ATTENZIONE! Questa recensione contiene spoiler per chi non ha ancora visto la serie. 


"Non siamo cavalli. Siamo esseri umani. Gli esseri umani sono…"

Questa frase spezzata e incompleta, pronunciata da Gi-hun Seong come ultima battuta nel toccante finale della terza e ultima stagione di Squid Game, ha sorpreso e spiazzato milioni di spettatori, lasciandoli a riflettere sul vero significato che essa poteva avere. Perché non ha mai terminato quelle parole? Cosa voleva davvero comunicare? Quanto del vero significato della serie si cela dietro quelle parole?
 

 

Nella terza e ultima stagione di Squid Game, ritroviamo Gi-hun (Lee Jung-jae) dopo che ha perso il suo miglior amico nel gioco ed è stato portato alla completa disperazione dal Front Man (Lee Byung-hun), che ha nascosto la sua vera identità per infiltrarsi nel gioco. Gi-hun non demorde nel suo obiettivo di porre fine ai giochi, mentre il Front Man prosegue con la sua prossima mossa e le scelte dei giocatori sopravvissuti causano gravi conseguenze a ogni round. 
Sinossi Ufficiale di Netfix


Dall’esplosione del fenomeno mondiale con la prima stagione e l’intensa prosecuzione nella seconda, Squid Game si è sempre concentrata su un’unica grande questione: fino a che punto l’essere umano può perdere la propria umanità di fronte alla disperazione e al desiderio di sopravvivere, e quanto la propria avidità possa spingerlo a rinnegare quelli che sembrerebbero essere i più basilari aspetti della civiltà.

Nella seconda stagione (QUI la nostra recensione), abbiamo visto Gi-hun diventare un rivoluzionario, un uomo che sfida l’intero sistema criminale dietro il gioco mortale, pronto a tutto per smantellarlo. Ora, nell’atto conclusivo della trilogia, la posta in gioco si fa ancora più alta, e la brutalità, la disumanizzazione e il cinismo arrivano a livelli estremi.

Nel terzo capitolo, la rivoluzione fallisce e i sopravvissuti – sessanta partecipanti – riprendono il loro infernale percorso infernale verso un premio sempre più cospicuo ma anche sanguinoso, con una violenza costante e sempre crescente. I giochi sono molto più brutali, creando ancora di più nello spettatore quel disagio creato dal forte contrasto di essere basati su semplicissimi passatempi dell’infanzia come nascondino, il salto della corda e il gioco della torre. 


Gi-hun, quasi muto per il trauma della battaglia persa, deve affrontare una sfida che trascende la competizione in atto: salvare la neonata cui è toccato lo sfortunato fato di nascere proprio durante i giochi e che per capriccio (dei VIP) e vile calcolo del Front Man, diventa parte attiva divenendo alla fine, per ironia del destino, l’ultimo “avversario” rimasto in gara.
Eppure lo stesso Front Man, rivelatosi essere In-ho, il fratello del poliziotto sacrificatosi nelle stagioni precedenti, lo aveva invitato a scegliere la via più semplice: uccidere gli altri e tenere il montepremi (oltre che salvare la propria pelle e quella della neonata). Ma Gi-hun non è disposto a rinunciare alla sua umanità e alla fine decide di sacrificarsi per salvare la neonata, un gesto che ribalta la crudele logica del gioco.

La metafora dei concorrenti come “cavalli da corsa” per i VIP, gli spettatori benestanti che scommettono sulla loro vita, è un filo rosso che attraversa tutte le stagioni. Gi-hun stesso, giocatore d’azzardo alle corse, si rende conto di essere diventato lui stesso un cavallo, un oggetto da sfruttare e manipolare. Ed ecco che la sua frase finale unisce come in un filo rosso tutta la serie come tutte le persone morte nel tentativo di ergersi da un futuro già scritto,  e vuole essere una denuncia e un appello: «Non siamo cavalli, siamo esseri umani». Ma cosa significa davvero essere umani, quando intorno a te vedi che anche le azioni più brutali sembrano inevitabili?

