L'attesa è finita. Da oggi  Il ragazzo e l'airone di Hayao Miyazaki, dopo le chiacchieratissime anteprime al festival di Roma e a Lucca, sbarca nelle sale italiane grazie a Lucky Red. Un inizio anno da sogno per i fan del regista di La città incantata e Il mio vicino Totoro, che a 82 anni realizza, a mio avviso, il suo film più personale e autobiografico dai tempi di Si Alza il Vento  del 2013.
 



Il film è uscito quest'estate (14 luglio) in Giappone con un audace piano di (non) marketing. Durante un'intervista infatti, quella volpe di Toshio Suzuki, storico produttore dello Studio Ghiblidichiarava che il nuovo film non sarebbe stato supportato da trailer, pubblicità o immagini promozionali (a parte un solo poster con l'effige di un airone cenerino) sino alla proiezione nei cinema giapponesi. Nessun accenno, se non molto vago alla storia. Scelta piuttosto azzardata, poiché la trama era  ispirata, e non direttamente adattata, ad un romanzo del 1937, e il pubblico aveva pochissima idea di cosa aspettarsi. Ghibli puntava tutto sul nome di Miyazaki come se questo fosse tutto il punto di forza di cui avevano bisogno. Un vero e proprio atto di fede che ha però dato i suoi frutti, visto che il film ha fatto staccare ben 2,3 milioni di biglietti nelle prime due settimane di presenza in sala, per un incasso complessivo di 3,6 miliardi di yen (circa 23 milioni di euro). 
 
L'unica immagine diffusa prima dell'uscita del film









Oggi sappiamo che questo film non sarà l'ultimo del Maestro, che pare stia già al lavoro sulla sua prossima opera, eppure i temi trattati e il mood nostalgico che si respira guardandolo, mi farebbero davvero tendere a parlare di un romantico canto del cigno di Miyazaki, viene quasi naturale a chi lo segue da anni ma effettivamente questo film ha davvero tante frecce al suo arco e sarebbe ingiustamente riduttivo ridurlo al mero testamento di un artista per apprezzarlo e celebrarlo. 
 



Il titolo originale del film è Kimitachi wa dō, ikiru ka?, ed è lo stesso dell'omonimo romanzo del 1937 di Genzaburo Yoshino (recensione qui) che il regista premio Oscar ebbe in dono da piccolo da sua madre e a cui si è ispirato per narrare la storia di Mahito Maki, il "ragazzo" del titolo. Il film inizia in maniera drammatica, a Tokyo, durante la seconda guerra mondiale, nei primi anni Quaranta e ci mostra Mahito perdere sua madre in un incendio in un ospedale dopo un bombardamento.
Miyazaki ci trascina nell'inferno che avvolge la città tra le fiamme: le inquadrature a rincorrere il ragazzo che cerca di raggiungere la madre sono una delle sequenze più tragiche e meravigliosamente animate della storia dello Studio Ghibli, dimostrando quanto ancora oggi l'arte visiva di Miyazaki abbia la capacità di sorprendere il suo pubblico con nuove tecniche e idee.
Un occhio che trasforma la realtà in qualcosa di spaventosamente onirico, come il ricordo straziante che il protagonista si porterà dietro per sempre, e che stride volutamente con lo stile realistico e pulito con cui dopo ci verrà mostrato il resto della storia. 
 


Il ragazzo infatti rimane da solo con suo padre, il capo di una fabbrica che produce aerei da combattimento (come lo era quello di Miyazaki). Questi, dopo un anno dalla tragica perdita, si risposa con la sorella minore della sua defunta moglie, Natsuko. Mahito, ancora in lutto, è costretto quindi a trasferirsi da Tokyo nella tenuta di campagna dove sua madre e Natsuko sono cresciute e dove la neo sposa già aspetta un fratellino. Troppi cambiamenti, troppo veloci per un ragazzo così giovane che vive un dramma interiore che metterebbe a dura prova la stabilità di un adulto. Il luogo in cui sarà costretto a vivere, da quel momento in poi,  è la tipica location bucolica di stampo ghibliano, magnificamente rappresentato dal tratto artistico miyazakiano. Un luogo tanto lussureggiante quanto misterioso e inquietante, dove è costante la presenza delle classiche vecchiette grinzose viste in tante altre pellicole, vere guardiane della tenuta stessa, come della sicurezza e del benessere dello stesso Mahito.

