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“Prima di venire sottomesso dai giganti… dicono che il genere umano abbia continuato a far guerre per differenze razziali o per idee diverse. Un giorno qualcuno chiese qualcosa. Chiese se gli esseri umani avrebbero smesso di combattere tra di loro nel caso fosse apparso un nemico più potente degli stessi uomini”.

L’umanità è stata decimata dai giganti, i pochi superstiti vivono rinchiusi all’interno di città protette da enormi mura concentriche, alte cinquanta metri, che da oltre cento anni garantiscono loro una fragile pace. Le tre mura – Maria, Rose e Sina – non sono solo strutture fisiche, ma rappresentano la divisione sociale e la protezione dall’ignoto. Ogni muro delimita uno strato della società, con i più poveri all’esterno e l’élite all’interno.
Eren, Mikasa e Armin, tre giovani amici, sognano la libertà oltre le mura. La loro tranquillità viene infranta quando, all’improvviso, il Gigante Colossale appare e abbatte il Wall Maria — la barriera più esterna — aprendo una breccia che consente ai giganti di invadere Shiganshina, la loro città natale.

«Quel giorno l'umanità ricordò... il terrore di essere controllata da loro... l'umiliazione di vivere come uccelli in gabbia...»

L’incipit ideato da Hajime Isayama è una delle aperture più potenti e impattanti mai uscite da un manga. Eppure, quando presentò il suo one-shot Jinrui VS Kyojin (Umanità vs Giganti) alla rivista Weekly Shōnen Jump, la Shueisha si rifiutò di pubblicarlo dopo che l’autore declinò le richieste di modifiche e censure. A credere nel progetto fu invece la Kōdansha, che colse l’occasione per inaugurare una nuova rivista: Bessatsu Shōnen Magazine. Fu lì che “L’attacco dei Giganti” vide la luce, rimanendo in pubblicazione per undici anni e diventando un fenomeno pop mondiale.

Nonostante un plot originale, per certi versi mai visto prima, capace di dare vita a un vero e proprio sottogenere “escape” nel mondo dei manga — al quale si ispirano opere come “The Promised Neverland” e “Made in Abyss” — “L’attacco dei Giganti”attinge consapevolmente dai grandi classici del passato. Le principali influenze arrivano dall’immaginario mecha, e non solo sul piano estetico. L’evoluzione della trama, che da survival horror si trasforma in un intricato mystery a sfondo fantapolitico, assume pieghe che richiamano “Neon Genesis Evangelion”, mentre la critica alla guerra e alcuni sottotesti ideologici rimandano chiaramente a “Gundam”.
Da “Fullmetal Alchemist” Isayama eredita il melting pot visivo ed il gusto per un worldbuilding solido e ricco, popolato da dilemmi morali legati al potere e da un intreccio capace di fondere azione, filosofia e tragedia umana — qui portata ai massimi storici del target.
Si colgono echi di “Code Geass” per la definizione psicologica dei personaggi: figure granitiche, spesso tormentate e in conflitto con sé stesse, animate da motivazioni profonde.
Ma l’autore volge lo sguardo anche all’Occidente: oltre ai robottoni, per la realizzazione dei giganti si ispira alle creature lovecraftiane di The Mist, come suggerisce il vapore caldo rilasciato dai Titani, che rievoca quel terrore in dissolvenza tipico dell’opera di Stephen King.
Dalle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco (Game of Thrones) mutua invece la gestione spietata della morte come leva narrativa, la costruzione di un mondo cinico e il continuo, destabilizzante ribaltamento delle aspettative.

