Recensione
L'isola dei cani
8.5/10
La mia personale ricerca dei film o delle serie televisive animate da vedere è sempre molto casuale. Il più delle volte, come è bene immaginare, sono io stesso che vado alla ricerca di cose da guardare. In questi casi, spulcio i nomi degli autori dell’opera, leggo la trama e, infine, prendo una decisione risolutiva. Può anche capitare, però, che io venga banalmente attratto dalla copertina di un’opera, così come accaduto ultimamente con “YAIBA: Samurai Legend”, di cui mi ha immediatamente attirato lo stile di disegno. Altre volte, invece, è il più semplice e genuino passaparola a farmi conoscere un anime, come quando uno dei miei amici più fidati mi disse di vedere “Steins;Gate”, consiglio per il quale gli sarò sempre grato. Infine, c’è il caso ormai sempre più raro: seguire il suggerimento di un personaggio pubblico, youtuber o streamer, che stimo. Tra questi, c’è l’ormai celeberrimo Dario Moccia che, diversi anni fa, consigliò al suo pubblico la visione de “L’isola dei cani”. Da buon negligente quale sono, ovviamente, accolsi il suo parere e inserii il film nella mia lista un tempo infinita e oggi incredibilmente sfoltita. Il risultato è stato il seguente: ho recuperato la pellicola qualche settimana fa e ne sono rimasto folgorato.
“L'isola dei cani” – il cui titolo originale è “Isle of Dogs” – è un film d'animazione stop-motion per adulti del 2018 scritto, diretto, co-ideato e co-prodotto da Wes Anderson. Nel 2019, la pellicola ha ottenuto la candidatura al miglior film d’animazione e alla miglior colonna sonora, sia agli Oscar che ai Golden Globe.
Nel futuro 2038, un'epidemia di "influenza canina" colpisce tutti i cani del Giappone. Per evitare che la pestilenza muti e attacchi anche gli umani, l'autoritario sindaco della città di Megasaki, Kobayashi, firma un decreto che bandisce tutti i cani, ponendoli in quarantena su un'isola di rifiuti, nonostante il professor Watanabe, capo del Partito della Scienza, affermi di essere vicino a creare un antidoto. Il primo cane ad essere pubblicamente trasferito sull'isola è Spots, il fidato amico e “guardia del corpo” di Atari Kobayashi, l’orfano nipote adottivo del sindaco. Sei mesi più tardi, Atari ruba un piccolo aeroplano per raggiungere l'Isola dei cani, nella speranza di ritrovare Spots. Dopo essere precipitato, il giovane ragazzo incontra cinque cani: Rex, Duke, King, Boss, e il loro capo, Chief, uno scontroso randagio. I cani accettano di aiutare il ragazzo a trovare Spots, nonostante Chief si rifiuti categoricamente di stringere rapporti con gli umani. Ha inizio così un lungo viaggio d’avventura e speranza, rigorosamente suddiviso in capitoli, che hanno il merito di rendere la visione del film incredibilmente scorrevole.
Ciò che colpisce immediatamente della pellicola è la sua peculiare resa grafica. Da questo punto di vista, “L’isola dei cani”, film nato dalla collaborazione tra Stati Uniti d’America e Germania – questi i nomi delle case di produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush e Studio Babelsberg –, non assomiglia a nessun’opera d’animazione, orientale o occidentale, di cui io abbia preso visione negli ultimi anni. Il lungometraggio si propone fondamentalmente come una via di mezzo tra il 2D e il 3D, insomma, una sorta di 2.5D realizzato interamente, o quasi, in computer grafica. Un’altra particolarità che ho trovato davvero inusuale ma piacevole è la scelta di doppiare la pellicola in due diverse lingue: il giapponese e l’inglese (o italiano, dipende dal paese di nascita dello spettatore). Per ragioni stilistiche, gli autori del film hanno deciso di lasciare non tradotte le conversazioni e i dialoghi in lingua giapponese, che mancano anche del supporto dei sottotitoli. Nella nota allo spettatore si può, infatti, leggere: “In questa storia gli umani parlano solo nella loro lingua madre”. Una scelta quanto mai bizzarra e che credevo avrebbe portato a problemi di comprensione, a cui, invece, gli ideatori del lungometraggio hanno ovviato in maniera impeccabile, servendosi di diversi e geniali espedienti. Dunque, forte di una inusuale fedeltà linguistica, “L’isola dei cani” si propone allo spettatore come un film estremamente realistico, che racconta una storia solo parzialmente inventata e a cui abbiamo già assistito più volte nel corso della storia, seppur con dinamiche differenti.
