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8.5/10
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“Essere soli è diverso da sentirsi soli.”

Randagi

Questa non è una storia che cerca di sollevarti. Non promette catarsi facili, né lieto fine perfetto. È una filastrocca amara, cantata piano, tra le crepe di una vita che ha perso la luce. Ma è bellissima, in quel suo saper trovare poesia nei brandelli di dolore, nella voce tremante di chi non sa più sperare.

La trama ti avvolge lentamente, come nebbia al mattino. Yamada, un ispettore specializzato in crimini contro i minori, vive un’ombra, ha perso la figlia, e ogni giorno è una ripetizione sbiadita della colpa e del rimpianto. Poi c’è Shiori, sedicenne fuggita da una casa che non le dava amore ma violenza, costretta a usare il corpo come paravento nella bruttezza della sopravvivenza. L’incontro tra loro è casuale, duro, un blitz, un centro massaggi camuffato, un cuore che riconosce l’altro. Non la figlia scomparsa, ma qualcosa che la somiglia, e che urla silenzi ancora più grandi.

Randagi non cerca di spiegare ogni cosa. Non vuole guidarti con le luci accese. Ti lascia nelle stanze buie dell’anima umana. La violenza domestica, la prostituzione minorile, la perdita, il senso di essere invisibili. E, tuttavia, anche in questi spazi infestati dal dolore, emergono, quasi come germogli di erba tra il cemento, momenti di gentilezza, piccole scintille di empatia, tentativi di ricostruire se stessi attraverso il rapporto, anche se fragile, con l’altro.

I personaggi sono feriti, ma non spezzati. Shiori è scossa, diffidente, pronta a chiudersi, ma anche capace di sperare, o almeno di non rassegnarsi completamente. Yamada è un uomo logorato dal rimorso, incapace forse all’inizio di guardare avanti, ma che lentamente si scopre pronto a farsi carico, non per salvare, ma per accompagnare, per restare accanto anche quando le parole mancano.

Il tratto grafico è proprio come l’opera, sobrio, delicato, essenziale. Non ci sono pagine “sparkling”, effetti vistosi, splash pages sfolgoranti. Le linee sono talvolta spoglie, gli sfondi non sempre dettagliatissimi, ma tutto è al posto giusto, un’ombra qui, un silenzio là, gli sguardi, la postura. È un disegno che non urla, ma che incide. E sì, anch’io avrei voluto momenti di maggiore elaborazione visiva, tavole più complesse, che rimangano nella retina come immagini che scavano. Ma forse questa semplicità è scelta, non per limiti, ma per lasciare spazio al cuore di Shiori e Yamada, che deve farsi sentire, non sopraffatto dall’ornamento.

Il tema centrale, cosa significa essere un randagio, è interpretato su più livelli. Non solo un corpo senza casa, ma chi è privato di affetto, di sicurezza, di fiducia, chi cammina nel gelo dell’abbandono e della colpa, chi usa la fuga, anche solo mentale, come difesa. Ma “randagio” non è solo isolamento, è anche ricerca. Ricerca di accoglienza, di cura, di speranza. Ed è questa doppiezza che il manga esplora con delicatezza, senza sdolcinature, ma anche senza cinismo.

Quando finisci l’ultimo volume, non sei felice, non hai la certezza che tutto andrà bene. Però porti con te un bagaglio di emozioni. Ti resta qualcosa addosso, un nodo alla gola, un pensiero che non vuoi lasciare, una consapevolezza che forse, anche nel peggio, restare umani è già una specie di vittoria.

VOTO: 8.6