Recensione
Tracce di Sangue
9.0/10
Recensione di DarkSoulRead
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«Avanti mettiti le scarpe, presto.
Su, andiamo… viene anche la mamma con te. »
«Guarda mamma c’è un gatto. Sta dormendo. Com’è carino… Posso accarezzarlo?»
«Va bene…»
«Mamma… il micio è freddo… non si muove…»
«Hai ragione… questo micio è morto.»
Seiko e suo figlio Seiichi hanno all’apparenza un bellissimo rapporto. Lei lo controlla sempre, e senza rendersene conto lo rinchiude in una bolla di iperprotettività. Lo coccola, lo sbaciucchia, lo tocca, sfociando in atteggiamenti ambigui che sembrano valicare ampiamente il confine delle attenzioni materne; lui pare assoggettato, impaurito. Strani sogni ricorrenti restituiscono a Seiichi un’immagine di Seiko ben diversa dalla madre dolce e amorevole che aveva proiettata nella sua testa, e si capisce presto che sotto quella patina di quiete apparente serpeggiano ombre spaventose.
Cosa ha fatto Seiko a Seiichi?
Che accade quando il genuino amore materno si trasforma in perversa ossessione morbosa?
L’indissolubilità del legame tra madre e figlio ci viene mostrata dalle prospettive più malate e spettrali, a tratti quasi incomprensibili, cicatrizzando negli occhi del lettore la fotografia di un abbraccio asfissiante.
In questa vertiginosa discesa verso abissi ancora poco sondati dai mangaka, Oshimi ci delizia con colpi di scena perfettamente calibrati e twist narrativi che alzano costantemente l’asticella del coinvolgimento, spingendo sempre più in alto l’intensità emotiva.
“Guarda fuori, sembra tutto bianco”
Uno dei temi portanti è il potere coercitivo che una madre può esercitare su un figlio inerme, gravemente affetto dal complesso di Edipo, i cui ricordi risultano sfocati e facilmente manipolabili. Il lavaggio del cervello che subisce Seiichi sfocia in una crisi d’identità che ribalta più volte le carte in tavola, conferendo alla storia sfumature di grigio che aggiungono molteplici chiavi di lettura.
La crisi d’identità è un’argomento già affrontato più volte dal sensei, specialmente in chiave sessuale, come nel precedente “Dentro Mari”, ma la profondità narrativa raggiunta in “Tracce di Sangue” suggerisce che Oshimi abbia raggiunto la piena maturità artistica, trovando la sua cifra stilistica definitiva.
I personaggi, compresi i secondari, si contano sulle dita delle mani, e nonostante fungano bene da contesto il focus resta sempre su Seiichi e sua madre.
Nessuno spazio a sottotrame riempitive.
Il padre, gli zii, e sopratutto il cugino — su cui non mi soffermo per evitare spiacevoli spoiler — seppur spesso in penombra, giocano un ruolo chiave nello sviluppo delle vicende.
I nonni, invece, avrebbero meritato maggiore approfondimento.
Leggere, in postfazione, l’autore chiedere scusa alle persone che ha inserito nell’opera fa accapponare la pelle. Pensare che questo racconto sia anche solo in minima parte autobiografico è agghiacciante.
I traumi infantili di Seiichi degenerano in un’acuta balbuzie, patologia ha afflitto lo stesso Oshimi.
Anche la lovestory con Yuko Fukiishi, che non riesce mai davvero a decollare, trova le sue radici nel privato dell’autore, che si è ispirato alla sua prima cotta delle scuole medie.
“Tracce di Sangue” è un’opera dal grande carico emotivo, capace di tenere il lettore incollato alle sue pagine dall’inizio alla fine.
I dialoghi, pochi ma taglienti, lasciano spesso spazio alle espressioni e alle voci interiori: Shuzo Oshimi predilige silenzi e primi piani, sfoggiando fitti tratteggi reticolati che gli garantiscono uno stile grafico confacente al contesto e perfettamente riconoscibile. Nonostante le tematiche cupe e disturbanti, la scorrevolezza della narrazione — favorita anche dalla presenza di pochi balloon — rende questo manga una lettura al cardiopalma, tanto coinvolgente da poter essere divorato in un solo giorno, nonostante i suoi 17 volumi.
Le atmosfere orrorifiche iniziali, con gli inquietanti giochi di sguardi tra Seiichi e sua madre e i frequenti zoom sugli occhi (che richiamano alla mente Junji Ito e, più in generale, i grandi classici dell’horror giapponese come The Grudge o The Eye), purtroppo si affievoliscono con il proseguire della storia. Col passare dei volumi, infatti, l’orrore lascia spazio a un tono più disturbante e drammatico, senza però perdere del tutto la sua forza espressiva.
Sebbene l’intreccio mantenga una qualità costante, si avverte un leggero calo nella parte centrale: l’intero paragrafo processuale risulta piuttosto sottotono.
È un peccato che l’inquietudine e il terrore iniziali si dissolvano progressivamente, ma ciò non intacca la potenza del racconto.
Shuzo Oshimi raschia il torbido dell’animo umano con le unghie e lo cristallizza in un agghiacciante dramma domestico a tinte fosche di rarissima fattura, che riesce ad essere tanto oscuro ed inquietante quanto poetico e commovente.
Un viaggio macabro e profondo nei recessi di una psiche deviata.
“Il cielo dall’altra parta era di un bellissimo colore… un tramonto che non finiva mai. Io l’avevo già visto prima. Si… ora mi è tornato in mente. L’avevo dimenticato… No non l’avevo dimenticato.
