Recensione
Good Luck
8.5/10
"Good Luck" è un piccolo ebprezioso racconto di anime smarrite in cerca della propria strada.
Shin Adachi firma un film lieve e intenso che, con passo incerto, ci accompagna sul sentiero della ricerca personale, tra sogni sfumati e desideri inappagati. Taro è un documentarista indipendente, timido e insicuro, che vaga nel proprio quotidiano come in un territorio straniero, sospeso tra lo sforzo creativo e il timore di non trovare un senso nel proprio lavoro.
Dopo la proiezione di un suo film, aspramente criticato per mancanza di motivazione e coerenza, il giovane cineasta è ancor più disorientato, ma è la vita stessa, con i suoi incontri inattesi, a offrirgli una nuova opportunità: si tratta di Miki, una giovane attrice un po' stramba e molto estroversa, anche lei in bilico, anche lei in cammino. Due opposti che si riconoscono, due solitudini che si sfiorano e si intrecciano in un'intimità fatta di dialoghi senza filtri, risate improvvise e momenti di vulnerabilità. Girato con uno stile essenziale e realistico, privo di una colonna sonora che possa suggerire emozioni artificiose, "Good Luck" immerge lo spettatore nella verità delle piccole cose. La fotografia, delicata e precisa, dipinge un Giappone inedito e genuino, fatto di angoli nascosti e atmosfere sospese. Il film non cerca di spiegare, non offre soluzioni ma invita semplicemente a camminare accanto ai suoi personaggi, a perdersi e a ritrovarsi con loro. In alcuni momenti si ride, in altri ci si ferma a riflettere, a volte ci si chiede, come loro, "in che direzione stiamo andando?" Ma è proprio in questa sospensione che "Good Luck" trova la sua forza: nella celebrazione della fragilità, nella bellezza dei percorsi incerti, nell'arte sottile dell'accettare la propria incompiutezza. Con sincerità, Adachi firma un film che è insieme appunto di viaggio, confessione e tenera carezza.
Un invito gentile a perdersi, per potersi – forse – ritrovare.
Shin Adachi firma un film lieve e intenso che, con passo incerto, ci accompagna sul sentiero della ricerca personale, tra sogni sfumati e desideri inappagati. Taro è un documentarista indipendente, timido e insicuro, che vaga nel proprio quotidiano come in un territorio straniero, sospeso tra lo sforzo creativo e il timore di non trovare un senso nel proprio lavoro.
Dopo la proiezione di un suo film, aspramente criticato per mancanza di motivazione e coerenza, il giovane cineasta è ancor più disorientato, ma è la vita stessa, con i suoi incontri inattesi, a offrirgli una nuova opportunità: si tratta di Miki, una giovane attrice un po' stramba e molto estroversa, anche lei in bilico, anche lei in cammino. Due opposti che si riconoscono, due solitudini che si sfiorano e si intrecciano in un'intimità fatta di dialoghi senza filtri, risate improvvise e momenti di vulnerabilità. Girato con uno stile essenziale e realistico, privo di una colonna sonora che possa suggerire emozioni artificiose, "Good Luck" immerge lo spettatore nella verità delle piccole cose. La fotografia, delicata e precisa, dipinge un Giappone inedito e genuino, fatto di angoli nascosti e atmosfere sospese. Il film non cerca di spiegare, non offre soluzioni ma invita semplicemente a camminare accanto ai suoi personaggi, a perdersi e a ritrovarsi con loro. In alcuni momenti si ride, in altri ci si ferma a riflettere, a volte ci si chiede, come loro, "in che direzione stiamo andando?" Ma è proprio in questa sospensione che "Good Luck" trova la sua forza: nella celebrazione della fragilità, nella bellezza dei percorsi incerti, nell'arte sottile dell'accettare la propria incompiutezza. Con sincerità, Adachi firma un film che è insieme appunto di viaggio, confessione e tenera carezza.
Un invito gentile a perdersi, per potersi – forse – ritrovare.