Trails in the Sky 1st Chapter - Recensione del remake Falcom
La storica saga RPG riparte dal via e lo fa in grande stile
di TWINKLE
Anno S.1202 del calendario di Zemuria. Sono passati cinquant’anni dalla Rivoluzione Orbale, inaugurando una transizione epocale verso un nuovo standard tecnologico, attraverso l'uso degli orbment, consentendo un nuovo sviluppo industriale. Da allora, la tecnologia Orbal alimenta tutto, dai beni essenziali come il riscaldamento e l'illuminazione, ai veicoli di trasporto, agli elettrodomestici ma anche, ovviamente, l’industria bellica.
Nella piccola cittadina di Rolent, nel regno di Liberl, Estelle Bright e suo fratello adottivo Joshua si addestrano per diventare Bracer, membri di un'organizzazione multinazionale non governativa che agisce per mantenere la pace e proteggere i civili. Cinque anni prima, Joshua, gravemente ferito, era stato portato a casa di Estelle da suo padre Cassius, uno dei Bracer più rinomati di Liberl, venendo poi adottato dalla famiglia Bright. Superata la prova per diventare Bracer Junior sotto la guida della loro mentore Scherazard, Estelle e Joshua vengono a sapere che Cassius deve partire improvvisamente per accettare un incarico nell'Impero di Erebonia, la potente nazione confinante con Liberl. Il giorno successivo, il suo dirigibile viene dirottato dai pirati del cielo noti come la Famiglia Capua. Estelle, Joshua e Scherazard Harvey lasciano Rolent per rintracciare i pirati nella vicina città di Bose.
Nell’ultimo anno mi è capitato di trattare una quantità senza precedenti di remaster e remake, partendo da Ys Memoire e Tales of Graces f di gennaio per arrivare a Raidou Kuzunoha in estate, passando per i due Suikoden e Lunar in primavera, praticamente facendo un rapido calcolo nel 2025 ho trattato più giochi “vecchi” che giochi nuovi, di conseguenza, anche le discussioni e le riflessioni su questo tipo di operazioni non sono mancate. Alla luce anche dei recenti remake di casa Konami, che ha avuto l’ardore di andare a toccare dei veri e propri mostri sacri come Silent Hill 2 e Metal Gear Solid 3, è capitato che tornasse in mente, direttamente dal periodo degli studi, il Paradosso della nave di Teseo. Plutarco narra che gli ateniesi, per far sì che la nave del mitico eroe greco Teseo si conservasse nel tempo, ne sostituivano le parti che man mano si deterioravano a causa del passare dei decenni. Ad un certo punto la nave non aveva più nessuna delle sue parti originali, pur conservando l’esatta forma, struttura e tipo di legno impiegato, e da qui il paradosso: se tutti i pezzi della nave erano stati sostituiti, la nave poteva ancora dirsi essere sempre quella del mitico Teseo?
Questo concetto filosofico si può applicare a qualsiasi opera ricostruzione, sia essa videoludica, specie in un’epoca in cui si guarda al passato a volte con estrema superficialità, altre con eccessiva reverenza. C’è chi ha criticato i cambiamenti, percettibili solo ad un occhio attento, di Silent Hill 2, c’è chi invece ha trovato la fedeltà maniacale di Metal Gear Solid Delta come una mancanza di coraggio nello svecchiare una struttura ludica che mostra tutte le rigidità del tempo, chiedendosi dunque quale fosse il senso ultimo di queste operazioni, al di là del guadagno. Come si giudica, dunque, un buon remake? Una risposta univoca probabilmente non esiste ed ognuno avrà una propria idea a riguardo; appurato che nessun remake sarà mai l’originale “Nave di Teseo”, ha senso utilizzare la fedeltà come principale metro di giudizio? Dire che Silent Hill 2 (2024) non è Silent Hill 2 (2001) è dire l’ovvio, è affermare una banalità. Questo rende inutile tutti i remake? Assolutamente no, qui entrano in gioco altri fattori, reperibilità, rilancio commerciale, tentativi di ampliamento di una fanbase altrimenti sempre più vecchia. Di te che giochi Silent Hill su retroarch coi filtri CRT a Konami giustamente non frega nulla perché non glie ne viene nulla.