Ci avevo soltanto messo un coperchio sopra”.
Su, andiamo… viene anche la mamma con te. »
«Guarda mamma c’è un gatto. Sta dormendo. Com’è carino… Posso accarezzarlo?»
«Va bene…»
«Mamma… il micio è freddo… non si muove…»
«Hai ragione… questo micio è morto.»
Seiko e suo figlio Seiichi hanno all’apparenza un bellissimo rapporto. Lei lo controlla sempre, e senza rendersene conto lo rinchiude in una bolla di iperprotettività. Lo coccola, lo sbaciucchia, lo tocca, sfociando in atteggiamenti ambigui che sembrano valicare ampiamente il confine delle attenzioni materne; lui pare assoggettato, impaurito. Strani sogni ricorrenti restituiscono a Seiichi un’immagine di Seiko ben diversa dalla madre dolce e amorevole che aveva proiettata nella sua testa, e si capisce presto che sotto quella patina di quiete apparente serpeggiano ombre spaventose.
Cosa ha fatto Seiko a Seiichi?
Che accade quando il genuino amore materno si trasforma in perversa ossessione morbosa?
L’indissolubilità del legame tra madre e figlio ci viene mostrata dalle prospettive più malate e spettrali, a tratti quasi incomprensibili, cicatrizzando negli occhi del lettore la fotografia di un abbraccio asfissiante.
In questa vertiginosa discesa verso abissi ancora poco sondati dai mangaka, Oshimi ci delizia con colpi di scena perfettamente calibrati e twist narrativi che alzano costantemente l’asticella del coinvolgimento, spingendo sempre più in alto l’intensità emotiva.
“Guarda fuori, sembra tutto bianco”
Uno dei temi portanti è il potere coercitivo che una madre può esercitare su un figlio inerme, gravemente affetto dal complesso di Edipo, i cui ricordi risultano sfocati e facilmente manipolabili. Il lavaggio del cervello che subisce Seiichi sfocia in una crisi d’identità che ribalta più volte le carte in tavola, conferendo alla storia sfumature di grigio che aggiungono molteplici chiavi di lettura.
La crisi d’identità è un’argomento già affrontato più volte dal sensei, specialmente in chiave sessuale, come nel precedente “Dentro Mari”, ma la profondità narrativa raggiunta in “Tracce di Sangue” suggerisce che Oshimi abbia raggiunto la piena maturità artistica, trovando la sua cifra stilistica definitiva.
I personaggi, compresi i secondari, si contano sulle dita delle mani, e nonostante fungano bene da contesto il focus resta sempre su Seiichi e sua madre.
Nessuno spazio a sottotrame riempitive.
Il padre, gli zii, e sopratutto il cugino — su cui non mi soffermo per evitare spiacevoli spoiler — seppur spesso in penombra, giocano un ruolo chiave nello sviluppo delle vicende.
I nonni, invece, avrebbero meritato maggiore approfondimento.
Leggere, in postfazione, l’autore chiedere scusa alle persone che ha inserito nell’opera fa accapponare la pelle. Pensare che questo racconto sia anche solo in minima parte autobiografico è agghiacciante.
I traumi infantili di Seiichi degenerano in un’acuta balbuzie, patologia ha afflitto lo stesso Oshimi.
Anche la lovestory con Yuko Fukiishi, che non riesce mai davvero a decollare, trova le sue radici nel privato dell’autore, che si è ispirato alla sua prima cotta delle scuole medie.
“Tracce di Sangue” è un’opera dal grande carico emotivo, capace di tenere il lettore incollato alle sue pagine dall’inizio alla fine.
I dialoghi, pochi ma taglienti, lasciano spesso spazio alle espressioni e alle voci interiori: Shuzo Oshimi predilige silenzi e primi piani, sfoggiando fitti tratteggi reticolati che gli garantiscono uno stile grafico confacente al contesto e perfettamente riconoscibile. Nonostante le tematiche cupe e disturbanti, la scorrevolezza della narrazione — favorita anche dalla presenza di pochi balloon — rende questo manga una lettura al cardiopalma, tanto coinvolgente da poter essere divorato in un solo giorno, nonostante i suoi 17 volumi.
Le atmosfere orrorifiche iniziali, con gli inquietanti giochi di sguardi tra Seiichi e sua madre e i frequenti zoom sugli occhi (che richiamano alla mente Junji Ito e, più in generale, i grandi classici dell’horror giapponese come The Grudge o The Eye), purtroppo si affievoliscono con il proseguire della storia. Col passare dei volumi, infatti, l’orrore lascia spazio a un tono più disturbante e drammatico, senza però perdere del tutto la sua forza espressiva.
Sebbene l’intreccio mantenga una qualità costante, si avverte un leggero calo nella parte centrale: l’intero paragrafo processuale risulta piuttosto sottotono.
È un peccato che l’inquietudine e il terrore iniziali si dissolvano progressivamente, ma ciò non intacca la potenza del racconto.
Shuzo Oshimi raschia il torbido dell’animo umano con le unghie e lo cristallizza in un agghiacciante dramma domestico a tinte fosche di rarissima fattura, che riesce ad essere tanto oscuro ed inquietante quanto poetico e commovente.
Un viaggio macabro e profondo nei recessi di una psiche deviata.
“Il cielo dall’altra parta era di un bellissimo colore… un tramonto che non finiva mai. Io l’avevo già visto prima. Si… ora mi è tornato in mente. L’avevo dimenticato… No non l’avevo dimenticato.
Ci avevo soltanto messo un coperchio sopra”.