Nuovo appuntamento con la rubrica dedicata alle recensioni su drama e live action, realizzate degli utenti di AnimeClick.it.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
Se volete farne parte anche voi... rimboccatevi le maniche e recensite!
Ricordiamo che questa rubrica non vuole essere un modo per giudicare in maniera perentoria i titoli in esame, ma un semplice contesto in cui proporre delle analisi che forniscano, indipendentemente dal loro voto finale, spunti interessanti per la nascita di discussioni, si auspica, costruttive per l'utenza.
Per saperne di più continuate a leggere.
Squid Game Season 2
8.0/10
Squid Game è sicuramente un drama che non ha bisogno di presentazioni visto il successo mondiale. Ma facciamo un passo indietro e ricordiamo dove eravamo rimasti.
Nel finale della prima stagione, Gi-hun -con un’improbabile colore di capelli rosso acceso che, come dichiara il regista Hwang Dong-hyuk, è stato inspirato da Hanamichi Sakuragi, protagonista di Slam Dunk- è all’aeroporto in procinto di partire per andare a far visita a sua figlia.
Però qualcosa lo blocca: dall’altra parte dell’aeroporto vede lo stesso uomo misterioso, che lo ha reclutato in passato come giocatore, che sta sfidando nuovamente un passante a ddakji (il gioco con la carta ripiegata di colore rosso o blu) e decide di tornare indietro.
Ed è proprio così che si apre la seconda stagione, con un Gi-hun che non si è arreso e continua a cercare questo uomo misterioso che gioca a ddakji. Il suo intento? Tornare nell’isola e, una volta al suo interno, fermare il gioco.
Inutile dire che il protagonista riuscirà ad essere nuovamente un giocatore, sempre con il suo numero 456.
Qui incontra nuovi e interessanti giocatori, persone disperate che farebbero di tutto per riuscire a cambiare la situazione economica delle loro vite.
Se nella prima stagione, tuttavia, avevamo personaggi che potevano rispecchiare condizioni più generali, come ad esempio l’extra-comunitario che lavorava in nero o chi aveva perso tutto per scelte finanziarie sbagliate, in questa stagione ci vengono presentati dei giocatori che sono strettamente legati alla società coreana, come se il regista stesso volesse denunciare gli aspetti negativi del suo Paese.
Infatti, oltre a una variegata rappresentazione di diverse generazioni date, per esempio, dalla ragazza-madre incinta che sta rischiando il tutto per tutto per donare un futuro al nascituro, e dalla vecchia madre che scopre che anche suo figlio ha accettato di giocare per poter ripagare i loro debiti, vengono presentati Myung-gi (n. 333), Thanos (n. 230) e Hyun-ju (n. 120).
Myung-gi è un YouTuber che elargisce consigli riguardo a investimenti e criptovalute: una figura che, forse, a noi sembrerà un po’ strana, ma è largamente diffusa in Corea del Sud, dove in molti ascoltano vari YouTuber per i propri investimenti finanziari. Ovviamente le stime del numero 333 non erano molto appurate, altrimenti non sarebbe diventato un giocatore; anzi, nel gruppo ci sono persone che hanno seguito, con insuccesso, i suoi suggerimenti e che vorrebbero fargliela pagare.
Thanos è una delle figure più chiacchierate di questa seconda stagione: ormai tutti sappiamo che l’attore stesso che lo ha interpretato, T.O.P., ha avuto una storia molto simile a quella presentata dal suo personaggio.
T.O.P., pseudonimo di Choi Seung-hyun, era il rapper di uno dei gruppi più famosi in Corea (e non solo), ovvero i "Big Bang". Dopo essere stato accusato di uso di sostanze stupefacenti, si era allontanato dai riflettori, almeno fino a Squid Game.
Thanos ha una storia simile: è un rapper che si è sciupato con la droga, tanto da dimenticarsi sul palco il testo di una sua canzone.
Un personaggio di cui, invece, non si è sentito parlare abbastanza è quello di Hyun-ju, transgender ed ex soldato delle forze speciali.