Un buon remake (non un remaster, che hanno uno scopo diverso), per definirsi pienamente riuscito dovrebbe idealmente possedere tre caratteristiche: deve avere rispetto per l’opera originale, rispetto, non cieca venerazione, una ricostruzione 1:1 ha un’utilità limitata perché si pone come sostitutiva, come mero aggiornamento grafico, studiare il materiale da cui si attinge e capire dove migliorare dovrebbe essere l’aspirazione di un remake. E qui ci allacciamo al secondo punto, ovvero prefiggersi lo scopo non solo di replicare l’opera originale, ma anche quello di superarla, aggiornandola nelle sue caratteristiche, rivedendo ed eventualmente modificare dove necessario certe criticità e meccaniche ritenute spigolose o superate, senza avere il timore di stare maneggiando una statua greca vecchia di duemila anni, motivo per cui i remake più ambiziosi sono spesso quelli realizzati da chi ha lavorato, almeno in buona parte nelle figure chiave, anche all’originale (vedasi Final Fantasy VII, nel bene e nel male), perché l’artista, per definizione, desidera superare se stesso, non ripetere quanto già fatto. Infine, un remake dovrebbe avere come finalità quella di attirare non solo i fan storici, ma anche e soprattutto nuova utenza, altrimenti il suo stesso scopo perde di significato. Ebbene, Falcom con Trails in the Sky 1st Chapter spunta tutte e tre le caselle e lo fa con un inchiostro mai così pregiato, per la storica casa giapponese, al punto da lasciare a tratti stupefatti chi fino a non molto tempo fa doveva mettere nel fortunatamente sempre breve elenco dei difetti, lo spesso inevitabile “graficamente è il solito gioco Falcom”, quasi fino alla nausea.
L’engine utilizzato è lo stesso inaugurato con Trails through Daybreak, che ora sappiamo chiamarsi poco originalmente Falcom Developer Kit (FDK), dopo che per anni la casa giapponese si era affidata al PhyreEngine di Sony. I vantaggi di un rendering grafico pensato ad-hoc sono evidenti e in Trails in the Sky 1st Chapter è stato compiuto un passo ulteriore agli shader per conferire al gioco un aspetto grafico più gradevole e dai colori brillanti, perfettamente in linea con le atmosfere vivaci del gioco originale e delle ambientazioni di Liberl. Ma sono le animazioni delle cut-scene, spesso punto dolente della casa, a lasciare esterrefatti per la loro qualità, tant’è che alla visione dei primi trailer in molti hanno pensato che Falcom si fosse affidata a qualche team esterno, magari cinese, per la realizzazione di questo remake (e Kondo, in un’intervista, ci scherza pure), tale è lo stacco percepito rispetto al passato. Una protagonista come Estelle Bright, dal temperamento vivace e travolgente, ma anche sensibile ed emotiva, la cui variegata espressività, affidata nel gioco originale tramite dei portrait divenuti iconici, non concedeva alcun compromesso. Questo remake, con questa cura realizzativa, è tutto per lei: quelle espressioni dovevano esserci tutte, e ci sono tutte, ricostruite con una cura e una fedeltà assoluta. Quello tra Joshua ed Estelle è uno dei rapporti ancora oggi scritti in maniera migliore da Falcom, tra i dubbi del ragazzo, adottato ma forse mai davvero integrato in questa realtà, e il comportamento da “sorellona” di lei che apparentemente sembra non lasciare spazio ad altro, approfondire oltre vuol dire anticipare inevitabilmente dei risvolti che i nuovi giocatori meritano di scoprire passo per passo, dalla loro formazione ad un finale che già all’epoca lasciò con il fiato sospeso tutti i giocatori. Ed è per questo che il primo Trails in the Sky si prende i suoi tempi, facendoci vivere la loro formazione come Bracer che viaggia di pari passo con la loro scoperta del regno, delle sue bellezze, ma anche dei suoi pericoli, delle “braci” che ardono nel suo sottosuolo, lo fa con la consapevolezza di avere tra le mani qualcosa di grandioso e oggi, rispetto ad allora, sappiamo che è così.
