Kowaremono
Recensione di Slave Doll Mail to Order
Quando si parla di anime giapponesi, si pensa subito a capolavori come Neon Genesis Evangelion, Death Note o Your Name. Poi, però, esiste tutto un sottobosco oscuro di OVA anni ’90 e primi 2000 dai titoli improbabili, trame ancora più improbabili e una qualità che oscilla tra il “cult-trash” e il “perché qualcuno ha pensato che fosse una buona idea?”. Slave Doll Mail to Order rientra pienamente in questa seconda categoria.
Trama
La premessa è tanto semplice quanto assurda: in un futuro imprecisato (o forse in un presente alternativo mai spiegato), esiste un servizio postale che permette di ordinare bambole “vive” con funzioni da domestica, compagna e, ovviamente, schiava personale. La protagonista è una di queste “slave doll”, recapitata a un protagonista maschile che non ha una vera personalità se non quella di essere un cliché ambulante dell’otaku medio. Da qui parte una serie di situazioni grottesche, a metà tra la commedia erotica e il dramma da due soldi, con dialoghi che sembrano usciti da un traduttore automatico ante-Google.
Personaggi
Il protagonista maschile è il solito “self-insert”: senza nome, senza carattere, senza alcun motivo per cui qualcuno dovrebbe empatizzare con lui. È palesemente un avatar dello spettatore maschile. La “slave doll”, invece, è l’unico vero personaggio riconoscibile. Nonostante sia scritta con lo spessore di un cartone della pizza, ha almeno qualche sprazzo di ironia involontaria: il modo in cui prende alla lettera gli ordini, le espressioni stereotipate e l’ingenuità forzata creano momenti che oggi fanno più ridere che altro.
Stile visivo e animazione
Essendo probabilmente un OVA a basso budget, l’animazione è scarsa. Fondali statici, movimenti rigidi e riutilizzo eccessivo di scene già viste: è il classico prodotto pensato per il mercato home video, che puntava più sull’elemento “piccante” che sulla qualità tecnica. Lo stile dei personaggi tradisce la sua epoca: occhi giganteschi, proporzioni discutibili e una colorazione piatta che oggi fa molto “archeologia dell’anime”.
Temi e sottotesti
E qui arriviamo al punto più delicato. Il concetto di “bambola-schiava ordinata per posta” oggi verrebbe demolito all’istante come sessista, degradante e disumanizzante. Già all’epoca era materiale pensato per una nicchia di spettatori più interessati al fanservice che a riflessioni filosofiche. Tuttavia, guardandolo con occhio ironico, si può leggere come una caricatura estrema del consumismo: ordinare una compagna come fosse un pacco Amazon è l’incarnazione definitiva della società degli oggetti. Peccato che questa chiave di lettura non sia voluta, ma solo una conseguenza del tempo passato e del nostro sguardo più critico.
Valutazione complessiva
Slave Doll Mail to Order non è un anime da guardare per apprezzarne l’arte o la profondità. È piuttosto un reperto da videoteca polverosa, da citare nelle conversazioni tra appassionati come esempio di “trash vintage giapponese”. È uno di quei prodotti talmente sbagliati da diventare quasi interessanti, ma solo per chi ama scavare negli angoli più oscuri dell’animazione nipponica.
In conclusione, se cerchi emozione, dramma o estetica raffinata, stai alla larga. Se invece vuoi ridere di quanto assurdi e casuali potessero essere certi titoli dell’epoca, allora Slave Doll Mail to Order è un’esperienza che ti regalerà almeno un paio di sorrisi increduli. Non per la qualità, ma per l’assurdità.
Quando si parla di anime giapponesi, si pensa subito a capolavori come Neon Genesis Evangelion, Death Note o Your Name. Poi, però, esiste tutto un sottobosco oscuro di OVA anni ’90 e primi 2000 dai titoli improbabili, trame ancora più improbabili e una qualità che oscilla tra il “cult-trash” e il “perché qualcuno ha pensato che fosse una buona idea?”. Slave Doll Mail to Order rientra pienamente in questa seconda categoria.
Trama
La premessa è tanto semplice quanto assurda: in un futuro imprecisato (o forse in un presente alternativo mai spiegato), esiste un servizio postale che permette di ordinare bambole “vive” con funzioni da domestica, compagna e, ovviamente, schiava personale. La protagonista è una di queste “slave doll”, recapitata a un protagonista maschile che non ha una vera personalità se non quella di essere un cliché ambulante dell’otaku medio. Da qui parte una serie di situazioni grottesche, a metà tra la commedia erotica e il dramma da due soldi, con dialoghi che sembrano usciti da un traduttore automatico ante-Google.
Personaggi
Il protagonista maschile è il solito “self-insert”: senza nome, senza carattere, senza alcun motivo per cui qualcuno dovrebbe empatizzare con lui. È palesemente un avatar dello spettatore maschile. La “slave doll”, invece, è l’unico vero personaggio riconoscibile. Nonostante sia scritta con lo spessore di un cartone della pizza, ha almeno qualche sprazzo di ironia involontaria: il modo in cui prende alla lettera gli ordini, le espressioni stereotipate e l’ingenuità forzata creano momenti che oggi fanno più ridere che altro.
Stile visivo e animazione
Essendo probabilmente un OVA a basso budget, l’animazione è scarsa. Fondali statici, movimenti rigidi e riutilizzo eccessivo di scene già viste: è il classico prodotto pensato per il mercato home video, che puntava più sull’elemento “piccante” che sulla qualità tecnica. Lo stile dei personaggi tradisce la sua epoca: occhi giganteschi, proporzioni discutibili e una colorazione piatta che oggi fa molto “archeologia dell’anime”.
Temi e sottotesti
E qui arriviamo al punto più delicato. Il concetto di “bambola-schiava ordinata per posta” oggi verrebbe demolito all’istante come sessista, degradante e disumanizzante. Già all’epoca era materiale pensato per una nicchia di spettatori più interessati al fanservice che a riflessioni filosofiche. Tuttavia, guardandolo con occhio ironico, si può leggere come una caricatura estrema del consumismo: ordinare una compagna come fosse un pacco Amazon è l’incarnazione definitiva della società degli oggetti. Peccato che questa chiave di lettura non sia voluta, ma solo una conseguenza del tempo passato e del nostro sguardo più critico.
Valutazione complessiva
Slave Doll Mail to Order non è un anime da guardare per apprezzarne l’arte o la profondità. È piuttosto un reperto da videoteca polverosa, da citare nelle conversazioni tra appassionati come esempio di “trash vintage giapponese”. È uno di quei prodotti talmente sbagliati da diventare quasi interessanti, ma solo per chi ama scavare negli angoli più oscuri dell’animazione nipponica.
In conclusione, se cerchi emozione, dramma o estetica raffinata, stai alla larga. Se invece vuoi ridere di quanto assurdi e casuali potessero essere certi titoli dell’epoca, allora Slave Doll Mail to Order è un’esperienza che ti regalerà almeno un paio di sorrisi increduli. Non per la qualità, ma per l’assurdità.