After Life
«Senza ricordi non abbiamo identità» (Hirokazu Kore'eda)
"After Life" (Wandafuru Raifu -ワンダフルライフ, 1998), scritto e diretto da Hirokazu Kore'eda, è un vero gioiello nella ricca filmografia dell'autore. È una pellicola che ha il raro dono di non poter invecchiare, perché parla allo spettatore di ciò che resta dopo che si è grattata via la superficie dell'esistenza umana, e lo fa con grande leggerezza. A distanza di più di vent’anni, l’idea geniale alla base dell'opera, ovvero “scegliere un unico ricordo” da portare con sé per sempre, è ancora incredibilmente suggestiva.
Il pretesto di partenza è tanto semplice quanto profondo: un gruppo di persone appena decedute arriva in una vecchia scuola che è in realtà una sorta di purgatorio, dove una squadra di consiglieri li aiuta a scegliere un ricordo da portarsi nell’aldilà. Questo momento diventerà la loro "eternità". Il gruppo di individui è variegato: ci sono anziani (la maggior parte), ma anche una prostituta, studenti e impiegati ognuno con la sua storia.
Idea di base dunque devastante nella sua semplicità, eppure, come molti concetti apparentemente semplici, perfetta. Soprattutto nel dare vita ai meccanismi che muovono l'opera. E poi è, ovviamente, anche un pretesto per spingere il pubblico a chiedersi a sua volta: “Che cosa mi definisce? Qual'è il mio ricordo?”. Mentre nello stesso tempo Kore'eda sembra suggerire che una risposta sincera non potrà mai essere grandiosa, bensì solo intima, semplice, “piccola”.
Questo è proprio un segno di come il film riesca ad andare oltre le credenze personali, toccando concetti universali. Il cuore pulsante dell'opera insomma non è tanto dove si va, cosa succede dopo, o se c'è un dopo, ma cosa resta di noi. Cosa ci ha toccato e cosa abbiamo vissuto davvero.
Anche l'ambientazione nel purgatorio/scuola/ufficio pubblico, del resto, è frutto di una scelta sobria e per nulla spirituale. I personaggi sono chiamati uno alla volta in vere e proprie “stanze per la riflessione”, in cui ci si ferma e si guarda indietro. E il tono della narrazione, è sempre misuratissimo, rilassato e gentile. Proprio come i funzionari della storia, anche il film non impone domande o risposte, ma sussurra le sue tematiche in modo lieve e invita a fermarsi a pensare, senza prediche, senza ricatti emotivi. Anche per questo la messa in scena è così minimalista, pur se piena di umanità. Non c'è bisogno di effetti speciali o colpi di scena con queste idee alla base, solo di spettatori disposti a prestare attenzione a ciò che portano dentro. Il risultato è un film che inevitabilmente stimola l'auto-analisi e apre ampi spazi alla riflessione.
Uno dei colpi di genio dell'opera consiste proprio nel fatto che alcune delle testimonianze che ascoltiamo non sono frutto della sceneggiatura, ma sono reali. Furono infatti raccolte da interviste a persone comuni durante un lungo processo di ricerca ideato e coordinato da Kore'eda prima delle riprese. Tra gli intervistati furono poi scelti alcuni individui che interpretarono se stessi nella pellicola. Questo si sente. Molte di quelle parole, dette con esitazione, con pudore o stupore, hanno un peso diverso: non c'è finzione, solo memoria. L'effetto è davvero efficace e il confine tra documentario e finzione narrativa si assottiglia fin quasi a scomparire, dissolvendosi in un equilibrio magico. Ogni ricordo, anche il più piccolo, ha la sua dignità. Questo è uno degli aspetti che rende "After Life" ancora più sensazionale e toccante: è grazie a queste voci che la pellicola riesce a restituire tantissime emozioni diverse senza alzare mai la voce.
Le linea narrativa centrale coinvolge Takashi e Shiori (due funzionari) e Watanabe (uno dei “fantasmi”). Takashi giovane funzionario (nell'aspetto), ma deceduto nelle Filippine nella seconda guerra mondiale, si trova a dover seguire e aiutare proprio l’uomo che si è unito in matrimonio alla sua ex promessa sposa in un'unione combinata durata una vita intera, ma priva d'amore. Watanabe all'inizio è smarrito, quasi estraneo alla propria esistenza appena terminata, e tra i tanti passaggi significativi che lo coinvolgono, c'è quello (fortissimo) in cui afferma: "Non ho niente da scegliere. Non c’è nulla che valga la pena...". In quel momento si capisce (o meglio viene esplicitato) quanto la memoria, o la sua mancanza, sia legata alla qualità della vita interiore dell'essere umano.