Premetto che sono rimasta colpita fin da subito dalla duttilità dell’attore che interpreta la numero 120, ovvero Park Sung-hoon, già conosciuto su Netflix per il ruolo di Jeon Jae-jun, infame antagonista nel drama The Glory.
Ma ciò che mi è rimasto più impresso è il fatto che anche la storia di Hyun-ju sembra ispirata da fatti di cronaca: nel 2020, Byun Hui-su, arruolata come uomo, si sottopose all’intervento di riassegnazione di genere; lei avrebbe voluto continuare la sua carriera militare, ma fu costretta a lasciare l’esercito portandola a compiere un gesto estremo.
Hyun-ju finisce sull’isola perché ha bisogno di fondi per completare la sua transizione; in più di un’occasione si dimostra più “uomo” e più coraggiosa di molti giocatori, come ad esempio del numero 388 che si vanta di far parte dei Marines. Si rivela anche la più empatica: è, infatti, l’unica che aiuta il nostro protagonista a finire il gioco Un, due, tre… Stella! proprio come aveva fatto Ali nella prima stagione. È nuovamente una minoranza sociale a salvare Gi-hun.
I parallelismi con la serie originale non finiscono qui, anche l’impostazione è più o meno la stessa, anche se in questa stagione sembra avere un’impronta più cruda.
I primi episodi sono sempre conoscitivi: viene presentata una società ben lontana dalla sfavillante Corea che siamo soliti vedere nei drama, con persone che vivono ai margini della società e il cui desiderio di guadagnare annebbia completamente il loro pensiero.
Se nella parte iniziale della prima stagione, però, i personaggi facevano avanti e indietro dall’isola, con un ritmo incalzante che aumentava sempre più la tensione, la seconda stagione ci presenta prima il mondo esterno per poi, solo successivamente, spostarsi nell’area di gioco con le sue scale colorate e le sue stanze bambinesche in cui si disputano giochi mortali.
Anche in questo nuovo round di giochi bisogna avere un occhio di riguardo per il giocatore 001: ormai sappiamo che dobbiamo diffidare di questo numero! Interpretato da Lee Byung-hun, mi ha fatto piacere vedere che questo attore abbia potuto dimostrare al mondo la sua bravura e versatilità, anche se mi dispiace che sia servito Squid Game per farlo conoscere a più spettatori possibili, considerando la mole di progetti a cui ha lavorato (molti suoi film, tra l’altro, sono arrivati anche doppiati in italiano anni fa).
L’ordine dei giochi sembra essere simile. In entrambe le stagioni si parte con Un, due, tre… Stella!
Si continua con un gioco di squadra, dove la collaborazione è importante: nella prima stagione (dopo i dalgona per la precisione) abbiamo il tiro alla fune, mentre nella seconda abbiamo il Pentathlon con cinque giochi coreani tipici dell’infanzia.
Seguono due giochi che vanno a scardinare l’idea di squadra che si è formata con il gioco precedente, lasciando inevitabilmente indietro qualcuno: le biglie e il corrispettivo del nostro Girotondo.
Quest’ultimo ci regala un’altra canzoncina che ci resterà in testa per giorni! Se dopo la visione della prima stagione continuavamo a ripetere Mugunghwa kkochi kkochi pideon nal (molto probabilmente pronunciandolo male), dopo aver visto il gioco del Mingle, canteremo per settimane Dunggeulge Dunggeulge (anche questo probabilmente pronunciandolo male).
Una differenza sostanziale fra le due serie, però, è evidente: nella seconda stagione ci viene presentata Kang No-eul, ex soldatessa nord coreana. Lei non è una giocatrice, bensì una guardia. Scopriamo, così, che anche dietro alle maschere e alle tute rosa ci sono persone che possono avere difficoltà economiche e che accettano questo ingaggio per svariati motivi. Lei si ritroverà nell’isola, faccia a faccia con una persona che lavorava nel suo stesso parco divertimenti: lui indosserà la tuta del giocatore numero 246, lei sarà la guardia 011.
Il personaggio, invece, che in questa stagione mi è piaciuto meno, è proprio quello a cui mi ero appassionata nella prima: il detective Hwang Jun-ho. Caratterizzato precedentemente da intuito e iniziativa, soprattutto nelle ultime puntate qui è apparso sottotono, non riuscendo a leggere situazioni che per lo spettatore risultano ovvie.
