Recensione
Recensione di VeganWarrior
-
“Un vero samurai non ha paura della morte. Ha paura di non essere ricordato.”
Samurai 8 – La leggenda di Hachimaru
Questa è un’opera che voleva essere una galassia, e si è rivelata solo una costellazione incompleta.
Masashi Kishimoto, dopo aver scritto un pezzo indelebile della storia del manga con Naruto, non si accontenta di replicare il successo. Cerca qualcosa di più sfidando sè stesso. Rifondare il genere.
E così nasce Samurai 8, un esperimento narrativo ambiziosissimo, dove spiritualità e meccanica si fondono in un universo di chiavi, codici, contenitori, nuclei e guerre cosmiche.
Ma l’effetto è straniante, non ti accompagna dentro, ti sommerge, ciò che dovrebbe affascinare finisce per disorientare. La narrazione, invece di sedurti, ti istruisce. È un manga che spiega troppo e racconta troppo poco.
E mentre tenta di spiegarti ogni cosa, dimentica di fartela vivere.
Nel cuore di questa mitologia nuova c’è Hachimaru, un ragazzo debole, malato, che non ha mai potuto lasciare la propria stanza. Il suo corpo è fragile e molto debole, ma il suo spirito è inquieto e dtereminato.
Il destino lo chiama a diventare samurai in un mondo dove i guerrieri non brandiscono solo katane, ma trasportano interi sistemi morali e filosofici, scolpiti nella tecnologia.
È una fiaba meccanica, un cammino di formazione incastonato in un universo dove la morte non è fine, ma trasformazione, nella maggior parte dei casi.
La narrazione, però, è una corsa.
Un accumulo di concetti e regole che soffoca i personaggi e la loro evoluzione.
Hachimaru avrebbe potuto crescere, maturare, diventare qualcosa di unico. Invece corre, perché tutto corre. Non c’è tempo per la paura, per la scelta, per l’empatia. Solo tappe da raggiungere. Missioni da compiere. Parole da spiegare.
Eppure Samurai 8 cerca di toccare temi importanti.
Si parla di identità, di ciò che ci definisce quando il corpo non ci rappresenta più.
Di libertà, vista come conquista spirituale, non materiale.
Di eredità, di ciò che lasciamo quando scompariamo.
C'è una riflessione sull’anima come codice, sull’umanità che si può spostare da un guscio all’altro, e su un destino scritto, ma non per questo inevitabile.
È un’opera che vuole riflettere sul significato dell’essere vivi, ma lo fa parlando una lingua difficile, troppo filosofica, troppo astratta.
E il rischio, alla fine, è che queste domande si perdano nello spazio come segnali radio mai ricevuti.
I personaggi, purtroppo, soffrono della stessa sorte dell’universo in cui vivono.
Hachimaru, il protagonista, ha un buon seme narrativo, un ragazzo debole, impaurito, che sogna la libertà ma teme di ottenerla. La sua crescita è suggerita, ma mai davvero sentita.
Dharma, il maestro, avrebbe potuto incarnare la saggezza mitica, ma rimane spesso ingabbiato nel ruolo di guida funzionale.
Ann, personaggio femminile centrale, è introdotta come chiave emotiva del protagonista, ma si perde troppo presto in ruoli meccanici e in una scrittura che la rende ancella più che figura autonoma.
Molti comprimari sembrano pensati più come ingranaggi narrativi che come esseri vivi. Eppure, in certi momenti, anche solo per poche tavole, alcuni di loro si avvicinano al calore che manca altrove.
È un cast che voleva essere archetipico, ma finisce per sembrare solo incompleto.
Visivamente, però, Samurai 8 ha momenti in cui riesce a ipnotizzare. Le tavole, limpide e dettagliatissime, ricordano più diagrammi sacri che scene d’azione.
Architetture sospese tra spiritualità e acciaio, ambientazioni che sembrano fondere antichi templi e stazioni spaziali. Ma manca la materia, il fango sotto i piedi, la fatica del respiro. È tutto distante, rarefatto, perfino sterile.
E poi c’è la fretta. Il manga viene interrotto dopo appena cinque volumi.
E si sente.
Il ritmo si spezza, la narrazione si piega su sé stessa per chiudere in fretta un mondo che avrebbe avuto bisogno di tempo, di pazienza e di cuore.
Il risultato è un'opera che pesa più per le sue idee che per le sue emozioni. Troppo densa, troppo astratta, troppo distante.
Ma qualcosa resta, tra le righe. Una malinconia sottile per ciò che non è stato. Una riflessione implicita sulla fragilità del corpo, sull’esistenza artificiale. Un protagonista che non vuole essere un eroe, ma solo essere.
Samurai 8 non è un’opera riuscita.
Ma è un fallimento affascinante, uno di quelli che meritano comunque uno sguardo.
Non per ciò che è, ma per ciò che voleva essere.
Perché a volte anche un errore può essere sincero. E perfino poetico.