 


Quest'ultimo fa infine la conoscenza anche di un altro residente: un insolente airone cenerino che sembra nutrire un particolare interesse per il ragazzo. L'uccello parla e fa capire a Mahito che può incontrare la madre defunta, spingendolo a entrare in una torre che gli era stata già proibita più volte a causa della sua pericolosità.
 

Da questo momento in poi il protagonista si ritrova trascinato in un mondo sotterraneo dove le linee temporali si intrecciano, in un omaggio neanche tanto nascosto a Dante (qui espressamente citato) e al mito di Orfeo. Nel suo  caratteristico stile, Miyazaki fonde meticolosamente il reale e riconoscibile con il surreale e l'inquietante, portandoci in questo mondo da fiaba. Guidati (non sempre) dallo scorbutico airone, che si dimostra essere un essere mutaforma dalle sembianze umane piuttosto grottesche, ci inerpichiamo con il protagonista attraverso strade tortuose incontrando una varietà di creature (parrocchetti mangiauomini, pellicani senza futuro e spiritelli tipicamente giapponesi) in un susseguirsi di citazioni e metafore non sempre di facile comprensione anche all'occhio più attento. Il regista ci regala molteplici piani di lettura portando lo spettatore in un'esperienza visiva basata molte volte quasi totalmente sulle emozioni suscitate dalle immagini piuttosto che sulle parole. Lunghi, infatti, sono i periodi di tempo senza dialoghi, in cui i personaggi si muovono lentamente, accompagnati da una splendida colonna sonora realizzata dallo storico compositore di quasi tutti i film Ghibli, quel Joe Hisaishi che si dimostra ancora una volta all'altezza della sfida a cui il suo vecchio amico Hayao lo sottopone ogni volta, regalandoci sonorità tanto giocose quanto devastanti e drammatiche.
 
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Il film, dicevamo, è aperto a diverse letture, ma quella che ho sentito più vicino a me è il tema della "fuga dalla realtà", del rifugiarsi in un mondo di fantasia che in realtà è solo una illusoria panacea ai propri problemi. Una fuga che cerca disperatamente il protagonista, la cui vita sembra essere un inferno sia interiore che esteriore (con anche il bullismo dei nuovi compagni ad aggravare il tutto), ma che aveva già perpetrato chi era venuto prima di lui, costruendosi una realtà tanto magica quanto illusoria.

Ed è qui che Il ragazzo e l'airone costituisce il testamento finale di un regista leggendario che riguarda indietro al suo operato e cita in tutte le maniere possibili le sue opere e le persone che hanno fatto parte della sua vita (l'amicizia con Takahata era all'origine dell'idea del film). Le fantasie, le creature e le ambientazioni fiabesche sono fantastiche ma poi si deve fare sempre i conti con la realtà, per quanto brutta possa essere. Trasformando la battaglia contro il dolore in una lotta esterna, Miyazaki spinge il suo giovane protagonista in un mondo sfuggente di fantasia e orrore, in cui Mahito cerca per tutto il tempo di salvare sua madre dalla sua triste fine. Una sfida in un regno di fantasia a cui lui si sente molto più pronto, anche mettendo in gioco la propria vita, piuttosto che affrontare la realtà che lo attende a casa. 
 

La vita va avanti e va vissuta anche con il dolore di non avere più accanto le persone amate, e questo il protagonista lo capisce attraverso un cammino difficile e visionario, in un finale non finale, dove l'accettazione non vuol dire rassegnazione ma la volontà di affrontare le proprie paure e dolori senza più rimpianti.
 
Il ragazzo e l'airone è una storia delicata quanto sorprendente, un fantasy densamente dettagliato, aperto a molteplici chiavi di lettura che necessitano più di una visione, che rivisita temi e anche personaggi (alcuni ben nascosti a una prima visione) più che familiari a chi conosce la poetica del regista, lengandoli insieme a elementi indiscutibilmente autobiografici. Un sogno su grande schermo nato dall'immaginazione sfrenata di un uomo che ha superato l'ottantina e che sembra non voler proprio mollare, almeno finchè avrà fiato nei polmoni e una penna per poter disegnare altre magnifiche storie.