Nonostante questo, Squid Game 2 risulta essere un buon drama che riesce a mantenere la giusta dose di tensione fino alla fine.
Il regista Hwang Dong-hyuk, in questa seconda parte della storia, si concentra meno sui giochi all’interno dell’isola, ma ci regala una rappresentazione della società capitalista molto chiara: la competizione si fa sempre più grande e il divario fra ricchezza e povertà non diminuisce, anche perché i ricchi non vogliono che diminuisca, dopotutto, questo divario per loro risulta alquanto comodo.
Lui non dà risposte, non è il suo intento e lo ha sottolineato più volte. Vuole solamente rappresentare la società e spingere il pubblico a domandarsi se questo è proprio quello che vogliamo.
Ma forse un piccolo messaggio ce lo ha lanciato: Gi-hun continua ad affrontare i giochi a modo suo, aiutando il prossimo e avendo fiducia nelle persone.
Nel finale della prima stagione, Gi-hun -con un’improbabile colore di capelli rosso acceso che, come dichiara il regista Hwang Dong-hyuk, è stato inspirato da Hanamichi Sakuragi, protagonista di Slam Dunk- è all’aeroporto in procinto di partire per andare a far visita a sua figlia.
Però qualcosa lo blocca: dall’altra parte dell’aeroporto vede lo stesso uomo misterioso, che lo ha reclutato in passato come giocatore, che sta sfidando nuovamente un passante a ddakji (il gioco con la carta ripiegata di colore rosso o blu) e decide di tornare indietro.
Ed è proprio così che si apre la seconda stagione, con un Gi-hun che non si è arreso e continua a cercare questo uomo misterioso che gioca a ddakji. Il suo intento? Tornare nell’isola e, una volta al suo interno, fermare il gioco.
Inutile dire che il protagonista riuscirà ad essere nuovamente un giocatore, sempre con il suo numero 456.
Qui incontra nuovi e interessanti giocatori, persone disperate che farebbero di tutto per riuscire a cambiare la situazione economica delle loro vite.
Se nella prima stagione, tuttavia, avevamo personaggi che potevano rispecchiare condizioni più generali, come ad esempio l’extra-comunitario che lavorava in nero o chi aveva perso tutto per scelte finanziarie sbagliate, in questa stagione ci vengono presentati dei giocatori che sono strettamente legati alla società coreana, come se il regista stesso volesse denunciare gli aspetti negativi del suo Paese.
Infatti, oltre a una variegata rappresentazione di diverse generazioni date, per esempio, dalla ragazza-madre incinta che sta rischiando il tutto per tutto per donare un futuro al nascituro, e dalla vecchia madre che scopre che anche suo figlio ha accettato di giocare per poter ripagare i loro debiti, vengono presentati Myung-gi (n. 333), Thanos (n. 230) e Hyun-ju (n. 120).
Myung-gi è un YouTuber che elargisce consigli riguardo a investimenti e criptovalute: una figura che, forse, a noi sembrerà un po’ strana, ma è largamente diffusa in Corea del Sud, dove in molti ascoltano vari YouTuber per i propri investimenti finanziari. Ovviamente le stime del numero 333 non erano molto appurate, altrimenti non sarebbe diventato un giocatore; anzi, nel gruppo ci sono persone che hanno seguito, con insuccesso, i suoi suggerimenti e che vorrebbero fargliela pagare.
Thanos è una delle figure più chiacchierate di questa seconda stagione: ormai tutti sappiamo che l’attore stesso che lo ha interpretato, T.O.P., ha avuto una storia molto simile a quella presentata dal suo personaggio.
T.O.P., pseudonimo di Choi Seung-hyun, era il rapper di uno dei gruppi più famosi in Corea (e non solo), ovvero i "Big Bang". Dopo essere stato accusato di uso di sostanze stupefacenti, si era allontanato dai riflettori, almeno fino a Squid Game.
