente soli nella feroce giungla, i due ragazzi si troveranno invischiati in una feroce lotta per la sopravvivenza, salvo poi scoprire di non essere i soli umani ad essere sfuggiti alla pietrificazione permanente...

La trama di «Dr. Stone» è semplice e lineare, dove l’aspetto battle è focalizzato soprattutto sulla sopravvivenza, nelle prime battute, e in un secondo momento sull'ingegnarsi a riprodurre vari utensili, con l’intenzione ultima di ricreare da zero la società umana, tramite l’ausilio della scienza. Per molti aspetti, la storia proposta ricorda molto i giochi di costruzione delle civiltà, stile «Age of Empire», dove la difficoltà stessa è legata al determinare le condizioni affinché tale creazione veda la luce. Inoltre è impossibile non notare come questa serie sia una gigantesca celebrazione della scienza, che attraverso la sperimentazione porta ad una risoluzione, a volte immediata a volte no, delle varie difficoltà a cui i nostri protagonisti vanno incontro. La storia, pur non brillando per complessità, si regge soprattutto sull’aspetto mistero, e sugli svariati tentativi di risoluzione dei problemi, spesso in apparenza "cose di poco conto", come il procurarsi da mangiare e da bere. Un approccio decisamente interessante, soprattutto per un target shonen. Credo che il più grande punto di forza di questa serie stia appunto nell’originalità delle sfide proposte e nella gestione delle stesse: niente superpoteri, niente power up, solo tanta voglia di scoprire e dare un senso a un contesto che di senso non ne ha, e nel frattempo cercare di evitare di tirare le cuoia in un ambiente così ostile. Ogni episodio cattura lo spettatore grazie a delle vere e proprie sfide di sopravvivenza, scontate, almeno in una società moderna ed agiata, ma che diventano nell'ambientazione dell'anime imprese ardue, oltre che estremamente pericolose. Altro punto a favore credo sia la meticolosità che viene posta nel descrivere i processi attraverso cui, nel corso degli episodi, si arriva alla risoluzione dei problemi. L’aspetto “divulgativo”, con articolate spiegazioni scientifiche degli eventi presentati e delle “strategie” di risoluzione adottate, in pieno stile problem solving, risulta forse l'aspetto di maggiore interesse, benché non sempre si riesca a mantenere una completa verosimiglianza (e questo è uno dei piccoli difetti della serie). Altra nota stonata è la narrazione lenta, focalizzata per l’appunto su un approccio descrittivo: questo stile potrebbe risultare pesante, e se si vuole usufruire di una visione più improntata all’azione in senso stretto uno spettatore finisce per annoiarsi facilmente.

I personaggi sono particolari. Non presentano approfondimenti psicologici di chissà quale entità, e allo stesso tempo non mostrano particolari sviluppi degni di nota. Eppure lasciano il segno, grazie ad un’efficace ed originale presentazione degli stessi, divenendo quindi delle macchiette memorabili. Per molti aspetti, ricordano i personaggi secondari dei manga di Togashi: non mostrano molto di sé, ma quel poco lo fanno vedere in maniera chiara e accattivante, e questo lo definisco in conclusione un pregio. Un’altra tecnica, anch'essa tipicamente togashiana, che ho riscontrato con piacere nei personaggi della serie è quello che io definisco “pensiero nel presente”: sono le azioni, il modo di porsi ai problemi che definiscono la psiche del personaggio, e non è il flashback, o la descrizione di un evento del passato, a dare un’idea dello stesso. Questo approccio, estremamente difficile ma che, a mio giudizio, può portare a maggiori soddisfazioni nel definire la psiche di un soggetto descritto, è un ulteriore punto di forza, soprattutto in una serie che fa del problem solving il suo punto di forza. Una considerazione a parte voglio farla su Tsukasa, il main villain della serie. Contrariamente agli altri personaggi del cast, Tsukasa viene fin da subito presentato con una forza irreale, e una mentalità distorta che per diversi aspetti ricorda un antagonista di un manga di Araki (non riuscendoci pienamente, purtroppo). Questo personaggio inverosimile, non l’ho troppo apprezzato in questa prima stagione. Non ho nulla contro questo genere di personaggi (anzi, sono un grandissimo fan di Araki), ma un simile “bizzarria” in un contesto del genere stona non poco, determinando un senso di contraddittorietà nello spettatore. In realtà posso comprendere il perché di una simile scelta: contro il cervellotico e razionale Senku, Inagaki ha voluto mettere come grande rivale un essere irrazionale e illogico per antonomasia. Scelta azzeccata? Forse, per ora, a mio giudizio, non tanto, ma staremo a vedere. Dipenderà molto dallo sviluppo e contestualizzazione che avrà in futuro.

