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9.5/10
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“A me è l’anima che hanno divorato.”

Gannibal

Ci sono storie che fanno paura, e altre che si nutrono della paura.
"Gannibal", di Masaaki Ninomiya, è una di queste, non un horror nel senso più convenzionale, ma un thriller psicologico che divora lentamente la mente di chi legge, fino a far perdere il confine tra realtà e delirio.
Non vuole spaventare, vuole corrodere. Ti mette accanto alla follia, e ti lascia il dubbio che potresti cadere nello stesso abisso.

La trama inizia come un trasferimento di routine. Il giovane agente di polizia Daigo Agawa viene assegnato al villaggio di montagna di Kuge, una comunità isolata e inquietantemente tranquilla. Tutto sembra normale, ma la morte misteriosa di un’anziana donna incrina quella calma apparente. Daigo inizia a indagare, a sospettare, a dubitare.
Man mano che cerca la verità, il villaggio si chiude su di lui come una trappola, e il sospetto del cannibalismo diventa solo la superficie di un male più profondo, un sistema antico, una mentalità corrotta, un segreto che tutti conoscono e nessuno osa pronunciare.

"Gannibal" non ti trascina nel mistero, ti ci fa affogare lentamente.
La narrazione è costruita come un labirinto mentale.
Ogni informazione sembra vera fino al momento in cui non lo è più, ogni alleato nasconde un secondo volto e un passato. Il ritmo è controllato, chirurgico, e Ninomiya gioca magistralmente con l’incertezza. Il lettore, come Daigo, non sa mai se la minaccia sia reale o immaginata. È qui che Gannibal diventa devastante, non nella violenza, ma nella tensione costante, nel senso di claustrofobia, nel non potersi fidare di nessuno, nemmeno della propria mente. Più che un horror, è una spirale di sospetto, paranoia e autodistruzione.

Le tematiche scavano sotto la pelle, la colpa, la sopravvivenza morale, la paura dell’altro, ma anche la corruzione della comunità come organismo collettivo. Ogni persona a Kuge sembra custodire un segreto, e il silenzio diventa un linguaggio comune. L’opera interroga senza pietà: quanto siamo disposti a chiudere gli occhi per proteggere ciò che amiamo? E fino a che punto la violenza può diventare tradizione, persino identità? C’è una fame che non è solo fisica, ma spirituale, un bisogno di dominio, di controllo, di sopravvivenza che travolge ogni limite umano.

I personaggi sono sublimi, tutti rotti a modo loro, sfaccettati, imperfetti e straordinariamente vivi. Ninomiya non ne salva nessuno, anche i più “buoni” hanno una crepa che li attraversa.
Daigo, il protagonista, è un uomo diviso tra il senso del dovere, l'amore per la sua famiglia ed il trauma che lo perseguita. Ogni passo nella sua indagine è anche un passo verso la sua discesa interiore.
E poi c’è Keisuke, il mio preferito: ambiguo, disturbante, quasi carismatico nel suo male. Rappresenta la parte più oscura e affascinante del manga, l’idea che il mostro non sia altro che una verità che abbiamo smesso di negare. In "Gannibal" non esiste purezza, solo la lotta disperata per mantenere un briciolo di umanità mentre si scende nell’abisso.

Sul piano visivo, "Gannibal" è una fusione tra brutalità e inquietudine sottile. Il tratto di Ninomiya è ruvido, spesso sporco, e proprio per questo funzionale al tono psicologico e instabile della storia.
Ogni volto, ogni ombra sembra respirare tensione. C’è qualcosa di infantile e malato nei disegni, come scarabocchi di un bambino che ha visto troppo, con linee che tremano, deformano, si sporcano.
Questo stile si fonde perfettamente con la follia del racconto, ma a volte risulta troppo grezzo, quasi impreciso, come se la potenza visiva non riuscisse a reggere fino in fondo l’intensità della scrittura.
Con un tratto più preciso, "Gannibal" avrebbe potuto diventare un capolavoro assoluto, perché il suo orrore merita la perfezione del dettaglio.

E poi c’è il finale.
Non amo i finali aperti, ma questo mi ha lasciato addosso un brivido che non se ne va.
Non è chiaro, non è risolutivo, è ambiguo e maledettamente inquietante. Sembra un punto che in realtà è una cicatrice.
Ti lascia con la sensazione che qualcosa non sia mai davvero finito, e forse è proprio questa la chiusura più onesta possibile per un’opera come "Gannibal".

Alla fine, non è la paura a restare, ma la consapevolezza di aver guardato troppo a lungo nell’abisso. "Gannibal" non vuole farti urlare, ma farti dubitare di tutto, delle persone, dei tuoi sensi, di te stesso.
È un thriller psicologico travestito da horror, un racconto di segreti, di tradizioni malate e di colpe ereditarie. Un manga che non parla del male, ma della normalità del male. E se il voto non raggiunge la perfezione, è solo perché l’imperfezione del segno grafico ne frena l’impatto visivo. Ma per tensione, scrittura e profondità umana, "Gannibal" resta una delle opere più disturbanti e riuscite degli ultimi anni.

VOTO: 9,3

Inoltre ammiro profondamente Daigo per l'amore smisurato che prova per le tette di sua moglie.
Uomo vero.