Un sogno troppo grande per lo spazio che aveva a disposizione.
VOTO: 6.2
Samurai 8 – La leggenda di Hachimaru
Questa è un’opera che voleva essere una galassia, e si è rivelata solo una costellazione incompleta.
Masashi Kishimoto, dopo aver scritto un pezzo indelebile della storia del manga con Naruto, non si accontenta di replicare il successo. Cerca qualcosa di più sfidando sè stesso. Rifondare il genere.
E così nasce Samurai 8, un esperimento narrativo ambiziosissimo, dove spiritualità e meccanica si fondono in un universo di chiavi, codici, contenitori, nuclei e guerre cosmiche.
Ma l’effetto è straniante, non ti accompagna dentro, ti sommerge, ciò che dovrebbe affascinare finisce per disorientare. La narrazione, invece di sedurti, ti istruisce. È un manga che spiega troppo e racconta troppo poco.
E mentre tenta di spiegarti ogni cosa, dimentica di fartela vivere.
Nel cuore di questa mitologia nuova c’è Hachimaru, un ragazzo debole, malato, che non ha mai potuto lasciare la propria stanza. Il suo corpo è fragile e molto debole, ma il suo spirito è inquieto e dtereminato.
Il destino lo chiama a diventare samurai in un mondo dove i guerrieri non brandiscono solo katane, ma trasportano interi sistemi morali e filosofici, scolpiti nella tecnologia.
È una fiaba meccanica, un cammino di formazione incastonato in un universo dove la morte non è fine, ma trasformazione, nella maggior parte dei casi.
La narrazione, però, è una corsa.
Un accumulo di concetti e regole che soffoca i personaggi e la loro evoluzione.
Hachimaru avrebbe potuto crescere, maturare, diventare qualcosa di unico. Invece corre, perché tutto corre. Non c’è tempo per la paura, per la scelta, per l’empatia. Solo tappe da raggiungere. Missioni da compiere. Parole da spiegare.
Eppure Samurai 8 cerca di toccare temi importanti.
Si parla di identità, di ciò che ci definisce quando il corpo non ci rappresenta più.
Di libertà, vista come conquista spirituale, non materiale.
Di eredità, di ciò che lasciamo quando scompariamo.
C'è una riflessione sull’anima come codice, sull’umanità che si può spostare da un guscio all’altro, e su un destino scritto, ma non per questo inevitabile.
È un’opera che vuole riflettere sul significato dell’essere vivi, ma lo fa parlando una lingua difficile, troppo filosofica, troppo astratta.
E il rischio, alla fine, è che queste domande si perdano nello spazio come segnali radio mai ricevuti.
I personaggi, purtroppo, soffrono della stessa sorte dell’universo in cui vivono.
Hachimaru, il protagonista, ha un buon seme narrativo, un ragazzo debole, impaurito, che sogna la libertà ma teme di ottenerla. La sua crescita è suggerita, ma mai davvero sentita.
Dharma, il maestro, avrebbe potuto incarnare la saggezza mitica, ma rimane spesso ingabbiato nel ruolo di guida funzionale.
Ann, personaggio femminile centrale, è introdotta come chiave emotiva del protagonista, ma si perde troppo presto in ruoli meccanici e in una scrittura che la rende ancella più che figura autonoma.
Molti comprimari sembrano pensati più come ingranaggi narrativi che come esseri vivi. Eppure, in certi momenti, anche solo per poche tavole, alcuni di loro si avvicinano al calore che manca altrove.
È un cast che voleva essere archetipico, ma finisce per sembrare solo incompleto.
Visivamente, però, Samurai 8 ha momenti in cui riesce a ipnotizzare. Le tavole, limpide e dettagliatissime, ricordano più diagrammi sacri che scene d’azione.
Architetture sospese tra spiritualità e acciaio, ambientazioni che sembrano fondere antichi templi e stazioni spaziali. Ma manca la materia, il fango sotto i piedi, la fatica del respiro. È tutto distante, rarefatto, perfino sterile.
E poi c’è la fretta. Il manga viene interrotto dopo appena cinque volumi.
E si sente.
Il ritmo si spezza, la narrazione si piega su sé stessa per chiudere in fretta un mondo che avrebbe avuto bisogno di tempo, di pazienza e di cuore.
Il risultato è un'opera che pesa più per le sue idee che per le sue emozioni. Troppo densa, troppo astratta, troppo distante.
Ma qualcosa resta, tra le righe. Una malinconia sottile per ciò che non è stato. Una riflessione implicita sulla fragilità del corpo, sull’esistenza artificiale. Un protagonista che non vuole essere un eroe, ma solo essere.
Samurai 8 non è un’opera riuscita.
Ma è un fallimento affascinante, uno di quelli che meritano comunque uno sguardo.
Non per ciò che è, ma per ciò che voleva essere.
Perché a volte anche un errore può essere sincero. E perfino poetico.
Un sogno troppo grande per lo spazio che aveva a disposizione.
VOTO: 6.2
News