Poi, la svolta: grazie al contatto con i funzionari e alla visione dei suoi ricordi (una vita intera su VHS!), lentamente Watanabe riesce a dare un senso positivo a ciò che è passato. In questo processo doloroso, toccante e silenzioso, inizia a svilupparsi anche il potente arco narrativo/emotivo che vede Takashi protagonista.
Quest'ultimo, grazie a un dono inaspettato (una lettera proprio di Watanabe), è spinto a una ricerca nel passato finendo per scoprire in un turbinio di memorie intrecciate di essere stato parte della felicità di un'altra persona, e riconciliandosi anch'egli con se stesso. È un altro momento chiave, potente e allo stesso tempo delicato, che poco dopo lo porta a scegliere finalmente anche il suo ricordo e ad abbandonare questo limbo. Shiori, che dell'inizio ha mostrato un'attrazione e un'attaccamento profondo e delicato nei suoi confronti, da principio non comprende. Ma nel finale la sua crescita è evidente. Adesso è pronta a continuare quel lavoro di ascolto e di cura con la stessa gentilezza che ammirava in Takashi.
Dal punto di vista tecnico, l'approccio di Kore'eda è molto sobrio, quasi da documentario, (soprattutto nella parte centrale) con una colonna sonora ridotta all'essenziale e composta principalmente da musiche diegetiche. Eppure, dietro questa apparente semplicità, si nasconde un lavoro raffinato e consapevole. La macchina da presa, discreta, osserva senza giudicare, soffermandosi spesso sui volti per coglierne le esitazioni, gli sguardi e le emozioni più sottili. E anche la fotografia segue questa linea: pochi fronzoli, niente luci patinate. Alcuni rimandi a "Ozu", e un’illuminazione quasi naturale perfettamente coesa in una messa in scena generale, che proprio per questo suo essere cosi scarna, restituisce perfettamente l'idea di trovarsi in una dimensione “altra”. Ma non mancano le invenzioni: una finestra, un gesto, una nevicata, si fanno improvvisamente poesia visiva. Seguendo con coerenza lo stile essenziale, misurato e profondamente intriso di umanesimo del film.
Tantissimi sono gli elementi degni di nota, la luna su tutti, che ritorna più e più volte, reale o meno, evocata, o riflessa. Testimone del tempo che scorre e della distanza tra ciò che è stato e ciò che sarà. È un simbolo tipico della memoria, della riflessione e dell’inconscio. Ma in "After Life" sembra (apparentemente) legata anche all’idea dell'eternità. Come fosse l’unico testimone immobile delle esistenze che scorrono sotto di essa. Questo fino a un certo punto. Ma alla fine, quando il lucernario viene sollevato per rivelare una luna solo dipinta? Ennesimo momento memorabile.
È una scena geniale che che va oltre alla semplice contrapposizione tra realtà e finzione. Più che un ribaltamento totale del valore dei ricordi (la luna), sembra infatti un’amplificazione della loro natura sfuggente. Nel film questi sono già un processo "costruito", frutto di un atto di selezione, e la scena del lucernario suggerisce che anche quest'atto di "preservazione" del passato è in qualche modo una rappresentazione. Perché la realtà del ricordo non è mai perfetta ed è sempre soggetta a distorsioni, reinterpretazioni e a un certo grado di "creazione" da parte della nostra mente.
In un certo senso, Kore'eda gioca con questo concetto e ci invita a vedere la memoria e la realtà, non come entità definite precisamente, ma come qualcosa di fluido. Ma nello stesso tempo viene anche affermato il potere del cinema. L'arte in cui tutto ciò che vediamo è "falsa realtà", che però ci consente di esplorare il mondo, noi stessi e le nostre emozioni più intime.
Con “After Life” Kore'eda ha insomma confezionato un capolavoro intimista che è già storia della settima arte. Un “cultissimo” che stimola la riflessione e celebra il valore e le molteplici forme e valenze dei ricordi in modo innovativo eppure semplice, onesto e diretto.
Il momento più alto e poetico? Forse proprio la messa in scena delle memorie. Ricostruzioni artigianali e semi-teatrali, fatte di una magia semplice e quasi infantile. Nuvole di cotone, corde, ventilatori traballanti... Tutto fatto a mano! Sono momenti in cui la finzione si tinge di verità intime, la memoria diventa immagine e l’arte filmica si eleva per dare vita ai significati. E anche questa rappresentazione rudimentale riflette in toto l’essenza di “After Life”: non conta il dettaglio, ma l’emozione. Non la forma, ma il battito. Non l’immagine completa, ma l’eco che persiste. Proprio come i ricordi: impalpabili incompleti e sfocati, ma più veri del vero. Una rappresentazione volutamente disadorna che dal profondo ci sussurra: non serve perfezione, serve sincerità.