Graficamente l’anime è notevole, con paesaggi dettagliati e colori vivaci. L’azione è per lo più statica, ma nelle poche scene di combattimento la regia fa il suo onesto lavoro, con inquadrature fluide e dinamiche, seppur non eccellenti. Le OST sono limitate, ma di buon livello. Opening ed ending sono tutte azzeccate e, a mio giudizio, molto belle.

Concludendo, «Dr. Stone» è una gradita ventata d’aria fresca in una categoria di anime ormai satura e per forza di cose spesso non molto originale. Non presenta trame e sviluppi di rilievo, ma attraverso un’ambientazione atipica e una sceneggiatura semplice ma innovativa riesce a catturare l’attenzione dello spettatore, interessandolo con una facilità inaspettata, soprattutto a fronte delle tematiche proposte. Si può dire che l’autore, per certi aspetti, abbia sperimentato nella trama, a volte con successo a volte meno, proprio come il protagonista Senku. Può tuttavia non piacere a tutti (consiglio pertanto di provare i primi 5-10 episodi e poi decidere di conseguenza) e presenta diversi margini di miglioramento. Ad ogni modo, ne consiglio caldamente la visione.

8.0/10
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“Stai andando alla Fiera di Scarborough?
Prezzemolo, Salvia, Rosmarino e Timo;
Porta i miei rispetti ad una persona che vive lì,
Lei che un tempo fu il mio Vero Amore.”

Inizia con i magici, malinconici e struggenti versi di “Scarborough Fair”, un anime che di impegnativo ha anche il titolo: “Che farai alla fine del mondo? Sei impegnato? Verrai a salvarmi?”, abbreviato più comodamente in “WorldEnd”, o “SukaSuka”. Eccoci quindi a parlare di un’altra perla, passata un po’ inosservata rispetto a quanto avrebbe potuto raccogliere.
La prima cosa che appare palese è che questo prodotto ha fra i suoi punti di forza una colonna sonora semplicemente mostruosa, un assoluto capolavoro. A parte i numerosi e solidi brani d’ambientazione, come citato poc’anzi, il tutto si apre con una rivisitazione sinfonica moderna del celebre canto inglese (fra le sue rivisitazioni si annoverano le storiche versioni di Simon & Garfunkel o del nostro Branduardi), canto popolare inglese che presumibilmente risale ai primi del 1600 e che narra di una storia d’amore “impossibile”, ambientata in un’epoca medievale piuttosto vaga; racconto di un amore impossibile che calza perfettamente con il canovaccio di “WorldEnd”: malinconico, tragico, drammatico, tuttavia intriso di un amore inossidabile, con la giusta dose d’azione e colpi di scena che non lasceranno certo indifferenti, ambientato in un mondo fantastico e originale, popolato dalle razze ibride più disparate, a cavallo fra il fantasy classico e il tecno-futuristico, che strizza l’occhiolino a uno steampunk appena accennato.

Sono passati ormai circa cinquecento anni da quella che fu una terribile guerra, capace di estinguere quasi l’intera totalità del genere umano. Oggi, le razze che popolano il mondo vivono su delle cittadelle volanti, poiché a terra, sulla “superficie”, il rischio di morte è quasi certo, a causa della presenza di gigantesche creature mostruose e spietate, causa primaria proprio della fine dell’umanità stessa. È questo l’incipit della storia che segue le vicende di Willelm, un ragazzo misterioso legato in qualche modo all’esercito militare, e che sarà incaricato della custodia di alcune “armi” piuttosto particolari, armi che gli permetteranno di scoprire verità terribili e strazianti legate al destino del mondo stesso e di chi lo abita.
Ma, prima di questo incarico, il nostro protagonista fa un incontro inaspettato: una giovanissima ragazza dai capelli azzurri e dagli occhi dolcissimi, un po’ infantile e un po’ timida sembra essere nei guai. Willelm è un gentiluomo, ma non può avere idea che si tratta dell’incontro che gli cambierà la vita - ancora una volta. Come un fiore in piena primavera, la trama si apre all’improvviso, accompagnata dalle note di “Scarborough Fair”, melodia che riesce a donare un tocco antico, nostalgico e prettamente medievale alle scene già di per sé coinvolgenti e piene d’atmosfera.