Thanos ha una storia simile: è un rapper che si è sciupato con la droga, tanto da dimenticarsi sul palco il testo di una sua canzone.
Un personaggio di cui, invece, non si è sentito parlare abbastanza è quello di Hyun-ju, transgender ed ex soldato delle forze speciali.
Premetto che sono rimasta colpita fin da subito dalla duttilità dell’attore che interpreta la numero 120, ovvero Park Sung-hoon, già conosciuto su Netflix per il ruolo di Jeon Jae-jun, infame antagonista nel drama The Glory.
Ma ciò che mi è rimasto più impresso è il fatto che anche la storia di Hyun-ju sembra ispirata da fatti di cronaca: nel 2020, Byun Hui-su, arruolata come uomo, si sottopose all’intervento di riassegnazione di genere; lei avrebbe voluto continuare la sua carriera militare, ma fu costretta a lasciare l’esercito portandola a compiere un gesto estremo.
Hyun-ju finisce sull’isola perché ha bisogno di fondi per completare la sua transizione; in più di un’occasione si dimostra più “uomo” e più coraggiosa di molti giocatori, come ad esempio del numero 388 che si vanta di far parte dei Marines. Si rivela anche la più empatica: è, infatti, l’unica che aiuta il nostro protagonista a finire il gioco Un, due, tre… Stella! proprio come aveva fatto Ali nella prima stagione. È nuovamente una minoranza sociale a salvare Gi-hun.
I parallelismi con la serie originale non finiscono qui, anche l’impostazione è più o meno la stessa, anche se in questa stagione sembra avere un’impronta più cruda.
I primi episodi sono sempre conoscitivi: viene presentata una società ben lontana dalla sfavillante Corea che siamo soliti vedere nei drama, con persone che vivono ai margini della società e il cui desiderio di guadagnare annebbia completamente il loro pensiero.
Se nella parte iniziale della prima stagione, però, i personaggi facevano avanti e indietro dall’isola, con un ritmo incalzante che aumentava sempre più la tensione, la seconda stagione ci presenta prima il mondo esterno per poi, solo successivamente, spostarsi nell’area di gioco con le sue scale colorate e le sue stanze bambinesche in cui si disputano giochi mortali.
Anche in questo nuovo round di giochi bisogna avere un occhio di riguardo per il giocatore 001: ormai sappiamo che dobbiamo diffidare di questo numero! Interpretato da Lee Byung-hun, mi ha fatto piacere vedere che questo attore abbia potuto dimostrare al mondo la sua bravura e versatilità, anche se mi dispiace che sia servito Squid Game per farlo conoscere a più spettatori possibili, considerando la mole di progetti a cui ha lavorato (molti suoi film, tra l’altro, sono arrivati anche doppiati in italiano anni fa).
L’ordine dei giochi sembra essere simile. In entrambe le stagioni si parte con Un, due, tre… Stella!
Si continua con un gioco di squadra, dove la collaborazione è importante: nella prima stagione (dopo i dalgona per la precisione) abbiamo il tiro alla fune, mentre nella seconda abbiamo il Pentathlon con cinque giochi coreani tipici dell’infanzia.
Seguono due giochi che vanno a scardinare l’idea di squadra che si è formata con il gioco precedente, lasciando inevitabilmente indietro qualcuno: le biglie e il corrispettivo del nostro Girotondo.
Quest’ultimo ci regala un’altra canzoncina che ci resterà in testa per giorni! Se dopo la visione della prima stagione continuavamo a ripetere Mugunghwa kkochi kkochi pideon nal (molto probabilmente pronunciandolo male), dopo aver visto il gioco del Mingle, canteremo per settimane Dunggeulge Dunggeulge (anche questo probabilmente pronunciandolo male).
Una differenza sostanziale fra le due serie, però, è evidente: nella seconda stagione ci viene presentata Kang No-eul, ex soldatessa nord coreana. Lei non è una giocatrice, bensì una guardia. Scopriamo, così, che anche dietro alle maschere e alle tute rosa ci sono persone che possono avere difficoltà economiche e che accettano questo ingaggio per svariati motivi. Lei si ritroverà nell’isola, faccia a faccia con una persona che lavorava nel suo stesso parco divertimenti: lui indosserà la tuta del giocatore numero 246, lei sarà la guardia 011.