“Coloro che non riescono a gettare via ciò che gli è più caro… non saranno mai in grado di cambiare niente”

In un roster di personaggi immenso, ricco anche di figure femminili di grande rilievo, alcuni raggiungono vette liriche che evocano l’intensità dell’alta letteratura — come il caporal maggiore Rivaille, che, ormai menomato ed esausto, con il volto rigato dalle lacrime, stringe ciò che resta della sua mano al petto nel silenzioso saluto agli amici caduti in battaglia.
Altri, invece, finiscono un po’ vittime di espedienti narrativi ripetuti, come i flashback tragici legati a famiglie sterminate: un elemento inizialmente potente, che però perde efficacia col progredire della narrazione. Tuttavia, nonostante le inevitabili cadute in certe dinamiche narrative, ogni personaggio riesce a ritagliarsi un proprio ruolo significativo. L’opera, infatti, mostra il lato umano della guerra attraverso una vasta gamma di esperienze e psicologie, dando vita a riflessioni profonde sui ruoli che ciascuno gioca all’interno della società e sull’importanza delle scelte che definiscono il destino, sia individuale che collettivo.

Uno degli elementi più distintivi de “L’attacco dei Giganti” è la sua evoluzione tematica, che cresce di pari passo con i protagonisti. Ciò che inizia come una lotta disperata per la sopravvivenza contro un nemico mostruoso si trasforma gradualmente in una riflessione profonda su temi come razzismo, identità, libero arbitrio, propaganda, memoria e ciclicità della violenza. Bambini che discriminano altri bambini semplicemente perché si trovano dall’altra parte delle mura, perché così è stato loro insegnato, sono un chiaro esempio di come l’odio possa essere radicato e trasmesso senza alcuna ragione apparente. La fascia al braccio dei maledetti di Ymir, ornata da una stella a sei punte che richiama tragicamente quella ebraica, diventa il simbolo dell’oppressione di un sistema che alza mura ideologiche, portandoci a concludere che, più dei giganti stessi, il vero nemico è la natura umana.
Isayama non ha mai avuto paura di spiazzare il lettore: i colpi di scena, seppur non sempre calcolati, sono il tratto distintivo di una narrazione che scardina le certezze e ribalta continuamente i ruoli di vittima e carnefice.
Eren stesso, da simbolo di rabbia giovanile e desiderio di libertà, evolve in modo sorprendente fino a diventare un protagonista moralmente ambiguo, specchio tragico di un mondo in cui non esistono verità assolute. L’opera abbandona progressivamente ogni manicheismo, lasciando spazio a una complessità politica e filosofica che sfida le aspettative del lettore fino all’ultima pagina.

Non mancano ingenuità narrative e incongruenze strutturali, che talvolta indeboliscono la coesione complessiva e rendono difficile giustificare alcuni snodi all’interno del quadro generale.
A lettura conclusa, certi elementi risultano dissonanti, mentre alcune sequenze restano volutamente sfocate, lasciando spazio a un’ambiguità che potrebbe non soddisfare pienamente tutti i lettori. Come dichiarato dallo stesso Isayama, l’idea del finale si è evoluta nel tempo, adattandosi a un processo creativo fortemente condizionato dalla serializzazione. Valutare un manga richiede infatti criteri differenti rispetto ad altri media: a differenza di un romanzo, che nasce come opera compiuta, i manga prendono forma capitolo dopo capitolo, pubblicati spesso con cadenza settimanale o mensile prima ancora che la trama sia completamente delineata.
Questo metodo di lavoro permette una flessibilità narrativa preziosa — si possono ascoltare i lettori, calibrare il ritmo, approfondire personaggi inattesi — ma espone anche gli autori a pressioni editoriali che rischiano di snaturare l’opera, prolungandola oltre il necessario o forzandola a concludersi in anticipo. Da qui derivano frequenti retcon, buchi di trama o incoerenze, come nel caso del Gigante Colossale che inizialmente scompare nel nulla: l’idea del residuo scheletrico dei giganti è infatti un’aggiunta successiva, introdotta per arricchire la strategia delle battaglie. Per questo motivo, più che approcciarsi ai manga con uno sguardo rigidamente analitico, in alcuni casi è preferibile lasciarsi trasportare dalla carica emotiva del racconto: è così che la loro essenza riesce a manifestarsi nella forma più autentica, penetrando davvero nel lettore.