I primi dieci minuti sono un vero capolavoro, dove si tesse l’incipit di coinvolgimento emotivo immediato, capace di gettare lo spettatore in un mondo e sufficientemente credibile, compreso un avvenimento - seriamente scioccante - che mette in chiaro sin da subito il sapore drammatico e commovente della vicenda stessa.

Tratto dalla prima parte di una sequenza di novel che raccontano le vicende di Willelm e di questo mondo misterioso, l’anime viene trasposto in dodici episodi che risultano stretti per poter narrare la storia in modo elastico e ampio come avrebbe meritato.
Come spesso accade quando la trasposizione animata viene compressa (o talvolta mutilata), il rammarico è notevole, ma, nonostante ciò, la qualità complessiva del prodotto rimane alta.
Oltre all’intera OST memorabile (tutte le sue sfaccettature, dalla opening alla ending, passando per i brani d’atmosfera e i pezzi cantati che vorrete salvare e risentire per anni e anni), “WorldEnd” mostra dei personaggi secondari apparentemente corposi e intriganti. Sebbene sulle prime battute rischia di trasformarsi in qualcosa che ricorda alla lontana un vago “harem”, perde immantinente (e fortunatamente) tali parvenze, scivolando inevitabilmente, passo dopo passo, verso toni ben più seriosi e drammatici.
È la storia di un mondo fantastico nel più classico stile fantasy nipponico, punteggiato di sci-fi e tecnologia superstite, un post apocalittico inusuale e piacevolissimo che vi farà affezionare ai personaggi in breve tempo. Nonostante la trama sembri inizialmente incentrata su questioni di guerra, ciò si rivelerà invero un palcoscenico per una storia d’amore dolce, tenera, sofferta e sincera, sicuramente telefonata eppure gradevolissima.

“WorldEnd” non si preoccupa degli stereotipi. Ci cammina sopra grazie alla sua potenza emotiva, accompagnata da superbe animazioni durante le sequenze di combattimento, qualità che raggiunge un livello eccelso nell’ultimo, roboante episodio. Anche i colori scelti per i personaggi, le loro evoluzioni e gli scenari stessi vengono selezionati con cura in modo da rispecchiare lo stato emotivo del momento, creare contrasti cromatici d’impatto e accentuare la drammaticità o l’intensità delle scene.
Se si tratta di un anime sicuramente meno apprezzato di quanto avrebbe potuto meritare, è anche vero che nei brevi, dodici episodi a disposizione sono presenti vistosi cali d’animazione nei momenti più blandi, e talvolta il ritmo di narrazione risulta farraginoso e poco intrigante, ma sono difetti, che, a conti fatti, non possono che passare in secondo piano.
Ciò che lascia perplessi, invece, è la mancanza di spiegazioni riguardo alcuni avvenimenti e situazioni lasciati sfumare lentamente, soprattutto nella seconda parte della storia. Le questioni più importanti, fortunatamente, vengono esplicate in modo esaustivo, ma taluni particolari rimangono oscuri o per nulla accennati, compresi quesiti legati proprio alla vicenda del mondo e dei protagonisti.
È così che si giunge a un finale superbamente animato, un climax altalenante che guadagna potenza negli ultimi tre episodi ed esplode inarrestabile nell’ultimo quarto d’ora: si tratta di un epilogo insospettabile, nonostante le chiare, amare premesse; un finale che parrebbe aperto, e da cui si suppone possa scaturire un seguito per andare a concludere le vicende ispirate alle novel.

Rimango saldamente dell’idea che “WorldEnd”, nonostante tutti i suoi inestimabili pregi, meritasse un lavoro ancora più approfondito e longevo, probabilmente il doppio degli episodi, per permettersi un’introspezione più ampia su diversi personaggi secondari, e per gestire meglio l’evoluzione della storia d’amore che, a conti fatti, è al centro di ogni cosa. Sarebbe potuto divenire un vero e proprio capolavoro del genere fantasy-sentimentale/tragico, ma la sensazione post-visione è che sia stato gestito in modo “discreto” e nulla di più.
Ciò che ci rimane, ad ogni modo, è un insegnamento veramente importante, che pochi sanno mettere in pratica nella vita di tutti i giorni: passiamo troppo tempo della nostra vita ad appassire dietro i nostri problemi, e questo ci distrae dalla bellezza delle piccole cose. Perché siamo noi a dover decidere di essere felici, e nessun altro può né deve interferire con questo.
Ci credereste, se vi dicessi che in una delle storie più tragiche mai animate, si possa incontrare la ragazza più felice del mondo?
Una cosa è certa: nessuna guerra potrà mai cancellare il vero Amore.