Il personaggio, invece, che in questa stagione mi è piaciuto meno, è proprio quello a cui mi ero appassionata nella prima: il detective Hwang Jun-ho. Caratterizzato precedentemente da intuito e iniziativa, soprattutto nelle ultime puntate qui è apparso sottotono, non riuscendo a leggere situazioni che per lo spettatore risultano ovvie.
Nonostante questo, Squid Game 2 risulta essere un buon drama che riesce a mantenere la giusta dose di tensione fino alla fine.
Il regista Hwang Dong-hyuk, in questa seconda parte della storia, si concentra meno sui giochi all’interno dell’isola, ma ci regala una rappresentazione della società capitalista molto chiara: la competizione si fa sempre più grande e il divario fra ricchezza e povertà non diminuisce, anche perché i ricchi non vogliono che diminuisca, dopotutto, questo divario per loro risulta alquanto comodo.
Lui non dà risposte, non è il suo intento e lo ha sottolineato più volte. Vuole solamente rappresentare la società e spingere il pubblico a domandarsi se questo è proprio quello che vogliamo.
Ma forse un piccolo messaggio ce lo ha lanciato: Gi-hun continua ad affrontare i giochi a modo suo, aiutando il prossimo e avendo fiducia nelle persone.
Battle Royale - The Movie
7.0/10
In principio a suscitare scalpore fu il romanzo di Koushun Takami, seguito alla breve distanza di appena un anno da un manga e da questo film che fecero da vera e proprio cassa di risonanza a una storia che definire di "rottura" e politicamente scorretta risulta quanto meno riduttiva. In un futuro neanche troppo lontano la violenza giovanile è diventata ormai una piaga cui l'autorità designata non riesce più a tenere sotto controllo e non trovano niente di meglio che promulgare la "Millenium Educational Reform Act" che non è altro che l'estrazione a sorte di una classe delle superiori (nel manga addirittura delle medie) in modo da fare partecipare gli studenti a un'efferata lotta all'ultimo sangue da cui solo uno potrà uscirne vincitore. L'assurda essenza di questo incipit trasuda dai folli occhi della ragazza che appare all'inizio del film, prima sopravvissuta di questo delirio chiamato con il nome altisonante di Battle Royale.
Non era facile riprendere la cruda idea rivoluzionaria del romanzo e riproporla in maniera da fare recepire lo stesso messaggio anche allo spettatore in sala eppure il regista Kinji Fukasaku riuscì nell'impresa realizzando questa piccola chicca di celluloide che verrà infatti considerato con merito il suo miglior lavoro; perché "Battle Royale" è sì un rutilante susseguirsi di violenza e sangue senza i falsi perbenismi cui la cinematografia americana ci ha abituato, ma è soprattutto una critica per niente velata alla società nipponica, avida e competitiva dove ogni sentimento viene messo da parte in visione dell'obiettivo e in cui i giovani vengono immessi e irreggimentati attraverso un sistema scolastico che ne seleziona il futuro già in tenera età. Il grottesco dipinto che si vede nel finale, l'uno che vince sui tanti con ogni mezzo a sua disposizione, è la tragica allegoria di un Giappone (ma anche del capitalismo più selvaggio) che sta perdendo la sua stessa anima e che proprio dai giovani e dai loro 'innocenti' sentimenti deve ripartire.
Il film risente purtroppo di una non eccelsa recitazione da parte di parecchi giovani attori, rendendo ancora più evidente la bravura di Takeshi Kitano, nel ruolo del burattinaio sadico dello show, davvero più di una spanna su tutti; una menzione va però fatta anche per l'attrice Kou Shibasaki che, grazie alla sua arte della bella e sanguinaria Mitsuko Soma e per Chiaki Kuriyama, dopo essersi messa in mostra in questo film sarà chiamata da Quentin Tarantino per la parte della guardia del corpo in uniforme da marinaretta in Kill Bill 1.
