Recensione
Jin-Roh - Uomini e lupi
8.0/10
Per contrastare la crescente criminalità in un Giappone reduce dalla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, viene istituito un corpo di sicurezza speciale militarizzato, i Kerberos Panzer Cops. Col passare degli anni, la situazione è però mutata e la squadra è considerata oramai un'istituzione anacronistica. Per questa ragione, la polizia regolare desidererebbe una fusione tra i due reparti, ponendosi in questo modo a capo di entrambi; i Kerberos auspicherebbero la medesima soluzione, ma con loro stessi al vertice; una terza parte è costituita invece dai famigerati Jin-Roh ("uomini lupo"), una sezione interna e segreta che vorrebbe mantenere l'indipendenza dei Kerberos. La situazione di stallo tra le sezioni viene spezzata da un evento all'apparenza marginale: il soldato speciale Kazuki Fuse indugia nell'uccidere a sangue freddo una giovanissima terrorista che minacciava con un esplosivo un intero plotone di Kerberos; la ragazza (una "cappuccetto rosso", come sono definite in gergo le bambine portatrici di bombe) si fa esplodere comunque e Fuse viene costretto a un processo di rieducazione presso il centro di addestramento. È durante la licenza che incontrerà però la sorella della criminale, con cui stringerà un rapporto sempre più profondo che lo porterà a rivalutare il proprio ruolo all'interno dell'inestricabile disegno del potere.
Che "Jin-Roh" sia un film complicato viene subito chiarito dal lunghissimo prologo parlato che, in diversi minuti, espone con dovizia di dettagli l'ambientazione in cui la storia andrà a svolgersi; si tratta di una dichiarazione di intenti, ma soprattutto di un accordo, un impegno alla concentrazione che lo spettatore deve siglare prima di proseguire con la visione. Il film si dipana poi facendo seguire una scena di guerriglia urbana molto cruda e serrata, la cui violenza è edulcorata soltanto dalla meraviglia della messa e scena e dallo splendore delle animazioni (tutte disegnate a mano). Il secondo atto è un lungo e lento thriller di spionaggio (ricorda "La Conversazione" di Coppola), movimentato dall'incedere forsennato di continui colpi di scena, tanto sostanziali che lo spettatore ha bisogno di qualche minuto per adattarsi al cambiamento delle parti in gioco. Il terzo atto inizia invece quando anche l'ultimo ribaltamento è stato compiuto: si costituisce in una scena frenetica di una brutalità quasi catartica e termina all'improvviso, con una sequenza di chiusura forte come un pugno nei denti.
Il merito è perlopiù di Mamoru Oshii, qui in veste di sceneggiatore, uno dei pochissimi di cui si può affermare senza indugio che sa fare il proprio mestiere. La storia è una ricca e quasi inestricabile stratificazione di piani di lettura, dalla vicenda umana di Fuse a quella morale della sua amata, il rapporto e scontro tra le istituzioni, il limite tra giusta protesta e terrorismo, tra sicurezza e oppressione, la contrapposizione tra ruolo sociale e arbitrio individuale, che si esauriscono infine nel tema immortale di eros e thanatos. Alla prima visione è quasi impossibile cogliere ogni singolo passaggio, ogni ruolo di ogni parte, il doppi giochi e i complotti estremamente contorti. Per "Jin-Roh" più che per altri film, una seconda visione è consigliata e rivelatrice degli aspetti più segreti di una sceneggiatura non molto genuina. La forza intellettuale della prima visione è infatti quella di vedersi dipanare lentamente l'intricatissimo schema, in cui ogni scoperta genera sorpresa e ogni sorpresa genera interesse. Quando tutto viene rivelato, si capisce però come non si tratti altro che di un'abile partita a scacchi: conoscendo già le mosse, l'interesse cala rapidamente nel doversi concentrare su forze in gioco e personaggi che non sono altro che pedine senza arbitrio.
Gli espedienti atti a compensare tale artificiosità si rivelano in realtà come le trovate più brillanti di tutto il film. Oshii decide infatti di condire la trama con un fortissimo fattore umano. In questo senso, i personaggi agiranno sì come previsto, ma noteremo nei loro occhi un forte rimorso che li renderà reali, costretti ad agire secondo l'Ordine, ma contro se stessi. Ecco che tutto il film è accompagnato da un potente sotto testo emotivo, dove la storia d'amore non è solo un addobbo, ma un dettaglio struggente; dove le sequenze oniriche non sono una ostentazione di "visionarietà", ma rivelano l'intimità del protagonista in un modo così profondo che diventa del tutto comprensibile solo al termine della visione. Parallelamente alla trama, viene poi ricordata più volte la favola di Cappuccetto Rosso e del lupo cattivo (che i Jin-Roh siano detti "uomini lupo" non è un caso), a cui non solo viene restituita l'originale carica di violenza e di ambiguità sessuale, ma che Oshii, servendosene come metafora, imbastisce di nuovi significati rendendola una vera e propria cassa di risonanza del significato dell'opera. I parallelismi mostrati tra le due vicende vanno oltre il vezzo della citazione letteraria, ma arricchiscono il film portandolo ad un livello superiore, elevando ad aforismi poetici le battute finali.