La situazione dei cani, presi e deportati su un’isola abbandonata, costretti a vivere nella sporcizia e nella miseria la loro quarantena voluta dal governo giapponese, ricorda molto da vicino quella degli ebrei al tempo dell’olocausto; mentre Kobayashi assume le fattezze di un contemporaneo dittatore, che si serve dell’arma del terrore per fare proseliti e imporsi alla guida della città di Megasaki. L’unica differenza è che, ne “L’isola dei cani”, strumenti tanto subdoli come le camere a gas non esistono e gli animali possono vivere, o forse sarebbe meglio dire sopravvivere, in totale libertà. Il peggio che si vedono costretti a subire, oltre al confino forzato, sono le privazioni: della compagnia umana, del cibo definibile tale e dell’acqua pulita. Completamente abbandonati al proprio destino, i cani, anche quelli abituati alla comoda vita domestica, sono infatti obbligati a vivere da randagi e procacciarsi il cibo servendosi della spazzatura trasportata periodicamente sull’isola dagli uomini. In un certo qual senso, quindi, il film, pur dipingendo un quadro terribile, molto simile ad altri già visti in passato – sia quello più recente che quello più remoto –, vuole anche essere un grande inno alla vita. Il messaggio è che, anche quando la situazione è disperata, bisogna combattere e difendere con le unghie il dono più prezioso che ci è stato affidato, evidentemente da un’entità superiore e primigenia.
Infine, uno dei grandi punti di forza del film sono, senza ombra di dubbio, i personaggi, in particolar modo il piccolo Atari e i cinque cani che lo aiutano nella ricerca di Spots. Anzi, ancor più dei protagonisti stessi, mi sono piaciute le loro interazioni, spesso simpatiche e divertenti, seppur non banali, e in altri casi molto profonde e significative. In tal senso, ritengo che il cambiamento di Chief, occorso in seguito al suo incontro con Atari, rappresenti uno dei momenti più alti e appaganti dell’intera pellicola, che vi esorto assolutamente a vedere.
“L'isola dei cani” – il cui titolo originale è “Isle of Dogs” – è un film d'animazione stop-motion per adulti del 2018 scritto, diretto, co-ideato e co-prodotto da Wes Anderson. Nel 2019, la pellicola ha ottenuto la candidatura al miglior film d’animazione e alla miglior colonna sonora, sia agli Oscar che ai Golden Globe.
Nel futuro 2038, un'epidemia di "influenza canina" colpisce tutti i cani del Giappone. Per evitare che la pestilenza muti e attacchi anche gli umani, l'autoritario sindaco della città di Megasaki, Kobayashi, firma un decreto che bandisce tutti i cani, ponendoli in quarantena su un'isola di rifiuti, nonostante il professor Watanabe, capo del Partito della Scienza, affermi di essere vicino a creare un antidoto. Il primo cane ad essere pubblicamente trasferito sull'isola è Spots, il fidato amico e “guardia del corpo” di Atari Kobayashi, l’orfano nipote adottivo del sindaco. Sei mesi più tardi, Atari ruba un piccolo aeroplano per raggiungere l'Isola dei cani, nella speranza di ritrovare Spots. Dopo essere precipitato, il giovane ragazzo incontra cinque cani: Rex, Duke, King, Boss, e il loro capo, Chief, uno scontroso randagio. I cani accettano di aiutare il ragazzo a trovare Spots, nonostante Chief si rifiuti categoricamente di stringere rapporti con gli umani. Ha inizio così un lungo viaggio d’avventura e speranza, rigorosamente suddiviso in capitoli, che hanno il merito di rendere la visione del film incredibilmente scorrevole.