La scure della censura, data la gran presenza di scene violente, ha ovviamente colpito con dovizia questo film dovunque sia riuscito ad arrivare (in Germania il caso più famoso), mentre in USA non è mai arrivato, troppo forte il perbenismo anglosassone ma anche troppo recente il massacro di Columbine per aprirgli il mercato a stelle e strisce; in Italia i diritti del film furono presi dalla defunta Shin Vision che ne diffuse una copia per il noleggio con un doppiaggio davvero imbarazzante ma che comunque servì a fare conoscere maggiormente questo film anche a seguito del gran successo raccolto dal manga anche nel nostro Paese.
Non era facile riprendere la cruda idea rivoluzionaria del romanzo e riproporla in maniera da fare recepire lo stesso messaggio anche allo spettatore in sala eppure il regista Kinji Fukasaku riuscì nell'impresa realizzando questa piccola chicca di celluloide che verrà infatti considerato con merito il suo miglior lavoro; perché "Battle Royale" è sì un rutilante susseguirsi di violenza e sangue senza i falsi perbenismi cui la cinematografia americana ci ha abituato, ma è soprattutto una critica per niente velata alla società nipponica, avida e competitiva dove ogni sentimento viene messo da parte in visione dell'obiettivo e in cui i giovani vengono immessi e irreggimentati attraverso un sistema scolastico che ne seleziona il futuro già in tenera età. Il grottesco dipinto che si vede nel finale, l'uno che vince sui tanti con ogni mezzo a sua disposizione, è la tragica allegoria di un Giappone (ma anche del capitalismo più selvaggio) che sta perdendo la sua stessa anima e che proprio dai giovani e dai loro 'innocenti' sentimenti deve ripartire.
Il film risente purtroppo di una non eccelsa recitazione da parte di parecchi giovani attori, rendendo ancora più evidente la bravura di Takeshi Kitano, nel ruolo del burattinaio sadico dello show, davvero più di una spanna su tutti; una menzione va però fatta anche per l'attrice Kou Shibasaki che, grazie alla sua arte della bella e sanguinaria Mitsuko Soma e per Chiaki Kuriyama, dopo essersi messa in mostra in questo film sarà chiamata da Quentin Tarantino per la parte della guardia del corpo in uniforme da marinaretta in Kill Bill 1.
La scure della censura, data la gran presenza di scene violente, ha ovviamente colpito con dovizia questo film dovunque sia riuscito ad arrivare (in Germania il caso più famoso), mentre in USA non è mai arrivato, troppo forte il perbenismo anglosassone ma anche troppo recente il massacro di Columbine per aprirgli il mercato a stelle e strisce; in Italia i diritti del film furono presi dalla defunta Shin Vision che ne diffuse una copia per il noleggio con un doppiaggio davvero imbarazzante ma che comunque servì a fare conoscere maggiormente questo film anche a seguito del gran successo raccolto dal manga anche nel nostro Paese.
The 8 Show
5.5/10
"The 8 Show" è una serie TV di soli 8 episodi che narra la curiosa e inquietante esperienza di 8 persone "invitate" a partecipare a un gioco dove devono scegliere una chiave numerata da 1 a 8, corrispondente al loro appartamento. La particolarità sta nel fatto che le stanze non sono tutte uguali: l'ottavo piano è il più prestigioso, il suo residente guadagna molto di più e può prendere decisioni che influiscono pesantemente sugli altri abitanti.
Senza rivelare troppo della trama, l'intera vicenda viene osservata dall'esterno ed è evidente come questa serie TV si proponga come una critica e una riflessione sulla società contemporanea. Il meccanismo e le regole che governano questa convivenza forzata sono singolari e intriganti, ma al contempo crudeli e spietate.
L'idea di partenza è brillante e ben congegnata. Il primo episodio, infatti, ha catturato la mia attenzione e stimolato il mio interesse. Tuttavia, con il progredire della serie, le situazioni e gli atteggiamenti dei personaggi risultano sempre più forzati e poco naturali, tanto da rendere difficile mantenere vivo l'interesse iniziale.