Nonostante sia condito di una forte componente emotiva, la struttura a scatole cinesi del film resta comunque prevaricante e, con essa, la netta sensazione di assistere allo svolgimento di un piano ben architettato. La prova più lampante si ha proprio nel finale, quando si poteva scegliere di rimanere ambigui, ma viene mostrata a tutti costi la realtà dei fatti: questa è l'arroganza di Oshii, che ha tracciato un lungo il cammino perfettamente calcolato per lo spettatore e non può certo permettergli, proprio alla fine, di prendere iniziativa su quale interpretazione dare alla sua opera. Prigioniero dalla sua stessa ingegnosa struttura, "Jin-Roh" rimane comunque un prodotto diverso, qualcosa di superiore al panorama tradizionale, migliore di pellicole simili ma più celebri. È un film che forse non cerca empatia, ma solo e semplice ammirazione. Quella, però, è davvero difficile negargliela.
Che "Jin-Roh" sia un film complicato viene subito chiarito dal lunghissimo prologo parlato che, in diversi minuti, espone con dovizia di dettagli l'ambientazione in cui la storia andrà a svolgersi; si tratta di una dichiarazione di intenti, ma soprattutto di un accordo, un impegno alla concentrazione che lo spettatore deve siglare prima di proseguire con la visione. Il film si dipana poi facendo seguire una scena di guerriglia urbana molto cruda e serrata, la cui violenza è edulcorata soltanto dalla meraviglia della messa e scena e dallo splendore delle animazioni (tutte disegnate a mano). Il secondo atto è un lungo e lento thriller di spionaggio (ricorda "La Conversazione" di Coppola), movimentato dall'incedere forsennato di continui colpi di scena, tanto sostanziali che lo spettatore ha bisogno di qualche minuto per adattarsi al cambiamento delle parti in gioco. Il terzo atto inizia invece quando anche l'ultimo ribaltamento è stato compiuto: si costituisce in una scena frenetica di una brutalità quasi catartica e termina all'improvviso, con una sequenza di chiusura forte come un pugno nei denti.
Il merito è perlopiù di Mamoru Oshii, qui in veste di sceneggiatore, uno dei pochissimi di cui si può affermare senza indugio che sa fare il proprio mestiere. La storia è una ricca e quasi inestricabile stratificazione di piani di lettura, dalla vicenda umana di Fuse a quella morale della sua amata, il rapporto e scontro tra le istituzioni, il limite tra giusta protesta e terrorismo, tra sicurezza e oppressione, la contrapposizione tra ruolo sociale e arbitrio individuale, che si esauriscono infine nel tema immortale di eros e thanatos. Alla prima visione è quasi impossibile cogliere ogni singolo passaggio, ogni ruolo di ogni parte, il doppi giochi e i complotti estremamente contorti. Per "Jin-Roh" più che per altri film, una seconda visione è consigliata e rivelatrice degli aspetti più segreti di una sceneggiatura non molto genuina. La forza intellettuale della prima visione è infatti quella di vedersi dipanare lentamente l'intricatissimo schema, in cui ogni scoperta genera sorpresa e ogni sorpresa genera interesse. Quando tutto viene rivelato, si capisce però come non si tratti altro che di un'abile partita a scacchi: conoscendo già le mosse, l'interesse cala rapidamente nel doversi concentrare su forze in gioco e personaggi che non sono altro che pedine senza arbitrio.
Gli espedienti atti a compensare tale artificiosità si rivelano in realtà come le trovate più brillanti di tutto il film. Oshii decide infatti di condire la trama con un fortissimo fattore umano. In questo senso, i personaggi agiranno sì come previsto, ma noteremo nei loro occhi un forte rimorso che li renderà reali, costretti ad agire secondo l'Ordine, ma contro se stessi. Ecco che tutto il film è accompagnato da un potente sotto testo emotivo, dove la storia d'amore non è solo un addobbo, ma un dettaglio struggente; dove le sequenze oniriche non sono una ostentazione di "visionarietà", ma rivelano l'intimità del protagonista in un modo così profondo che diventa del tutto comprensibile solo al termine della visione. Parallelamente alla trama, viene poi ricordata più volte la favola di Cappuccetto Rosso e del lupo cattivo (che i Jin-Roh siano detti "uomini lupo" non è un caso), a cui non solo viene restituita l'originale carica di violenza e di ambiguità sessuale, ma che Oshii, servendosene come metafora, imbastisce di nuovi significati rendendola una vera e propria cassa di risonanza del significato dell'opera. I parallelismi mostrati tra le due vicende vanno oltre il vezzo della citazione letteraria, ma arricchiscono il film portandolo ad un livello superiore, elevando ad aforismi poetici le battute finali.
Nonostante sia condito di una forte componente emotiva, la struttura a scatole cinesi del film resta comunque prevaricante e, con essa, la netta sensazione di assistere allo svolgimento di un piano ben architettato. La prova più lampante si ha proprio nel finale, quando si poteva scegliere di rimanere ambigui, ma viene mostrata a tutti costi la realtà dei fatti: questa è l'arroganza di Oshii, che ha tracciato un lungo il cammino perfettamente calcolato per lo spettatore e non può certo permettergli, proprio alla fine, di prendere iniziativa su quale interpretazione dare alla sua opera. Prigioniero dalla sua stessa ingegnosa struttura, "Jin-Roh" rimane comunque un prodotto diverso, qualcosa di superiore al panorama tradizionale, migliore di pellicole simili ma più celebri. È un film che forse non cerca empatia, ma solo e semplice ammirazione. Quella, però, è davvero difficile negargliela.