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Quando avevo letto il nome di Yuasa ero super felice, considerato che è tra i miei registi preferiti nel panorama dell’animazione. Tuttavia, come è diventato palese guardando la serie, il ruolo di Yuasa è stato, a quanto ho capito, più che altro quello di supervisore, quindi c’è davvero poco di lui in questa nuova serie.

“Japan Sinks: 2020” è una delle numerose trasposizioni del romanzo “Nihon Chinbotsu” dell’autore giapponese Sakyo Komatsu. Il fatto che sia stato trasmesso sulla piattaforma di Netflix proprio nel 2020, anno catastrofico per il mondo, dovrebbe rendere più facile empatizzare col lato tragico della trama e regalare maggiore pathos nelle scene più drammatiche.

Andiamo con ordine. La trama, in una prima superficiale lettura, ricorda quella del più famoso “Tokyo Magnitude 8.0”: Tokyo viene rasa al suolo da un fortissimo terremoto. A questa tragedia, se ne aggiungono a poco a poco altre, tra cui tsunami ed eruzione del monte Fuji, portando al collasso l’intero Giappone. Protagonista di questo dramma è la famiglia Muto che, al momento della prima scossa, si trova separata, e farà di tutto per riunirsi e affrontare insieme ciò che li attende.

Sarà difficile per me dire cos’ha di buono e di meno buono questa brevissima serie, perché spesso quelli che partono come punti di forza si rivelano - andando avanti - proprio degli errori madornali.
In primis il rapporto con la morte. La morte in “Japan Sinks: 2020” non viene minimamente risparmiata, viene mostrata in tutta la sua meschinità e ferocia. È improvvisa ed è inaccettabile, e nelle prime puntate questo elemento funziona anche piuttosto bene, attraverso le espressioni esterrefatte dei protagonisti, o dei sensi di colpa che li affliggono quando non possono salvare amici e sconosciuti. Tuttavia, come dicevo, andando avanti con le puntate, questo particolare diventa da un lato fastidioso, e dall’altro mal gestito. Infatti - evitando spoiler - alcune morti importanti all’interno della serie sono totalmente prive di pathos e di conseguenze emotive, anche negli episodi immediatamente successivi. Considerate le sfumature drammatiche con cui vengono spesso descritte, è inaccettabile vedere i protagonisti, o chi altro, non avere reazioni eclatanti, o a lungo raggio. Dall’altro lato, inoltre, c’è il problema che la violenza messa in scena diventi talmente presente, che lo spettatore non può più avere un minimo di suspense, sa che in ogni episodio accadrà qualcosa a qualcuno, che sia la morte o una semplice mutilazione. Questo crea una desensibilizzazione dello spettatore che viene assuefatto alla brutalità messa in scena, piuttosto che all’imprevedibilità della morte, come poteva essere per il sopracitato “Tokyo Magnitude 8.0”.

Quanto al resto, ho apprezzato come la serie tenti di affrontare altre tematiche di un certo rilievo, tuttavia non approfondendole come avrei voluto: il sospetto e l’ostracismo del prossimo; la discriminazione razziale (in un episodio, in particolare, questa tematica poteva creare una sotto-trama decisamente interessante), fino ad arrivare a quella che ho preferito, le fake news e la disinformazione. Tema, quest’ultimo, attualissimo, in un panorama che vede migliaia di informazioni diverse, alcune attendibili e altre meno, venir usate dalle persone che non hanno la capacità di distinguere le notizie vere da quelle false.

Il finale - sempre senza spoiler - (ma anche diverse scene a metà serie) è un inno al Giappone e alla sua capacità di rialzarsi e non demordere, anche nelle situazioni difficili (simboleggiato un po’ dalla protagonista Ayumu, durante le Olimpiadi), il che ricorda un po’ quei finali buonisti e basati sul sentimentalismo che tanto spesso vengono criticati nei film americani.

In sostanza, la serie non mi è piaciuta, nonostante un inizio promettente e un finale che, per quanto fastidiosamente buonista e “feeloso”, riesce nel suo intento di commuovere almeno un minimo lo spettatore.