Il creatore Dong-hyuk Hwang ha spiegato che la frase è rimasta incompleta proprio perché l’umanità non può essere racchiusa in una definizione semplice. Sono le azioni di Gi-hun, soprattutto il sacrificio finale, a parlare, lasciando il segno più delle parole: un invito a non perdere la speranza e a cercare di costruire un mondo migliore, anche quando tutto sembra perduto. Anche se questo significa apparentemente perdere tutto!

Rispetto alla seconda stagione, la terza perde parte della suspense e dell’effetto sorpresa, ma guadagna in intensità drammatica. La violenza si fa più spietata, la satira sociale si attenua, e il gioco si trasforma definitivamente in un campo di battaglia dominato da tradimenti e disperazione. Alcuni nuovi personaggi, come l’ex agente nordcoreano Kang No-eul, riescono a portare sullo schermo momenti di umanità e complessità che nella seconda stagione erano rimasti in secondo piano. Altri, invece, risultano sottoutilizzati dalla sceneggiatura e liquidati troppo in fretta, soprattutto nel modo in cui vengono fatti uscire di scena.



 

Nonostante la durata generosa degli episodi – che spesso sfiora l’ora – il tempo per sviluppare meglio certe dinamiche c’era tutto. Eppure, in diversi momenti la narrazione rallenta e rischia di far perdere tensione, con lo spettatore che finisce per contare i minuti in attesa del prossimo gioco.

Un esempio lampante di quanto detto è rappresentato dalle votazioni per decidere se proseguire o meno nei giochi — un meccanismo democratico imposto ai partecipanti — che finiscono per apparire come una pantomima inutile, sottraendo tempo prezioso alle sfide stesse, rendendo la narrazione più dispersiva rispetto all’impatto concentrato e diretto della prima stagione.

Tuttavia, tutto viene riscattato da un finale di sacrificio ben costruito, che rompe con le regole fin troppo buoniste tipiche di molte serie streaming contemporanee. Lo fa però fino a un certo punto, perché Squid Game ormai è un marchio consolidato che fa visualizzazioni e guadagni.
La stagione finale ha totalizzato la impressionante cifra di 60,1 milioni di visualizzazioni in appena 72 ore, raggiungendo il primo posto tra le serie più viste in ognuno dei 93 Paesi in cui il servizio è disponibile. Capirete bene che un tale successo non può certo concludersi qui.

Non sorprende quindi più di tanto (anche se non lascia indifferenti) la presenza di Cate Blanchett nell’ultima scena: la celebre attrice compare come reclutatrice di una versione americana del gioco, suggerendo un possibile spin-off made in USA, probabilmente sotto la direzione di David Fincher. È un chiaro segnale che il fenomeno Squid Game è destinato a espandersi ulteriormente anche se il suo creatore 
Hwang Dong-hyuk nega di aver creato questo finale pensando a un continuo.

In conclusione, questa terza stagione di Squid Game chiude un percorso narrativo ambizioso, in cui la lotta per la sopravvivenza si fa metafora di un conflitto esistenziale più profondo: quello di preservare la propria umanità in un mondo che sembra volerla annientare. Pur perdendo la componente di sorpresa che aveva mantenuto vivo il "sense of wonder" negli spettatori, a guadagnarci è la componente thriller, che diventa predominante nella serie, forse più dei giochi stessi, i quali assumono il ruolo di strumenti propedeutici alla storia anziché di protagonisti principali dello spettacolo.
Squid Game, insomma, nonostante alcuni alti e bassi nella sceneggiatura, nonostante il business e il successo mondiale lo abbiano inevitabilmente condizionato nel corso delle tre stagioni, riesce comunque a trasmettere un messaggio forte: non è più solo un survival horror, ma un grido di dolore e speranza, incompleto come quella frase finale che forse solo noi spettatori possiamo provare a completare.