Recensione
Abara
9.0/10
Recensione di VeganWarrior
-
"Gauna... non è altro che un contenitore per ciò che un tempo era umano."
"Abara" è un manga che non ti prende per mano. Ti catapulta, senza preavviso, in un mondo che sembra sul punto di crollare da secoli. Inizia così, con una violenza visiva cruda, con corpi spezzati e architetture impossibili, e termina lasciandoti un vuoto profondo, come se avessi camminato per chilometri dentro un tunnel claustrofobico senza mai vedere la luce. Questo non è un manga per tutti. È per chi è disposto ad ascoltare il rumore del metallo che si spezza sotto la pelle, per chi riesce a leggere tra le crepe di un muro rotto, per chi trova poesia nel cemento e nel silenzio.
La trama di "Abara" è volutamente opaca, quasi anti-narrativa. Non c’è un prologo, non ci sono spiegazioni. Esistono i Gauna, esseri mutati, spietati e deformi, e i Guardiani, umanoidi creati per combatterli. In mezzo, il nostro protagonista, Kudo Denji, un ragazzo che porta nel corpo il marchio della mutazione, una bomba biologica costretta a camminare in mezzo a un’umanità che si è già condannata da sola. Non aspettatevi dialoghi rassicuranti o introspezioni lineari. "Abara" comunica con l’architettura, con la distruzione, con il sangue e con il silenzio.
Il vero cuore del manga non è la trama, ma l’atmosfera. Ed è qui che Tsutomu Nihei dà il meglio di sé. Il suo background da architetto si sente in ogni tavola, città distorta, corridoio infinito, nelle colonne titaniche, nei ponti sospesi nel nulla, nei vuoti che sembrano respirare. È un mondo che vive di brutalismo post-apocalittico, dove ogni struttura sembra fatta per schiacciare l’essere umano e ricordargli quanto sia piccolo, fragile, inadeguato.
I temi trattati sono cupissimi, ma reali nel loro linguaggio metaforico, trasformazione, perdita dell’identità, controllo biopolitico, alienazione, distopia ambientale. "Abara" non ti dice mai chiaramente cosa sta succedendo, ma ti fa sentire tutto. E quel sentire pesa. Ti costringe a chiederti dove inizia il mostro e dove finisce l’uomo. E se davvero ci sia una differenza. I personaggi sono volutamente scolpiti nel ghiaccio, freddi, enigmatici, parlano poco e agiscono molto. Ma nonostante ciò, ti restano dentro. Denji non è un eroe, non salva il mondo, non trova la redenzione. È un simbolo, è rabbia che si muove. Un relitto umano che combatte solo perché tutto il resto è già morto.
L’estetica è il punto più forte. Non c’è nulla che somigli ad "Abara". Il tratto è sporco, violento, tagliente. Le tavole sembrano scolpite nel nero più profondo. Ogni vignetta è un grido muto. È uno stile che non vuole piacere, ma solo essere. Che non chiede il tuo consenso, ma ti travolge come un'onda nera che arriva senza preavviso. Non è bello. È devastante.
"Abara" è un’esperienza. Non va capita, va vissuta. Ti lascia senza fiato, con mille domande e nessuna risposta. Ma non è questo il vero significato dell’arte? Farti sentire qualcosa che non riesci a spiegare?
Questo ovviamente è puramente un parere personale, mi rendo perfettamente conto che per qualcuno, restare con più domande che risposte potrebbe essere un punto a sfavore, e forse lo è, ma non voglio essere troppo severo con questa piccola perla.
Quando chiudi l’ultima pagina, non ti sentirai soddisfatto. Ti sentirai svuotato, forse un po’ scosso, come se avessi assistito a una tragedia cosmica di cui non conosci i protagonisti, ma che comunque ti riguarda da vicino. Ti guarderai attorno e ti sembrerà tutto troppo ordinato. Troppo pulito. E forse è lì che capirai che "Abara" ti è rimasto addosso.