Sia la caratterizzazione dei personaggi sia le situazioni sono eccessivamente estremizzate, e questo si riflette sullo sviluppo degli eventi. Si respira un'aria di buonismo forzato, con i personaggi costantemente impegnati a mantenere le apparenze e a giustificare le azioni altrui, oltrepassando i limiti del buon senso. Questo rende accettabili comportamenti che, in una situazione reale, avrebbero probabilmente portato a conseguenze più immediate e drastiche. Se è vero che la premessa è già di per sé artificiosa, la caratterizzazione stereotipata dei personaggi rende il tutto ancora più innaturale e, dal mio punto di vista, fastidioso.
La serie presenta un'insolita combinazione di crudeltà e buonismo. Non mancano atti di cattiveria gratuita che, se da un lato rendono lo show più dinamico e forniscono materiale narrativo sufficiente a sostenere otto episodi, dall'altro risultano in continue forzature e comportamenti poco credibili. Devo ammettere che sono arrivato più volte vicino al drop.
Il finale, fortunatamente, è abbastanza soddisfacente, ma non posso fare a meno di considerare la serie come un'occasione sprecata, considerando l'ottimo spunto iniziale e il potenziale inespresso.
Senza rivelare troppo della trama, l'intera vicenda viene osservata dall'esterno ed è evidente come questa serie TV si proponga come una critica e una riflessione sulla società contemporanea. Il meccanismo e le regole che governano questa convivenza forzata sono singolari e intriganti, ma al contempo crudeli e spietate.
L'idea di partenza è brillante e ben congegnata. Il primo episodio, infatti, ha catturato la mia attenzione e stimolato il mio interesse. Tuttavia, con il progredire della serie, le situazioni e gli atteggiamenti dei personaggi risultano sempre più forzati e poco naturali, tanto da rendere difficile mantenere vivo l'interesse iniziale.
Sia la caratterizzazione dei personaggi sia le situazioni sono eccessivamente estremizzate, e questo si riflette sullo sviluppo degli eventi. Si respira un'aria di buonismo forzato, con i personaggi costantemente impegnati a mantenere le apparenze e a giustificare le azioni altrui, oltrepassando i limiti del buon senso. Questo rende accettabili comportamenti che, in una situazione reale, avrebbero probabilmente portato a conseguenze più immediate e drastiche. Se è vero che la premessa è già di per sé artificiosa, la caratterizzazione stereotipata dei personaggi rende il tutto ancora più innaturale e, dal mio punto di vista, fastidioso.
La serie presenta un'insolita combinazione di crudeltà e buonismo. Non mancano atti di cattiveria gratuita che, se da un lato rendono lo show più dinamico e forniscono materiale narrativo sufficiente a sostenere otto episodi, dall'altro risultano in continue forzature e comportamenti poco credibili. Devo ammettere che sono arrivato più volte vicino al drop.
Il finale, fortunatamente, è abbastanza soddisfacente, ma non posso fare a meno di considerare la serie come un'occasione sprecata, considerando l'ottimo spunto iniziale e il potenziale inespresso.
I collegamenti ad Amazon fanno parte di un programma di affiliazione: se effettui un acquisto o un ordine attraverso questi collegamenti, il nostro sito potrebbe ricevere una commissione.
Lo avrei anche già cominciato se non mi fossi incastrato sul finale di "Strong Woman Do Bong Soon" che è roba totalmente diversa. Vederlo così basso di valutazione mi crea qualche grattacapo.
Miriam22 mi stai forse dicendo che è meglio saltarlo subito e iniziare a guardare una serie in costume cinese?
Cosa si può dire degli altri?
"Battle Royale" torna ciclicamente, poichè è una pietra miliare del passato.
Oggi non lo trovo così significativo, però ritengo sia importante almeno conoscerlo.
Per capirci è come conoscere "Rashomon" o "Old Boy".
Poi ognuno fa la sua valutazione, anche bassa.
Squid Game è il prodotto più moderno che parla sempre di selezione/sopravvivenza.
In questo caso recensione di Alis89 sulla seconda stagione.
Seconda stagione che ha intrattenuto bene, anche se ho preferito molto di più la prima stagione.
Concordo con le due Valutazioni assegnate.
Devi eseguire l'accesso per lasciare un commento.