La regia delle tavole, incalzante e cinematografica, supportata dai colpi di scena — alcuni dall’impatto devastante, soprattutto nella prima metà dell’opera — mantiene costantemente alto il coinvolgimento del pubblico, nonostante la lunghezza del racconto. Isayama costruisce la tensione con maestria, alternando silenzi carichi di presagio a esplosioni improvvise di violenza e rivelazioni, rendendo ogni capitolo una sfumatura imprevedibile nel caleidoscopio di un disegno narrativo in continua evoluzione. Tuttavia, alcuni salti temporali non sempre ben definiti, ed un adattamento italiano che non riesce a rendere piena giustizia alla profondità lirica dell’originale, possono creare qualche momento di confusione.

Il tratto di Hajime Isayama è immediatamente riconoscibile per la sua cruda espressività e per l’approccio non convenzionale al disegno. Fin dai primi capitoli, la sua arte si distingue per linee grezze, prospettive imperfette e una certa asimmetria, elementi che trasmettono un senso costante di inquietudine e tensione visiva. L’evoluzione del suo stile nel corso della serie mostra un affinamento tecnico, con miglioramenti riscontrabili specialmente nelle sequenze d’azione. Tuttavia, l’autore ha sempre mantenuto la sua impronta distintiva, evitando di aderire agli standard estetici più raffinati e al contempo anonimi tipici di altri mangaka.
L’impatto visivo dei giganti è centrale: enormi, nudi, deformi, con espressioni vacue e movimenti innaturali, incarnano l’incubo del “mostro umano”. L’assenza di connotazioni sessuali, i volti scarnificati e i sorrisi disturbanti evocano suggestioni da body horror e un senso di straniamento quasi kafkiano.
L’ambientazione, sospesa tra Europa ottocentesca e tecnologia steampunk, ibridata a una mitologia originale che rielabora suggestioni bibliche, contribuisce a creare uno degli immaginari più cupi e riconoscibili degli ultimi anni: un dedalo opprimente di segreti e simboli, celati dietro spesse mura, dove ogni pietra sembra custodire una colpa.

In un panorama narrativo saturo di formule ripetitive e archetipi consolidati, “L’attacco dei Giganti” si impone come un’opera irripetibile destinata a lasciare un’eredità importante. Crudo, ambizioso e spietatamente onesto, il manga di Hajime Isayama non si limita a intrattenere: interroga, destabilizza, costringe a scegliere una posizione in un mondo dove il bene e il male si confondono. Il mondo non cambia, il ciclo si ripete, le guerre si susseguono in una danza di morte senza fine, eppure noi, come Armin, restiamo con quella speranza incastonata negli occhi — il desiderio di vedere il mare oltre le mura, quel mare sconosciuto che le leggende descrivono come una distesa di acqua salata che si estende fino all’orizzonte, tanto salata da poter arricchire tutti i mercanti del mondo. Un’immagine semplice, eppure potentissima, che racchiude il bisogno umano di credere in qualcosa oltre i confini del visibile.
Shingeki no Kyojin è un racconto epico e tragico sulla libertà, sul potere e sulla memoria, ma soprattutto una riflessione lucidissima sull’umanità quando viene messa alle strette. Un’opera moderna, capace di distogliere lo sguardo dall’apocalisse per posarlo su una sciarpa: simbolo silenzioso di ciò che resta mentre il mondo crolla.
È così che l’apocalittico diventa intimo: in quella sciarpa, stretta tra le mani di Mikasa, si concentrano l’amore, la perdita, il ricordo — e la domanda, silenziosa e profonda, su cosa significhi davvero essere liberi.
E se la libertà fosse soltanto una prigione un po’ più grande?
“L’attacco dei giganti” non ci lascia semplicemente con un finale, ma con una ferita aperta che continua a sanguinare — e a parlarci — ben oltre l’ultima pagina.