"After Life" (Wandafuru Raifu -ワンダフルライフ, 1998), scritto e diretto da Hirokazu Kore'eda, è un vero gioiello nella ricca filmografia dell'autore. È una pellicola che ha il raro dono di non poter invecchiare, perché parla allo spettatore di ciò che resta dopo che si è grattata via la superficie dell'esistenza umana, e lo fa con grande leggerezza. A distanza di più di vent’anni, l’idea geniale alla base dell'opera, ovvero “scegliere un unico ricordo” da portare con sé per sempre, è ancora incredibilmente suggestiva.
Il pretesto di partenza è tanto semplice quanto profondo: un gruppo di persone appena decedute arriva in una vecchia scuola che è in realtà una sorta di purgatorio, dove una squadra di consiglieri li aiuta a scegliere un ricordo da portarsi nell’aldilà. Questo momento diventerà la loro "eternità". Il gruppo di individui è variegato: ci sono anziani (la maggior parte), ma anche una prostituta, studenti e impiegati ognuno con la sua storia.
Idea di base dunque devastante nella sua semplicità, eppure, come molti concetti apparentemente semplici, perfetta. Soprattutto nel dare vita ai meccanismi che muovono l'opera. E poi è, ovviamente, anche un pretesto per spingere il pubblico a chiedersi a sua volta: “Che cosa mi definisce? Qual'è il mio ricordo?”. Mentre nello stesso tempo Kore'eda sembra suggerire che una risposta sincera non potrà mai essere grandiosa, bensì solo intima, semplice, “piccola”.
Questo è proprio un segno di come il film riesca ad andare oltre le credenze personali, toccando concetti universali. Il cuore pulsante dell'opera insomma non è tanto dove si va, cosa succede dopo, o se c'è un dopo, ma cosa resta di noi. Cosa ci ha toccato e cosa abbiamo vissuto davvero.
Anche l'ambientazione nel purgatorio/scuola/ufficio pubblico, del resto, è frutto di una scelta sobria e per nulla spirituale. I personaggi sono chiamati uno alla volta in vere e proprie “stanze per la riflessione”, in cui ci si ferma e si guarda indietro. E il tono della narrazione, è sempre misuratissimo, rilassato e gentile. Proprio come i funzionari della storia, anche il film non impone domande o risposte, ma sussurra le sue tematiche in modo lieve e invita a fermarsi a pensare, senza prediche, senza ricatti emotivi. Anche per questo la messa in scena è così minimalista, pur se piena di umanità. Non c'è bisogno di effetti speciali o colpi di scena con queste idee alla base, solo di spettatori disposti a prestare attenzione a ciò che portano dentro. Il risultato è un film che inevitabilmente stimola l'auto-analisi e apre ampi spazi alla riflessione.
Uno dei colpi di genio dell'opera consiste proprio nel fatto che alcune delle testimonianze che ascoltiamo non sono frutto della sceneggiatura, ma sono reali. Furono infatti raccolte da interviste a persone comuni durante un lungo processo di ricerca ideato e coordinato da Kore'eda prima delle riprese. Tra gli intervistati furono poi scelti alcuni individui che interpretarono se stessi nella pellicola. Questo si sente. Molte di quelle parole, dette con esitazione, con pudore o stupore, hanno un peso diverso: non c'è finzione, solo memoria. L'effetto è davvero efficace e il confine tra documentario e finzione narrativa si assottiglia fin quasi a scomparire, dissolvendosi in un equilibrio magico. Ogni ricordo, anche il più piccolo, ha la sua dignità. Questo è uno degli aspetti che rende "After Life" ancora più sensazionale e toccante: è grazie a queste voci che la pellicola riesce a restituire tantissime emozioni diverse senza alzare mai la voce.
Le linea narrativa centrale coinvolge Takashi e Shiori (due funzionari) e Watanabe (uno dei “fantasmi”). Takashi giovane funzionario (nell'aspetto), ma deceduto nelle Filippine nella seconda guerra mondiale, si trova a dover seguire e aiutare proprio l’uomo che si è unito in matrimonio alla sua ex promessa sposa in un'unione combinata durata una vita intera, ma priva d'amore. Watanabe all'inizio è smarrito, quasi estraneo alla propria esistenza appena terminata, e tra i tanti passaggi significativi che lo coinvolgono, c'è quello (fortissimo) in cui afferma: "Non ho niente da scegliere. Non c’è nulla che valga la pena...". In quel momento si capisce (o meglio viene esplicitato) quanto la memoria, o la sua mancanza, sia legata alla qualità della vita interiore dell'essere umano.
