La parte gaming del Napoli Comicon si è sempre arricchita di panel in grado di raccontare il dietro le quinte di queste opere. Anche quest’anno abbiamo avuto modo di approfondire alcune tematiche centrali sullo sviluppo dei videogiochi, sulle difficoltà e i compromessi da affrontare, e su un’industria italiana che fatica a crescere.

All’HyperStage, il panel “Design e produzione dei videogiochi: le sfide” si è rivelato molto interessante, con il game designer Dario Massa, Rocco Paladino di Meangrip Studio e Matteo Lana di Tiny Bull Studios, moderati da Gianluca Verri di PlayerInside.
Sappiamo bene come il mercato videoludico sia estremamente complesso e saturo, ed è sempre più difficile proporre qualcosa di realmente nuovo. Tante difficoltà, ma anche piccole gioie, raccontano di sviluppatori che cercano di imporsi come nuova guida dell’industria o semplicemente di esistere, dimostrando il proprio valore.

Design e produzione dei videogiochi


Nel 2025, creare qualcosa di davvero originale è diventato un compito arduo. Le idee già collaudate sono ovunque, battute da una miriade di publisher, e le strade da intraprendere non sono molte. Sarebbe meraviglioso inventare qualcosa di mai visto prima e diventare i nuovi Kojima, ma la realtà impone anche un approccio più cauto: talvolta si crea un videogioco simile a un altro per andare sul sicuro e arricchire il proprio portfolio. È una lunga sfida fatta di compromessi, in cui bisogna trovare un equilibrio tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che il mercato richiede, con il rischio che l’elemento “innovativo” nemmeno venga compreso.

Interessanti sono i passaggi che portano alla creazione di un videogioco in questo contesto, soprattutto nel mondo indie, dove si tenta di differenziarsi. Si prova a essere innovativi nelle prime fasi, soprattutto nel primo gioco, ma le difficoltà rallentano spesso lo sviluppo. Quando il gruppo è più rodato, entra in gioco anche l’aspetto economico: gli stipendi vanno pagati. Lo dimostra il recente Clair Obscur, dove il primo progetto si è rivelato decisivo (qui la recensione). Anche in questo caso, si cerca un equilibrio tra forma d’arte e commercializzazione, anche se molto spesso la bilancia pende verso la seconda.

Siamo ormai abituati a pensare che il grande mondo delle corporate sforni videogiochi soltanto per guadagnare cifre esorbitanti, spremendo i giocatori il più possibile. Siamo sommersi ogni giorno da risultati finanziari, tagli ai budget, licenziamenti, riassetti societari, flop colossali: tutto sembra ruotare attorno al denaro. Eppure, la situazione è più sfaccettata. La classica distanza tra realtà e percezione genera spesso fraintendimenti e leggende metropolitane. Molti sviluppatori, anche nelle grandi aziende, lavorano ancora mossi dalla passione. Ma è innegabile che la cattiva gestione dei team porti spesso a conseguenze tragiche. Tra sforamenti di tempo, cambi radicali di rotta e indicazioni poco chiare, non è raro concludere un progetto solo per non buttare via anni di lavoro.

Design e produzione dei videogiochi


Per i team più piccoli la situazione non è migliore. Volente o nolente, tutto ruota attorno al budget, che spesso deve prevedere almeno due voci: sviluppo e marketing. Alcuni team scelgono di affidarsi a un publisher, con le convention che diventano l’occasione ideale per mostrare un prototipo o stringere contatti. Se il publisher accetta, può finanziare lo sviluppo o limitarsi alla distribuzione. In ogni caso, questa scelta incide fortemente sui potenziali guadagni. Tutto dipende dal budget iniziale, dall’identità dello studio e dal portfolio. Il publisher vuole sapere a chi sta dando fiducia, ed è per questo che realizzare anche un piccolo gioco — senza puntare a grandi vendite — diventa fondamentale. Serve a dimostrare di avere le capacità per gestire e concludere un progetto.

In questi casi, sviluppatore e publisher diventano soci. Ma l’equilibrio cambia drasticamente quando il socio è lo Stato. E se lo Stato è l’Italia, le cose si complicano. Nel nostro Paese, il videogioco è ancora visto come un’attività secondaria, non come una vera industria. Il supporto finanziario è ridotto all’osso rispetto al cinema, nonostante entrambi siano formalmente sostenuti dal Ministero della Cultura. Esiste un Tax Credit che permette di ridurre le tasse durante lo sviluppo, ma le difficoltà restano. C’è un’associazione di sviluppatori che prova a farsi sentire, ma finché a livello culturale il videogioco sarà considerato un prodotto di “Serie B”, c’è poco da fare.

Alla fine, si torna sempre lì: il problema sta nelle istituzioni, che non riconoscono il videogioco né come arte né come industria, anche perché i numeri non bastano a giustificarne l’esistenza. A parte le grandi realtà come Ubisoft Milano o Milestone, la maggior parte degli studi sopravvive realizzando esperienze multimediali per banche, musei o il settore educational. Senza un reale supporto, il settore continuerà a crescere a fatica, non riuscendo a generare un fatturato paragonabile a quello del cinema, dell’alimentare o del tessile. Alcuni, come Soulstice o il recente Enotria, hanno provato a fare qualcosa di diverso e ambizioso, ma restano mosche bianche in un panorama che, se nero non è, è sicuramente grigio scuro.

Design e produzione dei videogiochi


A pesare ulteriormente è la carenza di una formazione capillare. Negli ultimi anni sono nate diverse academy in cui studenti e studentesse approfondiscono ogni aspetto del medium, e il livello generale è in crescita. Tuttavia, resta il nodo delle assunzioni: manca un mercato del lavoro strutturato. Esiste un’enorme quantità di junior pronti a iniziare e pochi senior di lungo corso. Quello che manca è una fascia intermedia, essenziale per far crescere un team. Siamo ancora indietro, ma in futuro le cose potrebbero cambiare.

Tutto questo si scontra anche con la tossicità di una parte della community videoludica, diventata quasi insostenibile negli ultimi anni. Non è facile lavorare e proporre idee nuove in questo clima, anche se — secondo i presenti al panel — non rappresenta un ostacolo insormontabile. Ancora una volta si torna al tema della percezione: si tratta spesso di una minoranza rumorosa e poco informata. Ma il problema è che la stampa, talvolta, amplifica queste polemiche. Per fortuna, la stragrande maggioranza del pubblico è in grado di dare il giusto peso a ciò che legge sui social. Tuttavia, non basta. La sensibilità di chi sviluppa non è sempre impermeabile: c’è chi ha pianto leggendo i commenti, e chi — in preda alla rabbia — ha reagito insultando tutti e tutto. In un contesto in cui lo sviluppo dura anni e implica sacrifici personali enormi, queste reazioni sono comprensibili, per usare un eufemismo. Tutto questo non significa che le critiche vadano evitate. Al contrario, sono necessarie — se fondate e comunicate con rispetto. Anche qui, serve equilibrio: un modo sano di esprimere disappunto, dubbi o insoddisfazione. Forse un’utopia. Ma la speranza è l’ultima a morire.

Il panel “Design e produzione dei videogiochi: le sfide” si è dimostrato, dunque, un momento prezioso. Parlare con gli sviluppatori ha permesso di comprendere meglio cosa c’è dietro le scelte creative e produttive, e quanto possa essere difficile costruire qualcosa di autentico. Di sola passione non si vive, e certe scelte che a prima vista fanno storcere il naso possono essere, in realtà, l’unico modo per realizzare ciò che si desidera davvero. Proprio come hanno fatto i ragazzi di Clair Obscur: Expedition 33.