Perché se è pur vero che questo remake sembra avere lo scopo di attirare un’utenza nuova, frenata in partenza dal muro di giochi di cui si compone questa serie, da parte di un veterano rivisitare Liberl, ricostruita con una cura impressionante, può essere un’esperienza molto più gratificante di quanto un semplice aggiornamento grafico o un “HD2D” potrebbero mai dare. Chiaramente, maggiore è la differenza che separa l’originale dal remake (non solo temporale, ma anche tecnica, pur essendo uscito nel 2004 l’estetica di Sora no Kiseki rimaneva ancorata alla prima PlayStation), maggiore è il senso di meraviglia che si prova ripercorrendo certi luoghi. Non mancano elementi ambientali ricorrenti, dialoghi non doppiati e NPC trattati peggio di altri, ma è la resa generale ciò che conta. La sensazione è la medesima di quando, in quell’aprile 2020 nel bel mezzo di un lockdown, tra lunghe videochiamate e bollettini delle 18:00, in cui i videogiochi ci sembravano l’unica ancora di salvezza in un contesto reale che ci appariva assurdo, ci siamo ritrovati immersi in una Midgar ricostruita in scala e visitabile nelle sue opprimenti fondamenta, con la differenza che qui la cosa è amplificata ad un’intera nazione dalla piacevole atmosfera post-industriale che rievoca inevitabilmente classici come Grandia e Skies of Arcadia, e sotto alcuni punti di vista è quasi distensivo, dopo aver pilotato mecha e aver assistito a disastri di ogni genere nei Trails più moderni, vedere i personaggi tornare a stupirsi per l’apertura di un ponte levatoio. Prendendo spunto da tale iconografia dell’avventura giapponese, Falcom pone la sua firma su un’opera libera e immensa, sempre in grado di affascinare grazie ad un fuoco di fila di trovate estetiche e narrative, e che si permette anche di sollevare intrighi e ragionamenti di natura politica non di banale interesse, presentandoci un mondo ricco e sfaccettato senza però deviare il focus dalla storia formativa dei personaggi, tramite un equilibrio tra semplicità e varietà che alcuni capitoli più recenti e corali della saga hanno, forse inevitabilmente, fatto più fatica a mantenere.
Pad alla mano Trails in the Sky 1st Chapter attua l'approccio più intelligente. Limitarsi a riproporre in 3D il sistema di combattimento a turni dell’originale, non certo vetusto rispetto ad altri ma oggi alquanto rigido, sarebbe stata non solo una scelta svogliata, ma anche controproducente per un remake che si prefigge lo scopo di presentarsi come un nuovo punto di partenza per la serie. Falcom prende piuttosto spunto dalla struttura ibrida di Trails through Daybreak, prevedendo combattimenti in tempo reale durante la fase esplorativa, con a disposizione attacco fisico, schivata e una doppia tecnica di tecniche Craft, e tanto basta per avere la meglio sui nemici più deboli, salvo poi avere la possibilità di passare, tramite un nostro comando, al più classico sistema di combattimento a turni con range limitato di movimento, con cui affrontare battaglie più impegnative che richiedono una maggiore strategia. Esattamente come in Daybreak, possiamo iniziare il combattimento con un leggero vantaggio dopo aver stordito i nemici on field nella fase in tempo reale, effettuando un cosiddetto Brave Attack, l’attacco di gruppo composto dal Follow-up (due personaggi), la Chain (tre personaggi) e la Burst (con l’intero team), gli ultimi due al costo dello stock di un apposito indicatore di cinque livelli ricaricabile con il primo. Per il resto, il sistema degli Orbment, che qui fece il suo debutto, così come le Arts (magie) e le Craft (le tecniche personali), risulteranno immediatamente familiari a chi conosce la serie e abbastanza intuibili ai neofiti, i tutorial sono tutti al loro posto ed è importante non forzare le cose. Le battaglie stesse non vanno prese alla leggera, certi boss in questo capitolo picchiano duro, specie quando entrano in modalità rage o con i gruppi numerosi. Brave Order, S-Boost e altre funzioni avanzate viste nei giochi più recenti qui sono assenti; pertanto, preparazione e posizionamento acquisiscono un’importanza fondamentale. I quattro livelli di difficoltà a disposizione dovrebbero comunque coprire ogni evenienza e fascia di giocatore.
Il remake non manca ovviamente di alleggerire l’esperienza con funzioni di quality of life, alcune delle quali prese direttamente dai Trails più recenti, come viaggi rapidi, salvataggio automatico, skip per le S-Craft, hi-speed mode, anche se il più apprezzato è sicuramente l’innesto di un’icona blu che indica sulla mappa un NPC con un dialogo facoltativo o un oggetto mancabile come i libri, da sempre l’aspetto più rognoso per i completisti. Per quanto riguarda l’adattamento in inglese è bene tenere presente che ci sono differenze con l’originale, attribuibili tanto alle libertà prese dall’allora publisher Xseed su alcune battute, quanto in misura minore alle modifiche attuate da Falcom stessa per questo remake. Testato su PS5, Trails in the Sky 1st Chapter gira a 60fps stabili con opzione fino a 120, assente con una certa delusione nella versione base di YS X, impreziosito da caricamenti letteralmente istantanei ed un buon supporto alle funzionalità di feedback del DualSense. La versione PC è stata sviluppata da Falcom stessa e non da PH3 come nelle uscite più recenti, ma l’azienda giapponese sembra aver in buona parte assimilato quanto di buono fatto con le ultime produzioni, almeno da quanto traspare dai primi test, presentando l'Ultrawide e altre gradite opzioni. L’HDR, in particolare, sembra calzare sui colori brillanti di Trails in the Sky 1st Chapter. Disponibile anche per Switch e Switch 2.