Poi, la svolta: grazie al contatto con i funzionari e alla visione dei suoi ricordi (una vita intera su VHS!), lentamente Watanabe riesce a dare un senso positivo a ciò che è passato. In questo processo doloroso, toccante e silenzioso, inizia a svilupparsi anche il potente arco narrativo/emotivo che vede Takashi protagonista.
Quest'ultimo, grazie a un dono inaspettato (una lettera proprio di Watanabe), è spinto a una ricerca nel passato finendo per scoprire in un turbinio di memorie intrecciate di essere stato parte della felicità di un'altra persona, e riconciliandosi anch'egli con se stesso. È un altro momento chiave, potente e allo stesso tempo delicato, che poco dopo lo porta a scegliere finalmente anche il suo ricordo e ad abbandonare questo limbo. Shiori, che dell'inizio ha mostrato un'attrazione e un'attaccamento profondo e delicato nei suoi confronti, da principio non comprende. Ma nel finale la sua crescita è evidente. Adesso è pronta a continuare quel lavoro di ascolto e di cura con la stessa gentilezza che ammirava in Takashi.
Dal punto di vista tecnico, l'approccio di Kore'eda è molto sobrio, quasi da documentario, (soprattutto nella parte centrale) con una colonna sonora ridotta all'essenziale e composta principalmente da musiche diegetiche. Eppure, dietro questa apparente semplicità, si nasconde un lavoro raffinato e consapevole. La macchina da presa, discreta, osserva senza giudicare, soffermandosi spesso sui volti per coglierne le esitazioni, gli sguardi e le emozioni più sottili. E anche la fotografia segue questa linea: pochi fronzoli, niente luci patinate. Alcuni rimandi a "Ozu", e un’illuminazione quasi naturale perfettamente coesa in una messa in scena generale, che proprio per questo suo essere cosi scarna, restituisce perfettamente l'idea di trovarsi in una dimensione “altra”. Ma non mancano le invenzioni: una finestra, un gesto, una nevicata, si fanno improvvisamente poesia visiva. Seguendo con coerenza lo stile essenziale, misurato e profondamente intriso di umanesimo del film.
Tantissimi sono gli elementi degni di nota, la luna su tutti, che ritorna più e più volte, reale o meno, evocata, o riflessa. Testimone del tempo che scorre e della distanza tra ciò che è stato e ciò che sarà. È un simbolo tipico della memoria, della riflessione e dell’inconscio. Ma in "After Life" sembra (apparentemente) legata anche all’idea dell'eternità. Come fosse l’unico testimone immobile delle esistenze che scorrono sotto di essa. Questo fino a un certo punto. Ma alla fine, quando il lucernario viene sollevato per rivelare una luna solo dipinta? Ennesimo momento memorabile.
È una scena geniale che che va oltre alla semplice contrapposizione tra realtà e finzione. Più che un ribaltamento totale del valore dei ricordi (la luna), sembra infatti un’amplificazione della loro natura sfuggente. Nel film questi sono già un processo "costruito", frutto di un atto di selezione, e la scena del lucernario suggerisce che anche quest'atto di "preservazione" del passato è in qualche modo una rappresentazione. Perché la realtà del ricordo non è mai perfetta ed è sempre soggetta a distorsioni, reinterpretazioni e a un certo grado di "creazione" da parte della nostra mente.
In un certo senso, Kore'eda gioca con questo concetto e ci invita a vedere la memoria e la realtà, non come entità definite precisamente, ma come qualcosa di fluido. Ma nello stesso tempo viene anche affermato il potere del cinema. L'arte in cui tutto ciò che vediamo è "falsa realtà", che però ci consente di esplorare il mondo, noi stessi e le nostre emozioni più intime.
Con “After Life” Kore'eda ha insomma confezionato un capolavoro intimista che è già storia della settima arte. Un “cultissimo” che stimola la riflessione e celebra il valore e le molteplici forme e valenze dei ricordi in modo innovativo eppure semplice, onesto e diretto.
Il momento più alto e poetico? Forse proprio la messa in scena delle memorie. Ricostruzioni artigianali e semi-teatrali, fatte di una magia semplice e quasi infantile. Nuvole di cotone, corde, ventilatori traballanti... Tutto fatto a mano! Sono momenti in cui la finzione si tinge di verità intime, la memoria diventa immagine e l’arte filmica si eleva per dare vita ai significati. E anche questa rappresentazione rudimentale riflette in toto l’essenza di “After Life”: non conta il dettaglio, ma l’emozione. Non la forma, ma il battito. Non l’immagine completa, ma l’eco che persiste. Proprio come i ricordi: impalpabili incompleti e sfocati, ma più veri del vero. Una rappresentazione volutamente disadorna che dal profondo ci sussurra: non serve perfezione, serve sincerità.