Ciò che colpisce immediatamente della pellicola è la sua peculiare resa grafica. Da questo punto di vista, “L’isola dei cani”, film nato dalla collaborazione tra Stati Uniti d’America e Germania – questi i nomi delle case di produzione: American Empirical Pictures, Indian Paintbrush e Studio Babelsberg –, non assomiglia a nessun’opera d’animazione, orientale o occidentale, di cui io abbia preso visione negli ultimi anni. Il lungometraggio si propone fondamentalmente come una via di mezzo tra il 2D e il 3D, insomma, una sorta di 2.5D realizzato interamente, o quasi, in computer grafica. Un’altra particolarità che ho trovato davvero inusuale ma piacevole è la scelta di doppiare la pellicola in due diverse lingue: il giapponese e l’inglese (o italiano, dipende dal paese di nascita dello spettatore). Per ragioni stilistiche, gli autori del film hanno deciso di lasciare non tradotte le conversazioni e i dialoghi in lingua giapponese, che mancano anche del supporto dei sottotitoli. Nella nota allo spettatore si può, infatti, leggere: “In questa storia gli umani parlano solo nella loro lingua madre”. Una scelta quanto mai bizzarra e che credevo avrebbe portato a problemi di comprensione, a cui, invece, gli ideatori del lungometraggio hanno ovviato in maniera impeccabile, servendosi di diversi e geniali espedienti. Dunque, forte di una inusuale fedeltà linguistica, “L’isola dei cani” si propone allo spettatore come un film estremamente realistico, che racconta una storia solo parzialmente inventata e a cui abbiamo già assistito più volte nel corso della storia, seppur con dinamiche differenti.
La situazione dei cani, presi e deportati su un’isola abbandonata, costretti a vivere nella sporcizia e nella miseria la loro quarantena voluta dal governo giapponese, ricorda molto da vicino quella degli ebrei al tempo dell’olocausto; mentre Kobayashi assume le fattezze di un contemporaneo dittatore, che si serve dell’arma del terrore per fare proseliti e imporsi alla guida della città di Megasaki. L’unica differenza è che, ne “L’isola dei cani”, strumenti tanto subdoli come le camere a gas non esistono e gli animali possono vivere, o forse sarebbe meglio dire sopravvivere, in totale libertà. Il peggio che si vedono costretti a subire, oltre al confino forzato, sono le privazioni: della compagnia umana, del cibo definibile tale e dell’acqua pulita. Completamente abbandonati al proprio destino, i cani, anche quelli abituati alla comoda vita domestica, sono infatti obbligati a vivere da randagi e procacciarsi il cibo servendosi della spazzatura trasportata periodicamente sull’isola dagli uomini. In un certo qual senso, quindi, il film, pur dipingendo un quadro terribile, molto simile ad altri già visti in passato – sia quello più recente che quello più remoto –, vuole anche essere un grande inno alla vita. Il messaggio è che, anche quando la situazione è disperata, bisogna combattere e difendere con le unghie il dono più prezioso che ci è stato affidato, evidentemente da un’entità superiore e primigenia.
Infine, uno dei grandi punti di forza del film sono, senza ombra di dubbio, i personaggi, in particolar modo il piccolo Atari e i cinque cani che lo aiutano nella ricerca di Spots. Anzi, ancor più dei protagonisti stessi, mi sono piaciute le loro interazioni, spesso simpatiche e divertenti, seppur non banali, e in altri casi molto profonde e significative. In tal senso, ritengo che il cambiamento di Chief, occorso in seguito al suo incontro con Atari, rappresenti uno dei momenti più alti e appaganti dell’intera pellicola, che vi esorto assolutamente a vedere.