VOTO: 8.8
"Abara" è un manga che non ti prende per mano. Ti catapulta, senza preavviso, in un mondo che sembra sul punto di crollare da secoli. Inizia così, con una violenza visiva cruda, con corpi spezzati e architetture impossibili, e termina lasciandoti un vuoto profondo, come se avessi camminato per chilometri dentro un tunnel claustrofobico senza mai vedere la luce. Questo non è un manga per tutti. È per chi è disposto ad ascoltare il rumore del metallo che si spezza sotto la pelle, per chi riesce a leggere tra le crepe di un muro rotto, per chi trova poesia nel cemento e nel silenzio.
La trama di "Abara" è volutamente opaca, quasi anti-narrativa. Non c’è un prologo, non ci sono spiegazioni. Esistono i Gauna, esseri mutati, spietati e deformi, e i Guardiani, umanoidi creati per combatterli. In mezzo, il nostro protagonista, Kudo Denji, un ragazzo che porta nel corpo il marchio della mutazione, una bomba biologica costretta a camminare in mezzo a un’umanità che si è già condannata da sola. Non aspettatevi dialoghi rassicuranti o introspezioni lineari. "Abara" comunica con l’architettura, con la distruzione, con il sangue e con il silenzio.
Il vero cuore del manga non è la trama, ma l’atmosfera. Ed è qui che Tsutomu Nihei dà il meglio di sé. Il suo background da architetto si sente in ogni tavola, città distorta, corridoio infinito, nelle colonne titaniche, nei ponti sospesi nel nulla, nei vuoti che sembrano respirare. È un mondo che vive di brutalismo post-apocalittico, dove ogni struttura sembra fatta per schiacciare l’essere umano e ricordargli quanto sia piccolo, fragile, inadeguato.
I temi trattati sono cupissimi, ma reali nel loro linguaggio metaforico, trasformazione, perdita dell’identità, controllo biopolitico, alienazione, distopia ambientale. "Abara" non ti dice mai chiaramente cosa sta succedendo, ma ti fa sentire tutto. E quel sentire pesa. Ti costringe a chiederti dove inizia il mostro e dove finisce l’uomo. E se davvero ci sia una differenza. I personaggi sono volutamente scolpiti nel ghiaccio, freddi, enigmatici, parlano poco e agiscono molto. Ma nonostante ciò, ti restano dentro. Denji non è un eroe, non salva il mondo, non trova la redenzione. È un simbolo, è rabbia che si muove. Un relitto umano che combatte solo perché tutto il resto è già morto.
L’estetica è il punto più forte. Non c’è nulla che somigli ad "Abara". Il tratto è sporco, violento, tagliente. Le tavole sembrano scolpite nel nero più profondo. Ogni vignetta è un grido muto. È uno stile che non vuole piacere, ma solo essere. Che non chiede il tuo consenso, ma ti travolge come un'onda nera che arriva senza preavviso. Non è bello. È devastante.
"Abara" è un’esperienza. Non va capita, va vissuta. Ti lascia senza fiato, con mille domande e nessuna risposta. Ma non è questo il vero significato dell’arte? Farti sentire qualcosa che non riesci a spiegare?
Questo ovviamente è puramente un parere personale, mi rendo perfettamente conto che per qualcuno, restare con più domande che risposte potrebbe essere un punto a sfavore, e forse lo è, ma non voglio essere troppo severo con questa piccola perla.
Quando chiudi l’ultima pagina, non ti sentirai soddisfatto. Ti sentirai svuotato, forse un po’ scosso, come se avessi assistito a una tragedia cosmica di cui non conosci i protagonisti, ma che comunque ti riguarda da vicino. Ti guarderai attorno e ti sembrerà tutto troppo ordinato. Troppo pulito. E forse è lì che capirai che "Abara" ti è rimasto addosso.
VOTO: 8.8
News